I - Premessa
Si vuole analizzare la regione Dalmazia nella sua
struttura culturale, sociale, economica e linguistica per cercare di inserirla
a pieno titolo nel novero di quelle regioni "fucina" che l'Europa di
fine secolo e millennio sta mostrando. Si cercherà con esempi, dati e
considerazioni di analizzare i parametri tradizionali coi quali si è soliti analizzare
le strutture di Stato e di regione in relazione ai nazionalismi ed alle varie
rivendicazioni a cui questa regione ha dovuto sottostare. In particolar modo si
cercherà di verificarela tesi secondo la quale l'unicità e la peculiarità
dalmate sono di gran lunga più solide delle pur numerose rivendicazioni che
nell'epoca dei nazionalismi essa ha subito. Tutto ciò è visto in relazione al fenomeno sempre più comune della nascita
dei regionalismi e dei macroregionalismi sovranazionali. Si prenderanno in
analisi le interazioni culturali ed etniche mettendole in relazione agli
attuali scenari ed agli attuali attori politici, con riferimento alle mutate
situazioni balcaniche ed alla drammatica dissoluzione della vecchia Iugoslavia.
I limiti cronologici indicati nel titolo indicano
rispettivamente l'inizio della dura repressione degli Italiani in Dalmazia ad
opera del governo austriaco (sucessivamente alla terza guerra d'indipendenza
culminata nella battaglia navale di Lissa del 20 luglio 1866), repressione peraltro
già cominciata anche se in via meno incisiva sucessivamente ai moti europei del
1848, e la fine del Governatorato Italiano di Dalmazia sucessivamente alla
quale la presenza italiana si è quasi completamente azzerata (ovvero dopo
l'armistizio reso noto dal maresciallo
Badoglio l'8 settembre 1943).
I limiti cronologici indicati non sono però tassativi
essendo la storia di Dalmazia analizzata più sommariamente complessivamente
dalla prelatinità sino ad oggi.
II - Introduzione
E' noto che qualora si analizzi una regione europea
volendo definirne i termini territoriali ci si troverà come prima cosa a
cercare dei parametri. I parametri non hanno una forza assoluta ma relativa
alla storia ed alle vicende di quella regione. Ci si dovrà chiedere se questa
regione, o nazione, potrà essere analizzata secondo basi linguistiche,
piuttosto che religiose o geografiche[1]. Il concetto di etnia è molto ambiguo e spesso lo si
è inteso come la somma dei precedenti fattori unito anche ad una'idea di
comunanza razziale; questo aspetto non viene qui trattato intendendo le nazioni
europee sostanzialmente omogenee sotto questo pur importante profilo. Nel
vecchio continente le caratteristiche
somatiche sono per così dire di carattere statistico e quasi mai discriminanti;
la mescolanza è stata molto forte ed ha portato popolazioni latine al nord
(Romani) e popolazioni germaniche al sud (Longobardi, Vandali), popolazioni
slave ad ovest (Cechi, Croati) e popolazioni celtiche ad est (Traci). L'Europa
nella sua millenaria storia ha stratificato, a seguito di innumerevoli
mutamenti, differenti ed a volte inconciliabili fattori che non permettono se
non in rarissimi casi di stabilire confini logici ed equi, che spesso non
coincidono affatto con quelli politici. Tutto ciò ha dato vita ad una lunga
serie di rivendicazioni[2], nate e maturate a loro volta in tempi diversi, che
raramente hanno carattere univoco e che quasi mai si mostrano in maniera
analoga; ciò lascia spazio a nuove eventuali future rivendicazioni che
potrebbero nascere, anche se i casi più clamorosi sono evidenti da molti e
molti anni. Vi sono infatti immense differenze tra il terrorismo dell'IRA
nordirlandese, il vandalismo ai danni dei tralicci elettrici compiuto dai
sud-tirolesi negli anni sessanta oppure le richieste espresse più pacatamente
dagli autonomisti scozzesi. Lo stesso modo di porre queste richieste
autonomiste, o più raramente indipendentiste, dipende da molti fattori tra i
quali ne vanno sottolineati due: la reale evidenza di questi particolarismi e
di conseguenza il grado di vessazione culturale spesso subito, e poi la cultura
ed i modi, che molto mutano tra i popoli, di sostenere le proprie richieste
(anche in ciò la Iugoslavia barbaramente insegna con i massacri perpetrati ed i
bombardamenti subiti dalle città di Mostar, in Erzegovina, e soprattutto di
Ragusa, in Dalmazia, patrimonio storico-artistico mondiale protetto
dall'UNESCO).
In quest'epoca, in cui si sta cercando di svincolare le
regioni dai centralismi per cercare realmente il rispetto delle culture e delle
diversità, la Dalmazia dovrebbe essere una terra d'esperimenti e d'esempio per
la sua lunga e peculiare stratificazione di genti e culture. Ciò è tra gli
altri sostenuto da Renzo de' Vidovich studioso della Dalmazia (nonché dalmata
di Zara) che ha proposto alla Corte Europea l'istituzione dell'euroregione
Dalmazia[3], come gli Austriaci (con il solido appoggio dei
Tedeschi) hanno proposto l'istituzione dell'euroregione Tirolo (nella quale i
trentini rischierebbero di essere risucchiati dal polo germanico). Tesi analoga
a quella del de' Vidovich è sostenuta dal suo conterraneo Tullio Vallery[4], membro del Libero Comune di Zara in esilio di cui è
sindaco lo stilista Ottavio Missoni (nativo però di Ragusa), organizzazione che
raccoglie gli esuli dalmato-italiani in Italia e nel mondo. Anche gli esuli di
Pola e Fiume si sono costituiti nel secondo dopoguerra in Liberi Comuni in
esilio (con sindaci rispettivamente Vivoda e Schwarzenberg).
Anche in Istria si sta ora cercando di costituire una
euroregione sovranazionale ed il promotore principale è l'esule istriano
Luciano Del Bianco. I Croati, che pure sperano insieme agli Sloveni di entrare
al più presto nel Consiglio d'Europa e poi soprattutto nella Comunità Europea,
non accettano nemmeno lo spirito di queste iniziative, pur essendo questo già
stato richiesto dagli stessi Croati dell'Istria; ciò è in particolar modo
sostenuto dalla Dieta Democratica Istriana (DDI), che ha raccolto il 72% dei
voti di tutti gli istriani tra cui in massa quelli delle locali comunità
italiane (composte, pare, da oltre 30.000-40.000 unità e forse anche 50.000,
così quantificate recentemente dal professor Rota di Cittanova d'Istria[5]).
La DDI vuole un trilinguismo croato-sloveno-italiano e spera nel ritorno
degli esuli italiani (tant'è che il 40% delle terre istriane infatti non è
coltivato da ormai cinquant'anni); l'Italia, che possiede nella zona di Muggia
l'ultimo brandello settentrionale dell'Istria (circa 38 chilometri quadrati),
non può che incoraggiare questa pacifica strada appoggiandola con i capitali e
con gli imprenditori colà tanto richiesti. Alcuni Italiani stanno lentamente
tornando, specialmente anziani pensionati che tornano per trascorrere la
vecchiaia. In altri casi (come proprio a Cittanova d'Istria[6]) molti Italiani delle campagne istriane si sono
inurbati alimentando le piccole comunità cittadine, in altri casi (come a
Rovigno[7]) il centro storico compreso entro le antiche mura
conta ancora una scarsa metà di Italiani[8]; inoltre molti venivano conteggiati dai censimenti
iugoslavi come "regionalisti" (cioè dalmati, fiumani ed istriani)
nascondendo di fatto la loro appartenenza al ceppo veneto-italiano (altri
ancora, credendo nella ufficiale dottrina comunista, si definivano
semplicemente iugoslavi). Il governo croato ha scorporato la fascia costiera
dell'Istria aggregandola a Fiume (in realtà già sotto l'Italia
l'amministrazione era così organizzata) con il risultato che, al contrario di
ciò che le autorità desideravano, anche nella circoscrizione amministrativa del
Quarnaro la Dieta Democratica (qui detta Dieta Democratica Fiumana, DDF) ha
ottenuto un buon successo elettorale ed è presente nella giunta cittadina
(grazie alla Dieta sono state ripristinate nella toponomastica: Fiumara, via
Pomerio, Riva, via Manzoni, via Scarpa, via de' Adamich ma scritta Adamic,
Corso ma scritto Korzo ed altro[9]). Con la stessa logica Arbe e Veglia con Cherso e
Lussino (un tempo le ultime tre unite all'Istria) sono amministrativamente
unite a Fiume assieme a tutta l'ampia area montana della Gran Capella, Pago è
stata amministrativamente unita a Gospic e così via (stravolgendo tutti i
secolari confini con i relativi punti di riferimento amministrativi ed anche
culturali).
Ovunque la stagione dei regionalismi bussa alle porte del
terzo millennio col grande rischio di una strumentalizzazione, come sta
avvenendo in Italia. Essa sta contagiando tutta l'Europa storicamente
costituita da regioni e macroregioni più che da nazioni; in particolar modo i
macrosistemi economici in questo secolo hanno subito duramente le
"nazionalizzazioni" che li hanno ridotti entro i ferrei confini
nazionali. Soprattutto i porti erano stati chiusi in un'economia
prevalentemente nazionale più che nell'economia di un'area e di un sistema: si
pensi ad i porti di Trieste ed ancor di più al porto di Fiume (in conflitto per
anni con il limitrofo porto di Sussak) soffocati dopo l'annessione all'Italia,
oppure si pensi ai più antichi porti anseatici, veicoli commerciali e della
cultura germanica in espansione verso est. Spesso un costruttivo regionalismo
deve passare attraverso la mitigazione, vera o strumentale, dei nazionalismi
preesistenti nel quale le culture si scontrano arricchendosi e talvolta fondendosi.
Tutti i nazionalismi che si sono scontrati in Europa
(specie in Balcania) non possono contare su una totalità ed esaustività di dati
e precedenti storici. Vi sono in Europa regioni come la Transilvania dove
esistono confini storici ed in parte geografici ben stabiliti e dove anche
molti aspetti culturali sono omogenei; essa è stata indubbiamente la
congiunzione tra l'Europa centrale (Mitteleuropa asburgica) ed il resto della
Romania, ma in essa convivono più lingue (romeno, magiaro e tedesco) e più
religioni (ortodossa, luterana, calvinista, cattolica ed ebraica) senza che vi
sia sempre continuità tra terra, lingua e religione. I Romeni sono quasi tutti
ortodossi ma anche cattolici ed ebrei, gli Ungheresi cattolici ed anche
luterani, calvinisti ed ebrei, i
Tedeschi luterani, ebrei ed anche cattolici. Gli stessi Tedeschi (detti
Sassoni) e gli stessi Magiari (detti anche Secui) di questa terra hanno a loro
volta differenze di origine. Altrettanto marcata è la differenza culturale
(quando non religiosa) ed ovviamente dialettale tra i Romeni transilvani e
quelli valacchi o moldavi.
Non è certo risolutivo l'aspetto geografico, il quale ha
diversi ed incolmabili limiti. La storia infatti ha spesso disegnato regioni
con spiccate caratteristiche di omogeneità culturale ma in netto contrasto con
la geografia che le vedeva divise radicalmente (come i Baschi metà al di qua e
metà al di la dei Pirenei), mentre a volte regioni geograficamente compatte non
hanno nessuna compattezza culturale o linguistica. Ogni volta gli assertori del
proprio nazionalismo hanno evidenziato gli aspetti a loro vantaggiosi
sottacendo gli altri; ad esempio in Irlanda ad un palese confine geografico,
l'insularità, non coincide un'unità linguistica che anzi relega l'originario
elemento gaelico-irlandese ad una sudditanza numerica e culturale con solo l'1%
di madrelingua gaelici (ormai quasi tutti perfettamente bilingui con l'inglese)
ed un 13,5% di bilingui in gran parte recuperati con l'obbligatorietà
scolastica dello studio di quest'antico idioma imposta con l'indipendenza del
1921[10]; 3000 persone inoltre, nella zona prossima alle isole
Aran, costituiscono lo sparuto 0,1% rimasto anacronosticamente monolingue
irlandese[11]. Il dublinese William Butler Yeats, d'altronde, pur
durante il noto fenomeno del Celtic Revival (che ebbe numerosi ed importanti
sostenitori nel mondo della cultura) disse fieramente che la propria lingua
fosse sera quella di Shakespeare, meritandosi il disappunto dei puristi
celtici. La stessa città di Dublino ora ha ufficialmente affiancato alla
versione inglese di Dublin (d'origine probabilmente scandinava e non inglese,
peraltro) quella remotissima gaelica di Baile Atha Cliath, che era ormai
sconosciuta agli stessi Irlandesi. I nazionalisti Irlandesi hanno sopperito con
le tematiche religiose ed economiche. Le saghe gaeliche nei secoli sono
gradualmente passate nella lingua inglese senza traumi e senza perdere le
nobili origini ed i contenuti epici (il mito celto-gaelico riscoperto e cantato
nella vicina Scozia da Walter Scott).
La tematica economica, malgrado la purezza di taluni alti
spiriti, spesso è scatenante e riduce più nobili principi^ a mero pretesto;
comunque tuttora la componente protestante dell'isola tiene un innaturale
confine che lascia alla corona britannica sei contee dell'Ulster (oppure
gaelicamente Ulaidh), su nove, che sono irrinunciabili come avamposto
economico, culturale e militare; paradossalmente i protestanti (presbiteriani
soprattutto) dell'Ulster britannico sono quasi tutti d'origine scozzese (cioè
anticamente celtici).
Indubbiamente l'elemento linguistico è quasi sempre
determinante anche se a volte però è suscettibile di relatività come in
Corsica, in Sardegna, a Malta, in Galizia, nel Valenzano, in Friuli, in
Scandinavia (cioè Norvegia, Svezia, Danimarca, Islanda, Faer Oer), in Boemia,
in Slovacchia, in Carelia, in Estonia, in Ingria, in Bielorussia.
Linguisticamente la Scandinavia avrebbe potuto essere un solo grande paese se
la storia l'avesse indicato ma motivi politici e dinastici non l'hanno
permesso; addirittura in Norvegia ancora adesso non si è risolto il dualismo
linguistico tra "lingua libresca" (bokmal) e "lingua del
paese" (nynoesk)[12]. Incredibilmente a volte la linguistica
"modifica" la geografia attribuendo lo Jutland (attaccato alla
Germania, nonché vocabolo tedesco che significa terra degli Iuti, in danese
Jylland) alla regione della Scandinavia. In alcuni casi come per Jutland
l'italiano (così le altre lingue) usufruisce di prestiti da altre lingue: così
in italiano si dice Bucarest alla tedesca (Bukarest) e non Bucuresti, così si
dice Galles alla francese e non Wales, così si dice Copenaghen alla tedesca e
non Kobenhavn e così via. A volte invece è la storia e non la linguistica,
scienza ormai pura ed autonoma, a stabilire se un certo idioma ha le
caratteristiche necessarie per essere definito "lingua". Se la
Galizia fosse stata incorporata al Portogallo secoli fa, visto che vi si parla
il dialetto portoghese "gallego", sarebbe cristallina la sua
appartenenza al paese lusitano, ma così non fu ed essa cerca ora una autonomia,
senza certo arrivare ad un nazionalismo filoportoghese (addirittura il
"caudillo" Francisco Franco era galiziano, di El Ferrol; da lui
ribattezzato El Ferrol del Caudillo). Il confine ispano-portoghese, uno tra i
più antichi d'Europa, non è certo in discussione in quanto esso è immutato sin
dal 1297 pur non avendo la benché minima base geografica (essendo anzi assai
disomogeneo); le due lingue spagnola e portoghese declinano una nell'altra
dolcemente; solo i due secolari modelli di riferimento (culturale, commerciale,
scolastico, militare), ovvero Madrid e Lisbona, le hanno distinte in tal guisa
(in tutta l'Estremadura si parla infatti un dialeto ibrido). Questo
"declinare" di una lingua in un'altra avviene tra lingue di identica
famiglia (passando dal ligure al provenzale, attraverso il Varo come diceva lo
stesso Napoleone, si passa dall'italiano al francese), ma in casi più rari il
tutto si complica con la nascita di situazioni ibride come lo scozzese
(struttura inglese con elementi gaelici), il grigionese (struttura neolatina
con prestiti germanici) oppure il maltese (strana frammistione italo-araba);
questo in parte avviene anche in Dalmazia dove i Croati del luogo (attualmente
la schiacciante maggioranza della regione) parlano il ciacavo, un dialetto
slavo (serbo-croato) ricchissimo di elementi italiani (nonché veneti, preveneti
e latini).
Nella Scozia meridionale le popolazioni germaniche giunte
conquistatrici dal continente (Angli, Sassoni, Iuti) trovarono genti
celtogaeliche che assimilarono avendone in cambio parte del loro bagaglio
culturale (tra cui le note e già citate saghe) e linguistico (nonché fonetico
avendo l'angloscozzese, o semplicemente scozzese, un accento molto particolare
che tanta ilarità suscita negli Inglesi). I popoli Celti risultarono così
spaccati in due rami, quello gaelico (Gaelici di Scozia o semplicemente
Gaelici, Gaelici di Irlanda o semplicemente Irlandesi, Manx dell'isola di Man)
e bretone (Gallesi o celticamente Cimrici, Cornici o Cornovagliesi e Bretoni).
Relatrivamente al Galles, in gallese Cymru, solo il 19-20% degli abitanti parla
ancora in celtico (e sono praticamente tutti bilingui), mentre il passaggio
sotto la corona di Londra avvenne nell'ormai lontanissimo 1284[13]; recentemente il governo di Londra ha concesso la
realizzazione di una emittente televisiva il lingua gallese, concessione
rifiutata agli Scozzesi[14]. L'unità politica di questi dialetti, almeno
all'interno delle due famiglie celtiche, avrebbe certo significato unità
linguistica differendo essi di molto poco ed essendo essi tuttora
reciprocamente comprensibili. Ogni anno si compie uno strano pellegrinaggio,
vecchio di 1.500 anni, che vede gruppi
di turisti bretoni recarsi in vacanza in Galles e viceversa. Whisky, in Scozia,
diventa whiskey in Irlanda.
I dialetti grigionesi fanno parte della famiglia
dialettale ladina (ladino deriva ovviavente dalla definizione di
"latinus", latino) che, indipendentemente dalle palesi individualità,
fanno parte della più ampia famiglia delle lingue italiche (assieme al sardo,
all'estinto dalmatico e, ovviamente, all'italiano proprio); questi dialetti si
dividono in due famiglie: sottosilvani (zona calvinista di Sankt Moritz, in
ladino San Maruzzen) e soprasilvani (zona cattolica di Disentis, in ladino
Muster), divisi ulteriormente in cinque gruppi minori mai grammaticamente
uniformatisi tra loro. La struttura di essi è prettamente latina, ma molti
vocaboli sono di derivazione germanica (ma anche lombarda, come dur al posto di
duro); la fonetica è pure molto influenzata dalla lingua tedesca. Interessante
studiare il grigionese della Val Monastero, valle geograficamente appartenente
all'Alto Adige, e quindi all'Italia, mai germanizzatasi in quanto appartenente
da secoli ai Grigioni[15] (cantone federatosi entro la Confederazione
Elvetica), residuo di una ben più ampia zona ladina che fino all'inizio
dell'Ottocento comprendeva ancora l'alta Val Venosta e secoli addietro si
congiungeva ai dialetti ladino-dolomitici, ora confinati nelle valli
altoatesine di Marebbe, Gardena e Badia (oltre che in parte anche in Trentino
ed in provincia di Belluno). Rimangono in questa area paesi con tipici nomi
ladini (Gomagoi, Trafoi, Tanai germanicamente scritta anche Thanai) che non
hanno e non hanno mai avuto alcuna traduzione tedesca. Oltre ciò è importante
notare che fino al 1814 l'alta Val Venosta era parte della diocesi di Coira
(spesso sottovalutata è l'importanza dei confini tra diocesi, specialmente nei
secoli addietro, quando i vescovi avevano una funzione molto più importante di
quella odierna; sucessivamente si sono gradualmente fatti rientrare questi
confini entro quelli nazionali). Tutto ciò mostra chiaramente la dinamica dello
spostamento storico delle genti e quindi delle lingue, spostamenti quasi sempre
lenti e graduali (gli ultimi repentini e violenti grandi spostamenti di genti
che hanno interessato l'Italia si ebbero al tempo dei Longobardi); cartina alla
mano essi avvengono lungo le vie di comunicazione che in zona alpina sono
soprattutto le valli ed i valichi meno impervi. Così la zona ladino-grigionese
è stata spezzata in due dall'avvento di genti germaniche che hanno risalito la
valle del Reno Inferiore fino allo Spluga (dividendoli appunto in soprasilvani
e sottosilvani, nonchè in cattolici e proterstanti) tanto che nel tardo
Settecento anche il capoluogo grigionese di Coira si germanizzò quasi
completamente divenendo Chur (in ladino è detta Cuera). Da ciò si evidenzia
anche come la professione di una religione, come per le lingue, sia un fenomeno
lento e graduale relativo al naturale spostamento delle genti. Tutto ciò impose
il tedesco come lingua di cultura del cantone (solo le valli italiane, entro
cioè lo spartiacque alpino italiano, di Mesocco, Bregaglia e Poschiavo si
sottrassero, anche se non del tutto, a questa attrazione verso il mondo
germanico). Allo stesso modo genti germaniche giunsero in Alto Adige passando
per la non del tutto disagevole Val Pusteria germanizzandolo in grandissima
parte. Nel 1937, all'apice dell'era dei nazionalismi, il governo federale
svizzero elevò il ladino-grigionese a quarta lingua nazionale cercando in esso
una individualità che non fosse né tedesca, né francese e nemmeno italiana, ma
propria ed autoctona; questa lingua rimase e rimane però evidentemente
frazionata al suo interno non avendo un preciso ed unitario punto di
riferimento (modello) soprattutto dopo la "caduta" di Coira capoluogo
e centro culturale grigionese. Dal 1937 il quarto nome ufficiale della Svizzera
(in ladino) è Svizra.
Per quanto riguarda il maltese addirittura in esso la
proporzione tra elementi italiani ed arabeschi muta a secondo dell'argomento
(gli elementi italiani arrivano al 90% se l'argomento è relativo alla cultura,
calano con argomenti di carattere più modesto[16]). Gli Inglesi (a Malta già da 134 anni) in chiara
chiave antiitaliana nel 1934 eliminarono l'italiano come lingua ufficiale
dell'arcipelago (lo era sempre stato e dopo l'arrivo dei Britannici lo era
divenuto assieme all'inglese naturalmente) ed ineditamente promossero al rango
di lingua la locale parlata; nel 1964 Malta divenne indipendente[17] ma in realtà si liberò solo parzialmente dal dominio
degli Inglesi che la legarono a sé tramite il Commonwealth; infatti l'Ordine
dei Cavalieri Gerosolimitati di Malta non vi tornò rimanendo esule a Roma (dopo
essere stato esule a Nizza) e nemmeno l'antica e nobile bandiera crociata venne
ripristinata. Malta, scorporata dalla Sicilia, era stata indipendente fino al
1798 quando Napoleone, incurante del profondo significato storico-religioso
dell'indipendenza maltese la soggiogò, assai facilmente, mentre era in viaggio
per la campagna d'Egitto; tutto fu razziato e solo le alte barre d'argento del
duomo della Valletta si salvarono perché gl'ingegnosi maltesi pensarono di
pitturarle di nero facendole sembrare di piombo, beffando i Francesi; il tesoro
maltese affondò nelle stive delle navi francesi nella rada di Abukir colte
impreparate dalla flotta inglesi. Gli stessi Inglesi nel 1800 sopraffecero
l'esigua guarnigione francese di Malta (poche centinaia di uomini) senza però
reinstaurare il legittimo governo; il dominio inglese ed il definitivo esilio
dell'Ordine furono sanciti a Vienna nel 1815 (come pure il dominio sulle isole
Ionie, d'altro canto). Gli Inglesi si stanziarono stabilmenta controllando i
punti strategici del Mediterraneo (oltre a Gibilterra, dal 1878 essi ebbero
anche Cipro). Nei primi decenni del Novecento paladino dell'italianità di Malta
fu Enrico Mizzi, della Valletta, direttore della "Gazzetta Maltese"
fondata da suo padre Fortunato[18], incarcerato lungamente dagli Inglesi come
sovversivo; ancora nella seconda guerra mondiale Malta dette all'Italia
addirittura una medaglia d'oro al valor militare alla memoria (mai ritirata da
alcun parente), Carmelo Borg-Pisani, fucilato dagli Inglesi nel 1942 nel
carcere di Corradino a Paola (borgo presso la Valletta) per "alto
tradimento" avendo parteggiato per l'Italia[19]. Nel 1940 il venticinquenne Borg-Pisani, studente
universitario a Roma (dove il governo fascista aprì la Casa della Redenzione
Maltese), aveva scritto a Mussolini: "Sono ai vostri ordini...offro
l'opera mia per il coronamento del mio grande ideale: vedere la mia isola
restituita all'Italia"[20]. L'ex ministro e noto uomo di cultura maltese, De
Marco, ha recentemente affermato che "Malta non fu mai tanto britannica
quanto quando fu duramente esposta ai lunghi bombardamenti italiani"
sottolineando nuovamente la dannosità della politica fascista. La parlata
maltese è stata dai linguisti ascritta alla famiglia semitica (ovvero araba),
pur essendo il maltese (caso unico) scritto con caratteri latini (e senza nulla
dire del profondo attaccamento dei maltesi alla fede cristiano-cattolica,
storico veicolo di europeicità).
A volte i confini tra nazioni rispecchiano i confini di
vecchi dominatori (i confini croato-sloveno e ceco-slovacco coincidono con il
secolare confine tra Cisleithania austriaca e Transleithania magiara); ciò ha
separato popoli dando loro differenti apporti e condizionandone lo sviluppo
storico-culturale. La Leitha era il fiume a sud di Vienna che per un certo
tratto coincideva con il confine austro-ungherese. Probabilmente e secondo i
linguisti verosimilmente i similissimi popoli di Slovenia e Croazia sarebbero
potuti essere una sola cosa, così come i Cechi e gli Slovacchi (di cui infatti
è considerato dialetto di transizione il moravo).
In ogni caso sono i "modelli"[21] che hanno attratto verso il centro le periferie ed in
questo la Francia con il francese (langue d'oil) fu maestra cancellando di
fatto ben due lingue distinte: il provenzale (langue d'oc) ed il
franco-provenzale (evidenziato, a cavallo tra Savoia e Svizzera francese, verso
fine Ottocento dal linguista goriziano Ascoli). Le rivendicazioni devono sempre
avere una base culturale e la ricerca di un mito di suggestione collettiva,
come era Enea per Roma, mito che è fondamentale tant'è che i Francesi ancora
adesso preferiscono guardare all'antica Gallia celtica piuttosto che alla Roma
latina; Asterix, collocato nella celtica Bretagna (ma celtica per altri
motivi), non è casuale ma una costruita rivincita che va in questa direzione,
anche se ovviamente in modo inverosimile. E' noto a tutti che i Celti in
Bretagna "tornarono" attorno al V secolo d.C sospinti da Angli,
Sassoni e Iuti giunti nelle isole Britanniche da oriente, isole che i Celti per
breve avevano interamente rioccupato dopo l'abbandono delle legioni romane. Gli
originari Celti di Bretagna erano stati interamente annientati dai Romani e
dalla loro sucessiva centurizzazione. Una recente teoria nata in Inghilterra
identifica in re Artù il generale latino di probabile nome Arturius a capo
dell'ultima legione romana rimasta
sull'isola di Gran Bretagna come
retroguardia durante la ritirata romana e poi incoronato dai Celti quale loro
re durante la lotta contro i Germanici giunti dal continente; è inutile dire
che molti Inglesi siano rimasti assai colpita da questa teoria.
Certe nazionalità d'Europa hanno codificato la propria
lingua a metà del secolo scorso, come i Croati, altri addirittura solo circa un
secolo fa, come gli Sloveni, che prima venivano definiti unicamente
Carniolitici con un'espressione non culturale ma meramente geografica
(utilizzata dallo storico triestino Pietro Kandler nei sui studi sulle
popolazioni dell'Istria) o come i Baschi che solo grazie a Sabino Arana ebbero
bandiera, grammatica ed addirittura il proprio nome, Euskadi[22], nel tardo Ottocento. Così i nazionalisti corsi
parlano di lingua corsa in frontale contrapposizione a quella francese perché
il legame con l'Italia (con la Repubblica di Genova) si interruppe già nel
1768, nonché per motivi politici, mentre se la Corsica fosse una regione
d'Italia, come inconfutabilmente disegnato dalla geografia, essi non avrebbero
nessun pretesto per avanzare richieste di autonomia linguistica. Quando la
superba (l'ormai decadente Repubblica di Genova) per motivi economici e per
l'incapacità di governarla decise nel 1768 di vendere la Corsica (dove Giacinto
Paoli, padre di Pasquale, aveva animato la rivolta già nel 1729) la offrì in
primo luogo al granduca di Toscana che non si dimostrò interessato; accettarono
invece i Francesi che pure fino al 1811 non la considerarono nemmeno territorio
metropolitano ma al pari di un possedimento oltremare (fu naturalmente
Napoleone a farne cambiare la condizione). I Francesi di li a poco
evidenziarono mire pure sulla Sardegna. Sempre sotto Napoleone la sua natale
Aiaccio divenne capoluogo a danno di Bastia; ciò fu dovuto sia a motivi
personali e campanilistici e sia al fatto che Bastia guardasse l'Italia da
troppo vicino; in un primo tempo anche l'isola di Capraia, distante solo 27
chilometri dalla costa corsa, passò dalla Superba alla Francia con gli accordi
di Versailles il 15 maggio 1768 (fu poi assegnata al Granducato di Toscana con
la pace di Vienna del 1815). Le rivolte antigenovesi scoppiate nel Settecento
non avevano minimamente carattere etnico, ma erano semplicemente una dura
risposta alla continua imposizione di tributi da parte di Genova che viveva una
profonda crisi economica; inoltre il carattere di tutti gli isolani è
tradizionalmente poco incline a chiunque porti qual si voglia ingerenza
esterna. Relativamente a chi parla di lingua corsa si può aggiungere qui che i
dialetti corsi sono tutt'altro che omogenei, subendo la spaccatura geografica
tra Banda di dentro (costa che guarda l'Italia, detta dai Corsi "di qua
dai monti") e Banda di fuori (costa che guarda il mare aperto, detta dai
Corsi "di la dai monti") la quale li divide radicalmente in
cismontano di Bastia (simile al toscano dell'Elba e di Livorno) ed oltremontano
di Aiaccio, Ajaccio nella scorretta grafia adottata come ufficiale in Francia
(simile al sardo-gallurese detto appunto sardo-corso). Il modello linguistico
adottato dagli autonomisti corsi è quello di Aiaccio (città pur più piccola e
meno popolosa di Bastia), che è un poco più lontano dal modello letterario
italiano (al quale appunto maggiormente si avvicina il dialetto di Bastia). Un
proverbio dell'isola solennemente ed insindacabilmente recita: "Da capo
Corsu a Bonofaziu aria de Roma e mare de Laziu"[23]. Di fatto il dialetto corso di Bastia in termini
assoluti è, dopo il toscano, il più vicino al modello italiano letterario (cioè
il fiorentino). Sino ad attorno al 1870 l'italiano rimase, anche se mal
tollerato dalle autorità, lingua di cultura in Corsica[24] (che proprio in quegli anni rimaneva esclusa dalla
nascita del Regno d'Italia con disappunto di molti, tra cui di Garibaldi che
albergando a Caprera si recherà spesso sulla vicina isola), sostituito
ufficialmente dal francese ma presso gli indipendentisti soprattutto dal
dialetto corso con sola eccezione durante l'occupazione italiana (1940-1943);
attualmente in Corsica solo qualche sparuto opuscolo clandestino ed
indipendentista è stampato in lingua italiana.
Con gli stessi parametri si può dire che, forse, se la
Sardegna avesse continuato la propria esperienza autonomista (ma non ne aveva
certamente la forza strutturale) dai tempi della "giudichessa"
d'Arborea quando venne creata la modernissima "Carta de Logu", forse
oggi essa avrebbe maturato una struttura linguistica, culturale ed economica
autonoma o magari indipendente. Pur ritenenuto da moltissimi linguisti una
lingua autonoma, il sardo non ha mai avuto una codificazione letteraria
completa, tant'è che vi è una grossa differenza tra dialetto campidanese e
dialetto nuorese; inoltre il gallurese (sardo-corso) è considerato italiano a
pieno titolo e non sardo, subendo l'influenza del "ponte corso",
tramite fondamentale ed insostituibile con la penisola italiana.
La Scozia (celticamente detta Alba) rivendica la propria
autonomia e la non ingerenza inglese fin dal 1320 con la famosa dichiarazione
di Arbroath[25] (e con la sucessiva epistola inviata al papa), la
quale recitava: "Noi lottiamo non per la ricchezza o per l'onore ma per la
sola libertà che un vero uomo non perde se non con la vita"; nel 1305 era
stato giustiziato a Londra l'eroe nazionale scozzese William Wallace (precedentemente
catturato a Glasgow con l'inganno). L'elemento linguistico originario (cioè
gaelico) era però già allora relegato in secondo piano e venne riscoperto
solamente nel secolo scorso tramite il più generale Celtic Revival. Nel
Cinquecento, con la riforma di John Knox, le differenze portate dalla riforma
religiosa calvinista (detta qui presbiteriana) accentuarono la spaccatura con
l'Inghilterra, che però non fu mai principalmente linguistica ma economica e
culturale (e sucessivamente, come si è detto, anche religiosa). In quest'ultimo
periodo il nazionalismo scozzese sta riprendendo vigore, come tutti i
particolarismi e regionalismi europei d'altronde; ciò avviene anche in seguito
alla caduta di alcuni punti di riferimento ideologici che vengono così
sostituiti; il Partito Nazionalista Scozzese (SNP) ha trovato celeberrima voce
nel notissimo attore Sean Connery, di Edimburgo, apertamente schieratosi per la
totale indipendenza dall'Inghilterra (cessata nel lontano, ma non dimenticato,
1707). Così si è recentemente espresso il noto attore scozzese: "La Scozia
merita di essere indipendente. Saremo tutto quello che abbiamo voglia di essere
o di non essere. Per me la chiave della nostra storia è il 1707, quando la
Scozia venne venduta all'Inghilterra per un tozzo di pane[26]".
Vi sono autonomie antichissime che non hanno che ragioni
economiche (magari esauritesi secoli orsono), campanilistiche, storiche o
dinastiche come quelle tradizionali dell'ex Impero (i cui residui attuali si
trovano nel Lussemburgo e nel Liechtenstein, dove è attivo un comitato che
vorrebbe un referendum per chiedere l'unione con la vicina e ricca Svizzera);
vi sono autonomie rivendicate da popoli con reali e forti caratteristiche
autonome, arrivate tardivamente perché questi popoli non avevano nemmeno la
coscienza d'essere tali. Inoltre taluni popoli come i Baschi, i Gallesi, i
Cornici (linguisticamente estintisi nel tardo Settecento), i Catalani, i
Galiziani, i Bretoni, i Provenzali o gli Scozzesi erano parte di potenti nazioni
la cui forza ad un certo punto si estinse facendo così cessare le possibilità
offerte ai cittadini in termini di successi personali e di affermazione anche
oltreoceano. Soprattutto la Spagna sta subendo al suo interno rivendicazioni
indipendentiste ed autonomiste che vanno ben oltre la logica storica (Paesi
Baschi, Catalogna, Baleari, Comunità Valenzana, Navarra, Galizia, Canarie,
Aragona, Asturie, Andalusia), motivate però soprattutto politicamente ed
economicamente e non culturalmente e storicamente. Spesso lo Stato centrale ha
fatto pressione sui gruppi più influenti delle minoranze facendo loro
concessioni per averne in cambio fedeltà o quanto meno servilismo; così come la
famiglia di Napoleone Buonaparte tradì l'ampia fiducia di Pasquale Paoli e del
suo movimento nel quale si era a lungo impegnata in cambio di vantaggi
economici (e ne aveva assai bisogno) e del riconoscimento della lontana nobiltà
toscana (forse lucchese o sarzanese). Pasquale Paoli di Morosaglia (piccolo
borgo presso Bastia) commosse l'Europa del Lumi ed in ispecie l'Inghilterra
(morì poi esule proprio a Londra, nel 1807) con la sua dedizione alla lotta per
la libertà ripresa ed idealizzata poi da alcuni addirittura durante la guerra
d'Indipendenza Americana[27]; il suo testamento (scritto a Londra, ovviamente in
italiano) risulta a proposito uno struggente misto di politica ed ideale.
Bastia negli ultimi anni del Settecento e nei primi
dell'Ottocento fu un attivo centro culturale che oltre al citato Paoli vide
operare anche il pisano Filippo Buonarroti, espulso come sovversivo dal
Granducato di Toscana, il quale diverrà direttore del Giornale Patriottico
di Corsica[28] (3.000 copie a numero per un periodo invero
abbastanza breve) portatore di rivoluzionarie, per allora, idee democratiche. A
"Pascal Paoli" (Pasquale Paoli) nel 1976 (con reale apertura solo nel
1981) il Governo Francese ha recentemente beffardamente intitolato l'Università
corsa di Corte voluta dallo stesso Paoli[29] durante la rivolta antifrancese nella quale gli insorti
corsi videro l'arrivo delle navi inglesi in loro soccorso cacciando
momentaneamente i Francesi dall'isola (1794[30]); gli intellettuali inglesi furono assai vicini alla
Corsica anche se la marina inglese aveva utilitaristicamente visto nella
Corsica "solo" un possibile solido balurdo mediterraneo, poi cercato
e trovato, altrove (Minorca, Gibilterra, Malta, Lissa, isole Ionie, Cipro,
Alessandria d'Egitto). Il colto Luciano Buonaparte mai perdonò al fratello
maggiore Napoleone l'aver abbandonato la causa corsa che ancora nei primi anni
trascorsi come ufficiale in Francia aveva così fortemente caldeggiato, per
contro Luciano Buonaparte si meritò da Napoleone l'appellativo di
"fratello ribelle". Napoleone non era nato cittadino genovese per
pochi mesi, essendo nato nell'agosto del 1769. Dal 1796 egli mutò il proprio
cognome in Bonaparte, mentre nello stesso anno si recò in Toscana a San Miniato
presso alcuni parenti a cercare documenti che attestassero la sua lontana
nobiltà. Di li a poco mutò pure il suo nome proprio che divenne Napoléon,
completando la metamorfosi. Sono famose le sfuriate dellImperatore di Francia
con i numerosissimi parenti, ovviamente in dialetto corso, pure gli scritti
napoleonici, quando in francese, sono redatti in un pessimo francese.
L'ultimo grande momento dell'indipendentismo corso si
ebbe tra le due guerre mondiali, specialmente a ridosso della seconda, dove
molti Corsi ricominciarono apertamente a guardare all'Italia. A Livorno il professor
Francesco Guerri fondò la rivista Corsica antica e moderna, che seguiva
l'Archivio storico di Corsica di Gioacchino Volpe. All'Università di
Pisa i numerosi studenti corsi (tra cui spiccavano Giovacchini, Angeli e Poli)
fondarono i "gruppi di cultura corsa". Tutto ciò, finita la seconda guerra mondiale, si risolse
nell'ottobre del 1946, quando il Tribunale per la difesa dello Stato francese,
riunito a Bastia, condannò a morte i patrioti corsi Poli, Angeli, Giovacchini,
Marchetti, Luccarotti[31] e Grimaldi; si salvò solo il Grimaldi che era esule
ed apolide in Italia e per il quale la Francia non chiese l'estradizione a
causa del grave imbarazzo politico che l'intera vicenda aveva suscitato. Nel
frattempo un analogo tribunale decreterà ad Algeri l'impiccagione del
colonnello Cristofini e del parigrado Pantalacci, ufficialmente per
collaborazionismo con il nenico (italiano) ma in realtà perchè avevano
auspicato l'annessione all'Italia della loro isola; per lo stesso reato lunghe
pene in Caienna scontarono il colonnello Mondielli e la giornalista Renucci[32]. Sempre a Bastia durissime pene furono inferte a
monsignor Domenico Carlotti[33], al dottor Croce, conservatore degli Archivi di
Stato della Corsica, ed a Petru Rocca segretario del Partito autonomista
corso[34].
In altri casi le minoranze (come i Baschi) hanno visto la
classe detentrice del potere economico girare le spalle al potere centrale (di
Madrid) per motivi sia patriottici sia d'interesse personale; probabilmente i
Baschi di Spagna, se fossero indipendenti, sarebbero una piccola ma ricca
nazione. La Francia diversamente ha lungamente tollerato entro i propri confini
cellule del movimento terroristico dei Baschi di Spagna, ponendo la condizione
non scritta che le loro azioni si volgessero nel versante iberico dei Pirenei.
La Francia relega appositamente la propria popolazione basca, come quella corsa
o bretone, in una sudditanza economica da cui non si può emancipare, in una
sorta di ricatto. I Corsi residenti in Corsica ora sono solo 260.000 circa,
mentre si suppone che gli oriundi di questa terra costretti negli anni ad
emigrare per il mondo siano oltre un milione, non solo in Francia, dove hanno
preferito stanziarsi a Parigi e nei porti di Nizza, Marsiglia e Tolone, ma
anche oltremare (gli oriundi corsi sono curiosamente il 4% nella lontana isola
caraibica di Porto Rico[35]) e ciò ha avuto la finalità di far perdere loro la
propria identità. Molti di essi si impiegarono nella pubblica amministrazione,
francesizzandosi velocemente. A ciò si aggiunga che la Corsica fino al 1972 è
stata aggregata alla regione Provenza-Costa Azzurra-Alpi-Corsica essendone un
semplice dipartimento all'interno della quale regione risultava annullata
quantomeno numericamente. Per quanto concerne la Bretagna (annessa alla Francia
nel 1491) essa non ha nemmeno i confini della sua antica ed autonoma contea; il
suo capoluogo culturale, Brest, non è nemmeno capoluogo di dipartimento e
Rennes, culturalmente ed addirittura geograficamente ad essa estranea, ne è
diventato il capoluogo regionale; il suo celtico nome originale è Armor. La
Francia è sempre stata abile nel costruire regioni e dipartimenti che
mettessero in secondo piano gli elementi ad essa estranei ed alloglotti, come
nel 1860 quando alla neoacquisita Contea di Nizza venne aggregata la zona
provenzale di Grasse e Cannes creando così un inedito dipartimento. Sopra ogni
cosa risulta fondamentale che in Francia l'unica lingua ufficiale ed insegnata
nelle scuole è il francese, con buona pace dei principi^ di libertà ed
espressione codificati fin dal lontano 1789. In Corsica non si possono avere
nomi propri italiani, ma solo francesi, tanto che il capo del movimento
indipendentista corso, Edmondo Simeoni, all'anagrafe risulta chiamarsi Edmond;
anche i negozi e le insegne pubbliche devono avere nomi francesi e così alcuni
Corsi spesso danno ai propri ristoranti nomi dialettali, aggirando l'ostacolo.
Mitterand aveva accettato per i Corsi la definizione di popolo corso
all'interno del popolo francese; Chirac ha privato i corsi di questo pur
modestissimo e simbolico riconoscimento con fare balcanico e medioorientale (si
pensi ai Curdi, in Turchia ufficailmente definiti Turchi delle montagne).
In queste intricatissime considerazioni è consolante e
significativo che per molti popoli del mondo il proprio nome nella propria
lingua significhi solamente e semplicemente: la gente. Questa rapidissima introduzione
vuole solamente dimostrare con alcuni esempi come fra tutti quelli possibili
non possa esistere un parametro unico ed uniforme per definire i confini equi
tra le nazioni e che addirittura, indipendentemente dai confini politici, a
volte non si possa nemmeno distinguere un popolo da un gruppo.
III - La relatività dell'idea di
nazione
Intorno al 1871 gli studiosi di problematiche nazionali,
allora erano ancora solo i politici stessi, poterono trarre parecchie
conclusioni relativamente all'annessione dell'Alsazia[36] e di una parte della Lorena (provincia di Metz),
costituenti poi un nuova unica unità amministrativa (per motivi campanilistici
e d'equilibrio tra i vari Lander), da parte della nascitura Germania a danno
della Francia sconfitta a Sedan dagli efficientissimi eserciti prussiani.
Queste considerazioni divisero loro in due correnti contrapposte, schematizzate
un secolo più tardi da Smith[37]: una vedeva la nazione come nucleo statico
(perennismo parmenideo), l'altra la vedeva in evoluzione e movimento
(variabilità eraclidea) e reputava che essa si autoeleggesse in ogni nuovo
momento storico. Questa diattriba si riaprì in chiave più complessa, essendosi
ampliato lo scenario dopo Versailles nel 1918, quando in seguito alla
"rivincita" francese tali territori tornarono a dipendere da Parigi.
La Francia, in numeri, nel 1918 incorporò (o meglio reincorporò) così 1.634.000
tedescofoni. Il problema verteva sostanzialmente sulla scelta del parametro da
scegliersi per assegnare questi territori
anche se in realtà vi erano sottintesi grossi interessi industriali,
militari e di prestigio. Questi territori erano per lingua in grandissima parte
tedeschi per lingua (95% in Alsazia, 75% in Lorena, dati in lento movimento a
favore dei Francesi, specialmente nella mistilingue provincia di Metz di
dialetto tedesco-lussenburghese) ed in parte addirittura protestanti[38] ma i suoi abitanti, pur di chiara ascendenza
germanica, avevano convissuto con i transalpini fin dal 1648 nella parte
meridionale di Colmar e dal 1681 nella la zona di Strasburgo ed avevano
assorbito molto della cultura francese specialmente nel periodo rivoluzionario,
quando essa aveva primeggiato in Europa dando agli stessi alsaziano-lorenesi
prestigio ed orgoglio nell'essere e soprattutto nel sentirsi Francesi. Inoltre
quando questi territori furono persi dall'Impero a vantaggio del Regno di
Francia si trattò semplicemente di un indolore cambio di sovrano che non
intaccò lo spirito degli alsaziani; solo con l'Ottocento e con l'affermarsi
dello Stato nazionale il problema si pose in questi termini riesplodendo
periodicamente nel 1870, nel 1918 e nel 1939 (e forse riesploderà ancora, in
maniera differente, con l'Europa delle regioni). Incredibilmente il primo
documento in tedesco ed il primo in francese è un testo bilingue (datato 870)
trovato proprio Strasburgo (in francese Stasbourg, in tedesco Strassburg); esso
ha il valore della Carta di Capua (960) italiana sia per la Francia sia per la
Germania.
Stando ad una impostazione francese ed italiana (Rousseau
e Mazzini[39] sopra gli altri) era il popolo che si autoeleggeva
per scelta e slancio senza che vi fossero basi rigide, quasi scientifiche,
sulla sua appartenenza. In Italia va segnalata la posizione di Crispi che si
schierò apertamente per la teoria "tedesca" ed a favore di un'Alsazia
ancora sotto la Germania[40]. I Tedeschi, più rigidamente, facevano del mito della
lingua, della terra, della tradizione, della razza e della contemporanea
presenza di questi elementi inscindibili l'unico vero parametro. Come ha
sottolineato lo storico valdostano Chabod[41] nel suo studio sull'idea di nazione, nella Prussia
degli Junker ebbe fortuna la teoria del conservatorismo agrario di Moser che si
rifaceva ai miti delle saghe germaniche ed addirittura a residue credenze
pagane le quali non erano completamente scomparse nella profonda coscienza dei
Tedeschi. Infatti i Tedeschi, specialmente quelli delle regioni orientali come
Slesia, Prussia e Posnania, nella loro corsa ad est (Drang nach Osten) avevano
incontrato popolazioni (Slavi e Balti) di tarda cristianizzazione; oltre a ciò
l'incontro, durante le guerre dell'Ordine Teutonico, con questi altri popoli
aveva cementato la coscienza tedesca. In realtà popolazioni germaniche più o
meno numerose si stanziarono in tempi diversi in quasi tutto l'oriente europeo
(Baltico, Budapest, Banato, Transilvania, Boemia, Galizia, Volga, San
Pietroburgo e così via). Herder, teorico dell'idea di nazione, nel Settecento
giudica in maniera assolutamente negativa l'avvento in Germania del
cattolicesimo romano considerato veicolo di corruzione morale[42]. Anche Weber giudicherà il cattolicesimo come un
freno alle iniziative economiche e culturali dei popoli evidenziando che in
regioni a confessione mista la componente protestante (luterana ed ancor più
calvinista) prevalesse, come in Baviera oppure in Renania[43]. I Tedeschi, a proposito di nazionalità, omettevano
volontariamente di discutere alcuni argomenti come la pressione sulle minoranze
polacche in Prussia ed in Posnania o come la questione religiosa che avrebbero
spaccato, secondo la loro rigida teoria, il paese in diverse aree (Bismarck
nella sua infruttuosa crociata anticattolica, durante il Kulturkampf, lo
dimostrò).
Per quanto concerne l'altra più flessibile teoria, che
trovava seguaci in Italia ed Inghilterra oltreché in Francia, si può facilmente
obiettare che, per quanto radicata una cultura possa essere, le opinioni degli
uomini sono, per definizione, mutevoli; questo si inserisce quindi nella teoria
eraclitea (non assolutezza dell'idea di nazione[44]). Un esempio significativo è il Lussemburgo, Stato
indipendente che fece parte della Confederazione Germanica, dove la quasi
totalità degli abitanti parla tedesco (99%, il così detto dialetto
lussemburghese) ma ama spessissimo apparire francese (già dal tardo Ottocento).
Forse intimamente i Lussemburghesi temono la Germania che annettè il loro paese
nel 1940 (e dal 1942 impose la coscrizione obbligatoria). Per un lungo periodo
la grande forza attrattiva del modello linguistico francese attrasse a sè, al
pari dei Lussemburghesi, i Belgi di lingua fiamminga; negli ultimi decenni ciò
è stato superato a causa l'aspro dualismo culturale fiammingo-vallone (solo
parzialmente risolto dalla nuova costituzione federalista del 1993).
A tutto ciò si aggiunga come in tempi moderni lo studio
sulle nazioni e sui nazionalismi si stia spostando sempre più verso tematiche
economiche e quindi verso federalismi economici e fiscali, allontanandosi dalle
spinte più ideali dei primi nazionalismi come quelli risorgimentali; ciò sta
avvenendo soprattutto tra gli studiosi statunitensi, come Gellner[45], che dimenticano completamente gli aspetti emotivi di
suggestione patriottica motori di molti fenomeni in Europa fino a cinquanta
anni fa e forse anche ora. Altri studiosi nordamericani, come Anderson[46], cercano nuovi modelli di analisi della società nei
mezzi di comunicazione di massa e nel loro utilizzo cercando, tramite essi, di
analizzare problemi di carattere etnico all'interno della società americana; in
America per comunità si intendono quella ispanica, quella afro-americana,
quella ebraica, quella cino-americana e così via. Anderson vede nella coscienza
di massa, cementata dai mezzi di comunicazioni, un veicolo di appartenenza e
condivisione della soscietà[47]; estremizzando questo concetto si arriva ad un'idea
di immortalità del singolo in quanto parte del gruppo al quale il singolo
contribuisce direttamente.
Malgrado questi sforzi, la società europea è molto
differente da quella statunitense ed alcuni avvenimenti rimasti latenti stanno
ora tornando a riproporsi, a volte in maniera cruenta, specialmente nelle zone
balcaniche. Urgono ora nuove ed attuali risposte.
IV - Considerazioni teoriche
Non è facile inquadrare una problematica di carattere
etnico in uno schema ed in un modello prestabiliti; probabilmente ogni singola
situazione potrebbe regalare alla teoria un nuovo ed inedito modello. Per
quanto riguarda la Dalmazia si deve cominciare col dire che essa, non essendo e
non essendo mai stata una nazione, è da considerarsi tutt'al più una regione
storicamente contesa tra più nazioni (Italia, Croazia e Serbia) e non una
patria in cerca della propria identita o indipendenza. Un contendere così
freddo realmente mortificherebbe i contenuti storici e culturali di quella
terra e di quelle genti che in realtà vanno ben oltre la politica. Inoltre il
caso alsaziano dimostra come il dualismo parmenideo-eracliteo (cioè perennismo
o non perennismo etnici) possa essere applicato anche solo ad una parte di
territorio e non necessariamente ad una nazione intera. Infatti è solo la
Dalmazia storicamente in bilico tra il mondo latino e quello slavo e non certo
tutta la Croazia. Ci si deve quindi chiedere se la presenza di un mito, detto mytomoteur[48], elemento fondamentale in una nazione, possa essere
evidenziata in una regione solamente oppure in una nazione intera, considerando
inoltre che la differenza tra le due entità spesso è sottile: a volte nella
storia vi è stato il passaggio da regione a nazione o viceversa. Non si trovano
qui comunque solidi esempi di mito regionale, in quanto solitamente quando essi
nascevano la regione tendeva a divenire nazione o a divenirne il nucleo
centrale. Storicamente quando una regione cresceva dal punto di vista economico
e culturale essa poteva divenire centro e motore regionale per la sucessiva
nascita di una nazione (la regione parigina per la Francia, l'Olanda per i
Paesi Bassi, il Kent per la Gran Bretagna e così via). L'Italia ebbe più poli
di aggregazione (Roma, Napoli, Torino, Venezia, Milano, Genova) da cui deriva
la così ampia ricchezza culturale e regionale. Sembra quindi possibile poter
avallare la tesi eraclitea visto che continuamente nascono nuovi nazionalismi
ed altri ne muoiono (o solo si assopiscono: si pensi all'isola di Man oppure
alla Cornovaglia dove si sta vivendo un nuovo Celtic Revival che
vorrebbe addirittura "rianimare" lingue moribonde o addirittura
"resuscitare" lingue completamente estinte ed anche da ciò dare forza
al proprio particolarismo).
Un mito dalmata (o "dalmato" come spesso
erroneamente dicono dialettalmente i Dalmati italiani) non esiste, esiste però
la consapevolezza della comune origine illirica della quale molte
caratteristiche, anche "fisiche", permangono (come l'alta statura).
Si conosce inoltre un legame con il territorio antichissimo (almeno 2.500 anni)
che non si è mai interrotto, territorio tra l'altro molto particolare (infinità
di isole frastagliate e porti naturali). La latinità e la veneticità sono
sicuramente dei trascorsi comuni a tutti i dalmati ma, per motivi politici,
vengono spesso tralasciati dalla componente croata. Questa omissione può essere
ricollegata al timore atavico del vicino, avendo nei secoli Venezia conquistato
(culturalmente ma non solo) queste terre. Ci si può chiedere se il timore del
vicino, nella teoria, possa essere inteso anche come complesso d'inferiorità
culturale come accadde per i Romani nei confronti dei Greci; queste
considerazioni lascerebbero intendere una risposta positiva. Si spiegherebbe
così l'astio dei Croati nazionalisti, sovente anche dalmati, contro la cultura
italiana che viene negata e rinnegata per esempio a Ragusa (detta anche l'Atene
di Dalmazia, per lo studio delle scienze) e spesso vilipesa come con le
centinaia di leoni alati scalpellati e distrutti in questo secolo; lo scempio
dei leoni alati si è ora interrotto essendo essi originalmente considerati
"leoni croati" tanto che a Veglia sono stati liberati dai muri nei
quali erano stati cementati e nascosti ed al castello dei Frangipane (famiglia
veneta d'origine romana ora mutata in Frankopani) a Tersatto presso Fiume un maestoso
leone alato è stato portato spostandolo dalle sede originaria (i Veneziani mai
presero il forte di Tersatto). Alcuni membri della famiglia Frangipane
compaiono ora sulle banconote (da 5 kune) della repubblica di Croazia.
Spostandosi su questioni più prettamente etniche, si può
dire che la Dalmazia in Europa fu considerata parte d'Italia senza nemmeno
dubbi fino all'Ottocento e che fino ad allora i Dalmati guardassero all'Italia
come patria ideale ed idealizzata. Associare il mondo dalmata a quello croato o
bosniaco è storicamente scorretto. Si sa che l'idea di Italia è molto precoce
nello scenario europeo, a differenza della sua reale unificazione (per di più
sempre più o meno parziale). Tutto mutò con la nascita, nei territori più interni,
di un nuovo polo con la sua forza attrattiva e con i suoi solidi miti che
furono: precoce esistenza di un regno medioevale, antico mitico sovrano, lotta
disperata al nemico turco, resistenza al dominatore, rinascita culturale, lotta
religiosa, riconquista dell'indipendenza[49]. Tutto ciò fu la coscienza croata, giunta a metà
Ottocento. Inoltre la componente (la minoranza) italiana in Dalmazia già era
strutturata in maniera che non poteva resistere facilmente, anche a causa di un
fortissimo elemento mortificatore com'era il governo austriaco. La componente
italiana era molto verticalizzata[50], vi erano cioè molti nobili, mercanti e possidenti
che erano forti depositari della cultura e della coscienza nazionale; essi
dalle città gestivano tutta la regione e tutto il contado in grandissima parte
slavo (non solo e quando slavo non solamente croato). Ciò li espose a più
fattori negativi: furono facili da localizzare e colpire (sia dai Croati sia
dagli Austriaci), furono visti da molti Slavi come dei nemici anche per
questioni economiche e sociali (ciò mentre nasceva il socialismo) e divennero
quindi acerrimi e vulnerabili avversari politici. Inoltre in molti casi essi
fuggirono in Italia rinunciando a difendere la propria identità od addirittura
passarono, per convenienza, dalla parte croata. Oltre ciò il contado
numericamente soverchiante e croato stava acquistando coscienza e coraggio,
come fecero in quell'epoca gli Estoni ed i Lettoni contro i Tedeschi delle
città baltiche oppure i Romeni contro i Magiari delle città transilvane. Per
molti anni la città, con la sua classe dominante, soggiogò il contado che
nell'Ottocento cominciò la sua emancipazione e riscossa[51] (anche in seguito all'inurbamento di molte masse
povere ex-contadine). In questa situazione più generale si inserisce la
Dalmazia, che ha quindi semplicemente seguito la storia la quale ha spesso
schiacciato i particolarismi cercando di riportarli ad una situazione di
linearità ed omogeneità nazionale (nell'ottica dello Stato moderno). Questo
secolo ha in gran parte segnato la fine delle piccole comunità e delle
minoranze (si pensi agli esodi del 1945-1947 che seguivano quelli più limitati
del 1918-1920).
In questo periodo, mentre pare diminuire l'antica
funzione accentratrice dello Stato nazionale, si riaprono spazi per le piccole
regioni e per i particolarismi rimasti. Le vecchie funzioni dello Stato erano
quelle militari, commerciali ed economiche, che portarono, come sottolineato da
Kellas[52], alla sua nascita; ora pare che esse siano in via di
alleggerimento. In molti casi questi alleggerimenti sono però simboliche
concessioni in settori per nulla strategici.
Tornando alla Dalmazia si noti, a differenza di molti
altri luoghi privi di una cultura della tolleranza, come nei secoli l'elemento
religioso non fu mai discriminante essendo Italiani e Croati cattolici ma Serbi
e Montenegrini ortodossi. Inoltre in Dalmazia (quasi 18.000 chilometri quadrati
complessivi, entro i limiti qui intesi come proposto dal geografo e storico
Dainelli[53]) non vi erano zone solamente italiane ed altre solo
croate in quanto alcuni Italiani erano presenti un po' ovunque, spesso in
percentuali minime (soprattutto nell'entroterra). Prendendo in esame la teoria
di Arnaldo Mauri[54], che stima nel 5% la soglia di sopravvivenza di una
collettività, ci si accorge che in certe zone dalmate la componente italiana
era vicina o addirittura sotto a questa soglia (si ha qui il dato di
Zaravecchia dove, dopo Versailles (spesso tradotta in Italia come Versaglia),
gli Italiani erano ridotti al solo 3% circa[55]). In realtà questa soglia è indicativa (ma
significativa) dovendo considerarsi molti fattori tra cui la forza culturale ed
economica del gruppo, la reale autoctonia, il regime politico imperante. Tutto
ciò fa variare anche il numero di anni in cui avverrebbe lo spegnimento
della minoranza. La teoria generale dà
un altro grande spunto quando parla di politicizzazione; essa fu uno degli
aspetti più significativi che realmente divise gli animi in Dalmazia. Non
esistendo reali differnze etniche tra i dalmati, fu la fede politica e la
sucessiva scelta di campo che li divise, spesso duramente. Le scelte politiche
però non sono assolute e perenni ma continuamente mutevoli (come in Alsazia,
dove sotto il nazismo addirittura molti giovani combatterono volontariamente
per la Germania di Hitler). Specie i cambi generazionali possono portare
mutamenti di fede politica ed addirittura etnico-culturali. Lo scenario dalmata
quindi non è certo chiuso ma suscettibile di nuovi importanti mutamenti.
Ci si domanda se con l'avvicendarsi storico delle genti
rimangano o meno i precedenti legami con un luogo d'origine oppure se si
modifichino in relazione al nuovo sito. Ci si potrebbe quindi chiedere a che
titolo si possano definire dalmati i Croati arrivati sulla costa da altre terre
nei secoli o nei decenni passati. Inoltre ci si chiede se il legame
territoriale possa prevalere su quello etnico-linguistico; ad esempio se gli
altoatesini (sud-tirolesi) siano Italiani che hanno imparato il tedesco (sotto
gli Asburgo) rimanendo stabilmente legati alle loro valli o siano Tedeschi
spostatisi gradualmente oltre lo spartiacque atesino. Le stesse definizioni
antagoniste di Alto Adige e Sud Tirol sono entrambe errate; infatti il Sud
Tirolo comprendeva sotto gli Austriaci anche il Trentino, mentre il termine
Alto Adige, nato con il Regno d'Italia napoleonico, comprendeva il Trentino e
solamente la valle atesina sino a Bolzano città. In realtà vi è stato sia
"legame" sia "spostamento" in quanto i popoli si incontrano
mescolandosi. Comunque somaticamente gli altotesini, pur di lingua tedesca
(dialetto sudtirolese ricchissimo di latinismi, ladinismi ed italianismi), sono
più vicini ai Latini che ai Germanici ed hanno un relativamente alto residuo di
cognomi italiani; prima della loro latinizzazione essi erano semplicemente
detti Rezi. Un altro esempio di parentela regionale ma sovranazionale è
evidente tra le tre regioni di Carnia, Carniola e Carinzia dove molte
caratteristiche rimangono comuni indipendentemante dalle tre differenti lingue
in uso (italiano, sloveno e tedesco); si pensi alla sbalorditiva presenza di
paesi intitolati a San Vito (Sveti Vid, Sankt Veit), tra l'altro patrono della
vicina Fiume. I nomi stessi delle tre regioni evidenziano comune origine
("car..."); indipendentemente dalla ulteriore reciproca dipendenza
economica. Parentele di carattere simile possono riscontrarsi anche tra le tre
limitrofe regioni alpine di Valle d'Aosta, Savoia e Vallese. Tutto ciò dipende
anche dalla repentinità e dalla cruenza con cui questi avvicendamenti sono
avvenuti, ad esempio i Bulgari sono Turchi slavizzati e cristianizzati,
essendosi mescolati lentamente e pacificamente (ed essendo giunti presso il
luogo ove ora risiedono in numero non elevato).
Su tutto alla fine prevale l'attrazione culturale di un
polo-modello[56] e se questo non prevale completamente (anche sotto
l'aspetto politico-militare) nascono gli scontri; quasi mai tutti i fattori
coincidono. Tali scontri sono sia interni sia esterni al territorio: esterni
sono generalmente i poli d'attrazione, interni i singoli o i gruppi che si
schierano. Il linguista Ascoli nota che ogni passaggio di popolazione,
amministrazione, esercito o dominio lascia nelle genti tracce sia culturali sia
linguistiche indelebili, le quali possono riemergere a distanza di decenni
rendendo lo scenario ancor più inestricabile; in questa tesi fu seguito dal
linguista Bartoli[57].
Un esempio è l'autonomismo savoiardo il cui senso di
particolarità è riesploso solamente ora dal lontano 1860 (ovviamente in senso
autonomista e non certo italiano).
A proposito di Savoia si ricorda che esiste un altro
forte vincolo nazionale: quello dinastico[58] il quale spinse molti nobili savoiardi (tra cui
Pelloux, Menabrea, Sommellier) a trasferirsi in Italia, dopo il passaggio della
proprie regione alla Francia, per fedeltà alla famiglia reale sabauda. Essi
furono circa cinquecento ed erano indiscutibilmente francesi per lingua e
cultura (d'altronde a Torino la cultura francese imperava, si pensi al di fatto
italo-francese Camillo Benso conte di Cavour di madre ginevrina e di padre per
metà savoiardo); questo fenomeno ovviamente nemmeno sfiorò il popolo minuto
(pure sobillato dal clero antimonarchico e quindi filofrancese). A Nizza
invece, sempre nel 1860-1861, furono oltre 10.000 gli Italiani che lasciarono
la Contea per arrivare esuli in Italia (molti, oltre 600, a Genova e moltissimi
a Torino) essendo legati da vincoli culturali e linguistici più che monarchici
(tanto più che i regnanti Savoia li avevano cinicamente abbandonati dopo averli
utilizzati come merce di scambio); il consolato italiano fu oberato di lavoro
dalle richieste di chi optava per l'Italia per oltre un anno ed ancora nel 1872
scoppiarono a Nizza tumulti filoitaliani. Il plebiscito di Nizza, col quale la
città passava alla Francia, fu manipolato dai Francesi che avevano
l'interessato ed influentissimo appoggio del sindaco e del vescovo che
imbucarono nell'urna le schede elettorali palesemente aperte; d'altro canto
trutti i plebisciti del 1860 (si pensi al Mezzogiorno d'Italia) furono una
farsa orchestrata da chi in quelle terre entrava dominatore. Solo i 119 marinai
nizzardi di stazza sulle navi sabaude nei vari porti poterono votare
liberamente e così si espressero: 114 per l'Italia, 5 per la Francia come
ricordato ancora negli anni trenta dal giornale "Camicia Rossa"
diretto da Ezio Garibaldi. Il nipote dell'Eroe dei due Mondi, acceso
nazionalista, divenne a sua volta eroe di guerra meritandosi una medaglia al
valor militare sul Col di Lana durante la prima guerra mondiale e calamitò
entusiasticamente l'opinione pubblica quando nel 1932 trafugò dalla
"sua" Nizza, sino a Roma, la salma di Anita Garibaldi. Ezio Garibaldi
si allontanò duramente dal fascismo quando questo adottò le leggi razziali
(1938) legandosi strettamente alla Germania di Hitler. Coerentemente con tutto
quanto avveniva in Italia negli anni trenta trovarono nuova linfa le
rivendicazioni italiane che guardavano ad occidente (oltreché ad oriente) verso
la Francia (Nizza, Savoia, Corsica, Tunisia, Gibuti[59]); favorita dalle autorità nacque in quegli anni a
Torino l'associazione di oriundi savoiardi e nizzardi che pubblico un opuscolo
periodico.
Dopo il 1860 accorsero ancora in massa dalla città ligure
i volontari nelle file delle truppe del loro illustre concittadino Giuseppe
Garibaldi ed in quelle del Regno d'Italia (in primo luogo tra i Mille ed in
seguito vi furono 30 volontari solo a Custoza ed alcuni perfino a Lissa con
Augusto Antonio Riboty). Il Riboty nacque nel 1816 nel paese di
Poggetto-Tenieri (noto ai più solamente nella versione francese:
Puget-Théniers, dovè poi si spense serenamente nel 1888), all'estremo
occidentale della Contea di Nizza, e capitanò a Lissa la nave Re di Portogallo.
Spesso il Riboty è confuso con un'altro patriota nizzardo (di Nizza città),
ovvero il quasi omonimo Ignazio Ribotti di Molieres (o Molliera, come conpare
su taluni testi), generale sabaudo. Si ricordi per inciso che al seguito di
Garibaldi e durante tutte le guerre risorgimentali sino alla Prima Guerra
Mondiale inclusi pure molti corsi (nonchè, maltesi, ticinesi e così via)
accorsero volontari nelle truppe italiane. Lo stesso Garibaldi, amareggiato per
gli accordi di Plombieres tra Napoleono III e Cavour, tramò la cruenta ripresa
della sua città e della Corsica dopo la sconfitta francese a Sedan (1870) e
della relativa pace di Francoforte sul Meno (1871), senza poi riuscire a
mettere in pratica il suo arditissimo piano. Parlando di Nizza e del suo
eroismo (si pensi solo alla lontana sollevazione antifrancese ed antiturca ai
tempi di Caterina Segurana nel Cinquecento), non si può dimenticare l'eroico
nizzardo Augusto Anfossi perito nella quarta delle Cinque Giornate di Milano
guidando l'assalto al palazzo del Genio (1848). Altro illustre nizzardo fu
Andrea Massena che si distinse altamente nell'esercito napoleonico
(giovanissimo si era arruolato volontario nel Reggimento Italiano di Francia)
meritandosi da Napoleone l'appellativo di "figlio prediletto della
vittoria"; divenne poi un uomo politico francese (chiamato André Masséna)
morendo a Parigi nel 1817. Anche a Nizza la coerenza della politica francese
nei secoli ha abilmente portato la città verso la Francia; e pensare che il
trattato di Lione del 1601 sanciva la perenne rinuncia alla città ligure da
parte della Francia medesima. La radicale differenza tra il comportamento dei
cittadini della Savoia e quelli della Contea di Nizza stava nel fatto che i
primi erano fondamentalmente francesi mentre i secondi erano quasi interamente
italiani.
V - L'area balcanica
Proprio l'ampia area balcanica ed est-europea interessa
in questa sede perché alla penisola balcanica ed alla Balcania è legata, anche
se non strettamente secondo alcuni[60], la Dalmazia. Molti nazionalisti considerarono le
alpi Bebie e Dinariche naturale continuazione delle alpi Giulie, confine
orientale d'Italia; il vocabolario Zanichelli nel 1922 dava la seguente
definizione di Italia: "Grande paese chiuso nella parte continentale della
catena delle Alpi, che cominciano dalle Marittime a occidente salgono alla
Vetta d'Italia nell'Alto Adige e si stendono a oriente con le Dinariche[61]". In queste regioni alle problematiche su
indicate se ne sommano altre, ovvero una totale incoerenza in termini di
continuità territoriale tra lingue, culture e tradizioni; ciò rende del tutto
impossibile tracciare a tavolino confini ragionevoli senza dover cercare
rifugio nei pur relativi parametri compensativi spesso malvolentieri attuati
paesi confinanti. Si ha in sostanza una situazione comunemente definita "a
pelle di leopardo" tra più etnie. Si hanno poi situazioni dove vi è
spaccatura tra città e campagna (millenario ed atavico dualismo irrisolto[62]), si hanno regioni e città mistilingui, e si hanno
popoli e relative culture con differente peso economico, culturale e con
diversa capacità di attrazione nei confronti degli altri soggetti.
Inoltre in certi casi talune popolazioni sono state
amministrate per secoli da differenti potenze straniere completamente diverse
tra loro che hanno lasciato segni incancellabili su uno stesso popolo in aree
vicine (Austriaci e Turchi sui Croati, Francesi, Spagnoli ed Austriaci sugli
Italiani, ad esempio)[63].
Più genericamente si vuole sottolineare come tutte quelle
terre con popolazione italiana ad oriente del confine italo-austriaco del 1914
(variazione non sostanziale del vecchio confine veneto-austriaco del 1797[64]) erano parte di un complesso mitteleuropeo (e secondo
alcuni in parte balcanico) ben più complesso di quanto si sia soliti intendere;
in altre parole quei territori, indipendentemente dalla loro vera o presunta
italianità, facevano parte di un contesto al quale erano completamente estranei
gli Italiani delle altre parti d'Italia. I solidissimi confini geografici
dell'Italia come in nessun altro caso in Europa lasciano poco spazio a
popolazioni alloglotte e ciò rende gli Italiani storicamente poco preparati ad
una cultura multilinguistica e multiculturale (anche la religione
cristiano-cattolica è massicciamente unitaria, ancor più della lingua); entro i
confini dello spartiacque alpino (da Nizza ed il Paglione a Buccari e al passo
di Vrata: Malta, Corsica e Pelagosa incluse) gli italofoni sono infatti quantificati
nell'98,5%[65]. Le piccolissime comunità albanesi (Puglia, Sicilia,
Calabria, Basilicata), greche, o meglio dette grecaniche (Calabria, Puglia),
tedesche (Veneto, Trentino, Friuli, Valle d'Aosta, Piemonte), slovene (Friuli)
e croate (Molise) sono talmente esigue da essere da secoli bilingui e
perfettamente integrate; casi a parte e tra loro differenti, com'è noto, sono
l'Alto Adige (storicamente non integrato nel mondo italiano) e la Val d'Aosta
(storicamente integrata). Una comunità d'origine greca (meglio definita come
grecanica) è presente anche a Corgese, in Corsica, ed i Francesi beffardamente
hanno aggiunto al simbolo comunale di Corgese la scritta "la greque",
essendo quelle poche centinaia di anime totalmente innoque dal punto di vista
politico; i grecanici di Corgese (circa i due terzi degli abitanti del paese)
sono storicamente bilingui con l'italiano (dialetto corso) e non con il
francese. Una piccola comunità tedesca (d'origine Walser come quelle del
Piemonte e della Valle d'Aosta attorno al Cervino, in val Sesia ed in val di
Gressoney) è stanziata in Ticino, a Bosco (in tedesco Gurin). La superficie
politica della Repubblica italiana (complessivamente 301.200 chilometri
quadrati) comprende il 93% della su indicata area geografica italiana (322.000
chilometri quadrati), mentre l'Italia "occupa" 684 chilometri
quadrati al di là dello spartiacque alpino, cioè del confine geografico, (val
di Livigno, val di Lei, parte della val Canale, fonti della Drava, isole
Pelagie); nella regione geografica italiana vi sono attualmente nove entità
politiche (Repubblica Italiana, Stato della Città del Vaticano, Repubblica
Maltese, Repubblica di San Marino, Principato di Monaco, Repubblica Francese,
Confederazione Elvetica, Repubblica Slovena, Repubblica Croata)[66] che coprono così i 21.500 chilometri quadrati della
regione geografica italiana esterni alla Repubblica Italiana. L'assunzione
dello spartiacque come confine geografico non è certo assoluta in Europa
(spesso, in assenza di monti, lo sono i grandi fiumi); relativamente all'Italia
è da tutti accettata la linea alpina con un'unica eccezione ad occidente dove a
lungo si intese il confine italofrancese con il piccolo fiume Varo (mentre a
lungo gli assertori della germanicità dell'Alto Adige hanno proposto le chiuse
di Salorno come confine italoaustriaco). Come si è detto l'Italia geografica
esclude quasi completamente la Dalmazia (comprese le isole quarnerine di Cherso
e Lussino pure politicamente italiane nel 1918-1919), includendo solo Fiume con
la baia di Buccari sino al passo di Vrata[67]; la parola vrata difatti in croato significa porta.
VI - La Dalmazia nella storia sino
alla nascita del problema nazionale
La Dalmazia è una regione che visse una precocissima
latinizzazione[68] cominciata già intorno al 230-229 a.C. (prima cioè di
talune zone dello stesso nord Italia) in seguito all'intervento di Roma giunta
a reprimere gli atti di pirateria degli Illiri contro i propri commerci; a ciò
seguì la creazione della provincia romana della Dalmatia[69] sotto la quale la popolazione si latinizzò assai
rapidamente, mantenendo comunque diverse caratteristiche prelatine autoctone.
Il grande studioso tedesco della romanità Theodor Mommsen così ebbe a dire nel
1885 a proposito degli insediamenti italici in Dalmazia del II e I secolo a.C.:
"Nella Dalmazia le coste e le isole ebbero, per quanto era possibile, un
ordinamento comunale italico e bentosto l'intero litorale parlò in latino,
quasi come ai giorni nostri parla il veneziano[70]". Il confine tra Italia e Dalmazia fu delimitato
dal fiume Arsa, nell'estrema Istria orientale includendo quindi in essa il
Quarnaro e Fiume (la latina Tarsatica). Le vestigia romane sono documentate
dagli scavi archeologici di Nona, Clissa, Asseria, Aurana (Vrana), Salona e così
via; solo nella zona compresa tra Zara e Nona vi furono ben 12 città romane. Il
poeta dalmata Marco Marulo nel Cinquecento, emozionato dalla visita ai resti di
Clissa, fu tra i primi a decantare le glorie latine della Dalmazia. L'asse
Veglia-Arbe-Pago divenne in quegli anni il sistema militare posto a sicurezza
dei confini orientali d'Italia (allora ancora bene o male coincidenti con la
latinità). La provincia romana in vero comprendeva anche vaste aree
dell'interno ma, nei suoi limiti moderni, si sottrasse almeno in parte alle
orde barbariche, che pure la toccarono senza investirla completamente; gli
abitanti di Salona ripararono nel palazzo di Diocleziano fondando Spalato,
quelli di Epidauro Adriatica (l'attuale Ragusavecchia) in fuga dagli slavi
Avari fondarono Ragusa attorno al 640. Epidauro Adriatica (d'origine greca
come, in Adriatico, Traù, Lissa, Lesina, Curzola ed Ancona) si era data
spontaneamente a Roma nel 229 a.C. e nel 168 a.C. prese il nome latino di
Pitaura; nel 634 la città fu distrutta definitivamente. Ancora oggi le acque
attorno a Lesina sono dette canale greco.
La regione rimase fedele all'Impero di Bisanzio,
succeduto a Roma, fino a quasi tutto il X secolo, quando l'emergente città di
Venezia[71], per atto del proprio doge Pietro Orseolo II, attorno
al 992-998 legò a se le città principali ovvero Zara, Spalato, Traù, più tardi
Sebenico ed in maniera più blanda Ragusa, che di li a breve fu riconosciuta
indipendente. Nella primavera dell'anno 1000 i cittadini delle cittadine istriane
di Parenzo e Pola dalle banchine delle loro cittadine esultarono al passaggio
dalla flotta veneziana al seguito del doge Pietro II che dirigeva a sud, verso
i mari di Dalmazia, per ricacciare i pirati narentani e croati. Fin da allora
l'Istria e la Dalmazia ebbero unite le sorti costituendo un tutt'uno dal punto
di vista storico.
Ragusa divenne una repubblica marinara indipendente (di fatto la quinta
repubblica marinara italiana) gestita da undici nobili locali famiglie, tutte
italiane (formanti il Patriziato Sovrano Originario) ed ebbe come lingua
ufficiale il latino fino al 1472 e poi l'italiano; il nome croato di Dubrovnik
(inizialmente Dabrovnik) non fu mai utilizzato nemmeno dagli Austriaci e
comparve per la prima volta solo nel 1918-1919 dopo la nascita dello stato
degli Slavi del sud (Iugoslavia).
Fu una sottomissione del tutto indolore quella delle
città dalmate; infatti fino a quel momento la stessa Venezia era stata legata,
sempre più blandamente, ai Bizantini e da tempi lontanissimi le città della costa dalmata trafficavano con i
lagunari; con un atto solenne Pietro II si definì testualmente "Dux
Dalmatiae" e tutto seguì di conseguenza. Altro appellativo che fu dato a Pietro
Orseolo II fu: "doge dei venetici e dei dalmati[72]"; dal termine latino "dux" in dialetto
veneto deriva "doge". Del resto trovarono in quel periodo una forma
di indipendenza anche Amalfi (futura repubblica marinara), Gaeta, Napoli e la
Sardegna (dove subito dopo arrivarono a spartirsela Pisani e Genovesi); infatti
tutti questi territori erano troppo lontani da Bisanzio che arrivò da quel
momento ad esercitare il suo controllo solamente fino alla zona di Antivari
(l'Albania attuale pressappoco).
Se è a tutti noto come la ricchezza e varietà dei dialetti
d'Italia sia dovuta al logico mantenimento di caratteristiche prelatine, come
pare essere ad alcuni linguisti la tipica "c" aspirata toscana di
probabile origine etrusca, così si deve sottolineare che sia i Veneti sia gli
Istri sono popolazioni d'origine illirica che migrarono (come Iapigi e Dauni in
Puglia tramite lo stretto d'Otranto) dalla Dalmazia attraverso le Alpi Giulie
dando il nome alla Regio X dell'Italia romana: Venetia et Histria
(suddivisione amministrativa così perfezionata da Augusto nel 27 a.C.[73]). Si può desumere elementarmente come molte
caratteristiche linguistiche e culturali fossero analoghe in Veneto ed in
Dalmazia (oltreché in Istria, che le congiungeva) da molto prima che la
repubblica di San Marco arrivasse in questi porti e in queste isole[74]. Un elemento chiave lo porta il grande linguista
istriano Matteo Giulio Bartoli di Albona che intervistò nel 1898 sull'isola di
Veglia il tagliapietre Antonio Udina, detto "Burbur", ovvero l'ultima
persona che avesse fatto uso del dalmatico, l'antico idioma neolatino della
Dalmazia[75] il quale era pure non dissimile dai dialetti ladini
del Friuli[76] ed era il probabile anello di congiunzione con
l'isolato romeno. Il dalmatico era legato sia ai dialetti ladini sia agli
antichi dialetti istriani, formanti un unico blocco latino preveneto. Bartoli
dimostrò così la veneticità preveneziana dell'area istro-dalmata e pubblicò nel
1909 a Torino (dove insegnava) la "Grammatica dalmatica"[77]. Antonio Udina morì il 10 luglio 1898 portandosi
nella tomba la sua antichissima lingua. Tuttora gli Udina di Veglia parlano il
dialetto veneto prima che il croato (a Veglia resiste attuttora una
piccolissima comunità italiana[78]). Veglia con tutte le isole sta però vivendo un
massiccio spopolamento che inurba grandi masse umane e ciò contribuisce a
cancellare la millenaria impronta originaria (sono invece in continuo aumento
le seconde case di turisti forestieri). Anche in tre paesi dell'Istria
(Rovigno, Dignano e Fasana), prima dell'esodo del 1947, resistevano parlate
veneto-italiche preveneziane[79]; questo nucleo dialettale dal linguista Ive fu
definito come istrioto. Il dalmatico pur non essendo mai stato codificato,
prima del tardivo e parziale intervento del 1898 che salvò solo ciò che
rimaneva, risultava distinto in due varianti dialettali: una settentrionale
(vegliotto) ed una meridionale (raguseo), quest'ultima desunta da alcuni
scritti di carattere privato (nulla che avesse carattere di documento ufficiale
risulta essere mai stato scrito in alcun dialetto dalmatico). L'Udina esprimeva
con i suoi limiti culturali l'impossibilità di salvare una parlata dalmatica
colta; d'altronde se fosse stato colto si sarebbe espresso in veneto e non in
antico dalmatico borghigiano. Per chiarezza, attingendo ad uno studio del
Bartoli[80], si riporta di seguito una comune e banale frase
("Un uomo aveva due figli") in veneto classico (di Pola, ad esempio):
"Un omo el gaveva dùe fìi", in dalmatico: "Ion ciàirt (certo)
jommo el avaja dòi fèil", in istriano-antico (od istrioto, della zona di
Rovigno): "Oun omo el viva du fiòi", aggiungendo la variante veneta
di Ragusa (considerata "toscaneggiante"): "Un omo gaveva due
figli" e, come termine di paragone, quella friulana: "Un on al veva
dòi fiòi"[81]. Il Bartoli aggiunge poi come queste parlate
tendessero ad amalgamarsi tra loro avvicinandosi sempre più al veneto classico,
come del resto avveniva per le parlate ladine del Friuli[82]. In Italia non si riscontrano (riscontravano, oramai)
aree dialettali così ampie e allo stesso tempo così omogenee come quella
veneto-istro-dalmata. Tale idioma dalmatico, considerato una lingua italica
parzialmente autonoma come il sardo ed il ladino, si estinse per due
intrusioni: una di maggiore impatto come fu lo slavo (serbo-croato)
dall'interno ed una più dolce come fu il dialetto veneto che si sostituì ad
esso nei secoli in maniera graduale (essendo entrambe varianti neolatine).
Questo cambiamento cancellò così prima i dialetti dalmatico-ragusei intorno al
Quattrocento e, più a settentrione, il dalmatico-vegliotto, nell'Ottocento. Al
sovrapporsi ed al naturale stratificarsi di lingue neolatine (come quella degli
Illiri latinizzati, che pure conservava caratteristiche proprie), come il
latino italico delle numerosissime colonie che furono impiantate da Roma[83], come il dalmatico, come il dialetto veneto e come i
sopraggiungenti dialetti dei Morlacchi, di origine romena) si aggiunse un nuovo
fondamentale elemento: quello slavo appunto.
Nella loro millenaria corsa al mare (svoltasi lungo il
vasto fronte che va dal finnico golfo di Finlandia alla tartara Crimea) gli
Slavi, assieme ad altre popolazioni omnicomprensivamente definite barbariche[84] (d'origine anche germanica ed ugra) si stanziarono
anche in terre già latinizzate sostituendo gli abitanti locali od
assimilandoli. In questo buio passaggio storico la Dalmazia contava solo 20.000
abitanti circa, a causa delle continue carestie, delle invasioni e delle
epidemie, ancora tutti saldamente latini; l'Italia intera contava nello stesso
buio periodo circa 4.000.000 di abitanti. Nello spopolato entroterra dalmata
queste popolazioni slave si stanziarono assieme ai Morlacchi, presenti al
giorno d'oggi anche nell'Istria orientale entro i comuni di Castelnuovo
d'Istria (villaggio di Seiane) e Valdarsa
(villaggi di Valdarsa, Gradigne, Lettai, Villanova, Grobenico, Briani,
Sucodru[85]) con il nome di Istro-romeni o Cicci, vivendo
tradizionalmente di agricoltura e soprattutto di allevamento. Molti (in
proporzione) di questi Cicci, censiti nel 1921 in numero di 1.644 unità,
abbandonarono l'Istria assieme agli Italiani durante l'esodo del 1947 (infatti
anche circa 10.000 Slavi, d'altronde, nel 1947 scapparono in Italia con
l'arrivo di Tito). Ufficialmente le decine e decine di migliaia di Morlacchi di
Dalmazia furono considerati estinti sotto i pragmatici Austriaci; anche ora la
Croazia li considera interamente assimilati e slavizzati. Un minoritario gruppo
di linguisti, diversamente dai più, considerano questi Morlacchi non come
Romeni arrivati dalla Romania ma come latini sopravvissuti alle invasioni
slavo-barbariche. Per un certo periodo alcuni di questi Morlacchi rimasero
stanziati anche sull'isola di Veglia. Essi erano un popolo poco radicato al
territorio (la serenissima, cioè Venezia, ne favorì l'insediamento stabile con
apposite leggi agrarie come la legge Grimani del 1755 che assegnava
gratuitamente due campi ad ogni famiglia morlacca) e vivevano spesso in
carovane avendo un loro importantissimo mercato più a sud, ad Ocrida, in
Macedonia. Stanziatisi pure sulle Alpi Bebie tra Zara e Fiume dettero il nome
al canale che bagna la costa liburnica, appunto detto in italiano canale della
Morlacca. Tuttora popolazioni d'origine romeno-morlacca sono stanziate anche
nel Pindo (gli Aramuni, circa 200.000), presso Salonicco (Megaloromeni, circa
100.000) oltreché in Albania (100.000 circa) e Macedonia[86]. Quasi tutti i Morlacchi di Dalmazia tra il
Quattrocento ed il Cinquecento lasciarono il rito greco per abbracciare quello
romano divenendo cattolici come i Veneziani.
La Repubblica di San Marco aveva nel frattempo
consolidato in via definitiva il dominio sulla regione (anche nell'entroterra)
specie dopo il 1420 e li rese suoi sudditi al pari di tutti gli altri. Nel 1420
con la dedizione di Budua la Dalmazia tutta si dette definitivamente nelle
braccia di Venezia[87] (ma Zara, Traù, Arbe, Lesina, Curzola lo avevano già
fatto); le bocche di Cattaro entrarono così definitivamente entro i domini
veneti dopo ben sei vani tentativi. Si chiudeva così la parentesi
ungherese-angioina (1358-1420) che aveva interrotto i legami politici (ma non
assolutamente quelli culturali e commerciali) tra Venezia e Dalmazia; i porti
dalmati erano insostituibili per i Veneziani lungo la rotta per l'oriente
(Antiochia, Aleppo, Bagdad e così via verso regioni sempre più remote). In
Istria le cittadine si erano già gradualmente "date" spontaneamente a
Venezia (Parenzo 1267, Capodistria 1279, Pirano 1283, Rovigno pure 1283, Pola
1331 e così via) senza mai che le libertà comunali fossero violate; è interessante
vedere come gia nel 932 gli abitanti di Capodistria avessero chiesto aiuto al
doge Pietro Candiano II. il quale accordò loro l'immunità e la possibilità
quindi di rimanere protetti in Venezia. Solo Trieste (1382) e Fiume (1466) in
questo periodo entrarono nell'orbita asburgica, pur rimanendo ancora per secoli
comuni di fatto autonomi; gli Asburgo dalle posizioni guadagnate si spostarono
su Gorizia e Pisino che risultarono duramente contese con la Repubblica ancora
all'inizio del Cinquecento. Le autonomie locali nell'area istro-dalmata
risalgono del resto addirittura alle richieste di Placido del Risano che le
espresse già nel lontanissimo 804.
La Repubblica Veneta dimostrò grande tolleranza avendo
tra i propri sudditi Greci, Grecchi e Greghi (cioè Greci inurbatisi parlanti un
dialetto veneto-greco detto "greghesco"), Ciprioti (autocefali dal
punto di vista religioso, di lingua greca), Armeni, Armeni cattolici, Albanesi
cattolici, Albanesi ortodossi, Carniolitici (cioè Sloveni), Marrani (ovvero
Ebrei di Spagna espulsi nel 1492), Ebrei di Portogallo (espulsi nel 1497),
Montenegrini (anche nobili casate scampate ai Turchi), Schiavoni (in genere
Croati ma anche Serbo-ortodossi e Morlacchi), Stradioti (genericamente Greci,
Albanesi e Montenegrini), Ladinos (ebrei d'origine iberica), Morlacchi (cioè
Romeni), ed essendo diventata rifugio di tutti quei cristiani, non solo
cattolici, in lotta o in fuga nel Levante turco. Solo coloro che apertamente
osteggiarono la Repubblica furono colpiti, come gli Uscocchi (d'origine croata)
stanziati nel Quarnaro e continuamente incitati dall'Austria a compiere atti di
pirateria a danno dei Veneziani; essi furono annientati ed i superstiti espulsi
(finirono poi esiliati ad ovest di Zagabria dando il nome ai monti degli
Uscocchi). In realtà gli Uscocchi provenivano dall'interno bosniaco e fuggendo
dai Turchi giunsero fino a Clissa (non lontano da Spalato) quando furono
invitati dagli Austriaci ad insediarsi a Segna da dove insidiarono
continuamente la rotta Venezia-Spalato (forse la principale all'interno della
Repubblica). Tiepolo, provveditore di Dalmazia, nel 1592 li attaccò decisamente
(essi erano solo 2000 ma bellicosissimi); ma i Veneziani dovettero prima
sconfiggere l'Austria (1616-1617) per poterli distruggere; lo status quo
fu ristabilito dalla pace di Madrid del 1617[88]. E' interessante vedere come Venezia nel Seicento
avesse la forza di attaccare e sconfiggere l'Impero Asburgico. Storicamente
però l'unico vero nenico dei Veneziani fu sempre l'Impero Ottomano visto come
netta antitesi al mondo europeo e alla cristianità (si pensi alle Crociate che
videro Venezia protagonista, anche se non disinteressata, visti i traffici che
vi erano implicati tanto che la IV Crociata si fermò, per questi motivi, a
Bisanzio senza nemmeno giungere in Terra Santa). Oltre ciò è interessante
ricordare che per tutto il Settecento il mare Adriatico fu da tutti chiamato
semplicemente golfo di Venezia[89].
Tutte queste popolazioni furono talmente radicate che
influirono sulla toponomastica: agli Schiavoni fu intitolata Riva degli
Schiavoni a Venezia, gli ebrei dettero il nome all'isola della Giudecca (che,
in Venezia, ne fu il ghetto), i Morlacchi, come detto, al canale della Morlacca
(tra Fiume e Possedaria, presso Zara), gli Stradioti all'isola degli Stradiotti
(entro le bocche di Cattaro), i Cicci alla Cicceria. Oggi in Italia i cognomi
Schiavone, Schiavon, Grego, Greghi, Grecchi, Greco, Zongaro, Morlacchi,
Merlacchi, Crovato, Crovatin, Uscok (cognome tra l'altro di un patriota
italiano di Fiume di inizio secolo) e molti altri testimoniano queste fusioni
di popoli. In Dalmazia erano stanziate anche popolazioni che è oggi difficile
far rientrare con precisione in un gruppo etnico, come i Cimariotti (di
probabile origine albanese), i Ciacavi, i Crivosci (probabilmente d'origine
montenegrina), i Caiduchi ed altre.
Candia (Creta), Negroponte (Eubea), Morea (Peloponneso) o
Cipro (col calvario di Marcantonio Bragadin a Famagosta nel 1570) testimoniano
questa epopea sui mari d'oriente dove tutti i marinai di Dalmazia cercarono
traffici, commerci ed avventure onorando la Repubblica e la cristianità,
riscattandola poi a Lepanto nel 1571[90] (anche se tardivamente). Nella battaglia di Candia si
misero in luce gli schiavoni Sorich e Iankovich[91]. Su tutti si ricordi l'intraprendenza del dalmata
Marco Polo di Curzola arrivato, primo europeo, fino al leggendario Catai (Cina
ed estremo oriente). Lo stesso Marco Polo fu fatto prigioniero dei Genovesi
durante la battaglia di Curzola (sua terra natale) ed in prigionia dettò a
Rustichello da Pisa il racconto dei suoi viaggi, poi raccolti nel libro Il
Milione scritto in veneto-provenzale (è interessante vedere l'amicizia tra
un prigioniero veneziano ed uno pisano, entrambi in quel momento acerrimi
nemici di Genova). Nel 1497 Giovanni Caboto (oriundo di Gaeta ma cittadino
veneziano dal 1476) giunse a Terranova, in nord America, e ne prese possesso in
nome dell'Inghilterra di Enrico VII che aveva finanziato la sua ardita
spedizione; accanto alla bandiera inglese pose orgoglioso il gonfalone di San
Marco.
I Veneziani rispettarono sia in Dalmazia sia in Istria
gli antichi statuti cittadini imponendo solo un prefetto veneziano ed
incorporando i tributi; su tutti si pensi agli antichi statuti comunali di Traù
e Cattaro[92], che non vennero assolutamente mutati. Lo statuto
comunale di Zara prevedeva incontrovertibilmente la presenza di un
"potestas" (podestà) che fosse "de gente latina".
Sulle navi veneziane, che avevano nei porti dalmati
rifugio lungo le rotte d'oriente, si creò un'amalgama unica che assimilò
popolazioni molto diverse. La cultura veneziana ed il suo dialetto, che aveva
allora una nobiltà pari quasi a quella di una lingua, seppero unire individui e
popolazioni che altrove vivevano soggiogate e spesso tra loro in astio senza
nessuna discriminazione. Ciò è evidenziato dal giuramento di Perasto del 23
agosto del 1797, celebrato in lacrime dal conte Giuseppe Viscovich, podestà
cittadino, in dialetto veneziano, col quale i dalmati tutti piansero la caduta
della Repubblica seppellendone il gonfalone sotto l'altare della cattedrale
cittadina; esso ricorda l'orgoglio dell'appartenenza alla Repubblica vista come
portatrice di civiltà e di incrollabile fede cristiana. Tale giuramento ebbe il
suo culmine nella frase solenne: "Mi con ti e ti con mi", ed è ancora
adesso considerato una sorta di inno patriottico da parte dei dalmati Italiani
esuli (fu anche propagandisticamente ripreso da D'Annunzio a Fiume durante la
Reggenza del Carnaro[93]nel 1919-1920). Infatti fu Perasto, la latina Perastum,
che per la sua totale fedeltà e dedizione alla Repubblica di Venezia ebbe
l'onore di fornire in tempo di guerra la Guardia del Gonfalone, meritandosi
quindi l'appellativo di "fedelissima gonfaloniera". Più ampliamente
il giuramento di Perasto recitava: "Savarà da nu i nostri fioi, e la
storia del zorno farà saver a tuta l'Europa, che Perasto ha degnamente
sostenuto fin a l'ultimo l'onor del veneto gonfalon onorandolo co sto atto
solenne, e deponendolo bagnà del nostro universal amarissimo pianto... Per
trecentosettantasette anni la nostra fede, el nostro valor, l'ha sempre
custodito per mar e per tera, per tuto dove ne ga ciamà i nemizi, che xe stai
pur queli de la religion. Per trecentosettantasette anni le nostre sostanze, el
nostro sangue, le nostre vite le xe stae sempre per ti, o San Marco, e
felizissimi sempre te avemo seguità, ti co nu, nu co ti; e sempre co ti sul mar
nu semo stai ilustri e virtuosi. Nissun co ti n'ha visto scampar, nissun co ti
n'ha visto vinti o paurosi". Le cronache dell'epoca ricordano come quel
giorno si pianse ovunque e che a Traù la gente era assai più abbattuta di
quando, dieci anni prima, fosse giunta in città la peste.
Quel dialetto era la lingua che tutti i dalmati
conoscevano ed adoperavano abitudinariamente, relegando gli idiomi originari
all'uso domestico e vernacolare, a volte nemmeno; in particolar modo nelle
città, tutte site sulla costa, si parlava solo il dialetto veneto. La così
detta lingua schiavone soppravviveva solo grazie ad un continuo arrivo,
dall'interno, di genti verso il mare, verso la civiltà, verso i traffici;
l'alta percentuale di nomi d'origine slava tra gli Italiani di Dalmazia
dimostra questo continuo movimento. Inoltre nei secoli furono proprio i
Veneziani ad invitare ed accogliere di buon grado genti straniere per popolare
e difendere l'entroterra prossimo al confine turco. Questi forestieri nel giro
di una generazione assimilavano i costumi locali arrecandovi il proprio
contributo e diventavando fedeli cittadini che servivano in marina ed in
fanteria lealmente e generosamente. Vennero formate truppe terrestri dette
Cernidi (i cui componenti erano detti Serdari) costituite da Schiavoni (Croati,
Morlacchi, Serbo-ortodossi) e Stradioti (Greci, Albanesi, Montenegrini) le
quali venivano inquadrate ed istruite a Verona nel Militar Collegio[94], relativamente alla marina sorsero numerose scuole
navali tra cui si ricordano quelle di Lussinpiccolo e Perasto. A Candia le
truppe veneziane erano composte da 6.900 nazionali (dalla Terraferma veneta) e
da 5.450 schiavoni; nel 1688 cessò questa distinzione all'interno
dell'esercito. A quel tempo venivano usate le imprecise definizioni etniche di
Schiavoni e Stradioti perchè non esistevano le scienze linguistiche ed
antropologiche moderne e perchè queste popolazioni non avevano assolutamente
coscienza di essere ciò che erano. Per tutti i sudditi veneziani fu poi
importantissimo l'apporto dato dall'Università di Padova che era il grande
centro di cultura della Repubblica.
Andando oltre la forza coesiva del dialetto veneto va
però ribadito che la cultura si esprimeva unicamente nella lingua italiana
(oltre che nell'ecclesiastico latino); basti pensare alle immense biblioteche
rinascimentali di alcuni privati dalmati tra i quali si ricordano Giorgio Della
Croce di Ragusa, Marco Marulo di Spalato, Giovanni Ciprianis di Zara e Fantino
Della Valle di Traù le quali contenevano numerosissimi scritti volgari italiani[95]; malgrado ciò il bilingue Marulo è egoisticamente considerato
dai Croati uno dei propri più grandi scrittori. Inoltre fu Gianfrancesco
Fortunio di Zara[96] (coadiuvato dal conterraneo Francesco Patrizi di
Cherso) a stampare a Pesaro nel tardo Cinquecento la Grammatica della lingua
italiana ed è a Niccolò Tommaseo di Sebenico che si deve il Vocabolario
della lingua italiana (stampato a Firenze nel 1830). Tutta la cultura
adriatica verteva, in questo periodo, sul triangolo Zara-Traù-Ancona[97]. Coerentemente con quello che avveniva nella penisola
spesso le città dalmate ebbero a lottare tra loro (si pensi alle lotte tra le
città toscane), come Spalato e Traù, finchè la Repubblica con il suo dominio
rese queste diatribe inutili e superate; lo stesso era avvenuto nel 1202 quando
Venezia aveva sedato la rivolta di Zara (ritratta in un quadro memorabile
conservato a palazzo Ducale di Venezia). Ogni volta che i Turchi premevano sui
confini (questo ancora per quasi tutto il Settecento) automaticamente i
campanilismi cessavano a vantaggio di una totale coesione e solidarietà. Un
assestamento definitivo del confine turco-veneziano si ebbe tra il 1699 (pace
di Carlowitz) ed il 1718 (pace di Passarowitz) con il quale Venezia raggiungeva
finalmente il confine geografico delle solide Alpi Dinariche.
Anche i Greci delle isole Ionie e Cerigo (divisi nei
distretti di Corfù e Cefalonia, campanilisticamente in perenne antagonismo),
furono veneziani ininterrottamente per quasi quattro secoli (1420-1797, Corfù
era nell'orbita veneziana già dalla IV Crociata del 1202-1204), ed impararono
il dialetto veneto pur avendo una propria cultura bimillenaria (anche se in
quel momento assai in ombra). Venezia quindi poneva così fine agli interessi
napoletani su queste isole (Corfù era rimasta infeudata da famiglie napoletane
d'origine normanna per oltre un secolo) e tenne a lungo anche alcune roccaforti
sulla terraferma greca come Parga, Preveza, Modone e Vonizza (o egualmente
Vonitza) oltre a Durazzo sulla terraferma albanese; si noti il ricorrere del
finale "izza" (Lissarizza, Bustenizza, Vissevizza, Temenizza,
Basovizza, Bainsizza, Vragnizza e così via) anche in terra greca (parte di un continuum
sovrannazionale ben più ampio).
Inoltre la cultura greca della Grecia moderna (vedi il
conte Capodistria con l'esperienza dell'Eptaneso) ricomincia, dopo il 1830-31 e
poi dopo il 1863-64, anche e soprattutto da queste isole; da qui inoltre
proviene l'inno nazionale greco. I poeti Stefano Martzokis (Marzocchi era il
cognome del padre, italiano dell'Emilia) e Geranimos Markonos, ionici di Corfù
e Cefalonia, ancora nel secondo Ottocento, oltre che in neogreco, scrissero in
italiano. Nel 1870 il governo greco (qui insediatosi nel 1864) fece, con
durissimi provvedimenti, chiudere le scuole italiane di queste isole. Venezia
sottrasse loro al giogo turco (unici tra tutti i Greci) e ciò li rese, se
possibile, ancor più legati ad essa; sotto la dominante Corcira divenne in
Italiano Corfù, Leucade divenne Santa Maura, Zacinto divenne Zante e più a sud
Citera divenne Cerigo, così come Creta era diventata Candia, il Peloponneso
Morea ed Eubea Negroponte. Cipro, Nasso con le Cicladi, il Negroponte, Candia,
la Morea, Lemno ed altre isole greche furono pure a lungo sotto Venezia, ma
presto caddero sotto il dominio turco (il Ducato di Nasso nel 1556, Cipro nel 1571, Candia nel 1669); anche la superba
aveva in zona il dominio su molte isole (avendo grossi traffici anche nel mar
Nero ed a Suldaia, in Crimea), ma pure sui domini egei dei Genoesi i Turchi
ebbero la meglio (Samo cadde nel 1550, Chio nel 1556[98]).
Nel primo Ottocento il salotto mondano della ionica
Isabella Teotochi-Albrizzi (Teotoki era il cognome originario) era uno dei più
frequentati di Venezia (immancabile era anche il suo conterraneo ed amante Ugo
Foscolo). Solo due anni dopo la caduta di Venezia, e per sette anni (1799-1806)
i Turchi sbarcarono e stazionarono sulle isole Ionie (tranne che a Corfù, presa
dai Francesi); i Turchi furono fortemente appoggiati dai Russi che avevano
forti mire adriatiche, ma Napoleone prima e gli Inglesi poi li scacciarono
definitivamente oltre lo stretto d'Otranto.
Ancora negli anni sessanta di questo secolo alcuni
ricercatori poterono intervistare dei vecchi di Corfù che parlavano il dialetto
veneto. Proprio su quell'isola moltissimi rifugiati del Risorgimento trovarono
a più riprese ospitalità a cavallo della metà del secolo scorso. Niccolò
Tommaseo, esule[99] e perseguitato dagli Austriaci, sposò una donna
veneto-greca di Corfù (Diamante Pavello-Artale), mentre Ugo Foscolo era nato a
Zante da padre d'antica origine veneta (Andrea, medico dell'ospedale milirare
di Spalato) e da madre greca (Diamantina Spathis) per spostarsi poi a studiare
a Spalato (per ben sette anni), Padova e Venezia. Il nazionalismo italiano più
volte nel Novecento si spinse verso le isole Ionie: nel 1923 (sbarco a Corfù
voluto propagandisticamente da Mussolini) e nel 1940 (attacco alla Grecia
ancora voluto da Mussolini). L'illustre sebenicense Tommaseo così si espresse
in gioventù: "Teco sempre vogl'esser mia dolce Italia...",
definendosi "Colui che omai per voto è tuo figliol...", pur essendo
sua madre, Caterina Chevessich, d'origine slava (anche la madre del martire
triestino Guglielmo Oberdan, il cui cognome originario era invero Oberdank, era
d'altronde d'origine slava e ciò non influì certo sul suo senso di appartenenza
alla nazione italiana). I sebenicensi erano soliti chiamarsi, dialettalmente,
sebenzani, come i polesani polesi. Malgrado ciò rimane indubbio che gli ionici,
a differenza dei dalmati, il dialetto veneto lo dovettero imparare da zero; le
città di Fiume, Gorizia, Trento, Pisino, Ragusa e Trieste dimostrano come quel
dialetto fosse presente indipendentemente dal dominio della Repubblica di
Venezia[100] la quale non inseguì mai finalità nazionali italiane
ma solo i propri interessi commerciali su basi sovra-etniche[101] (altrettanto fece la Repubblica di Ragusa). Infatti
anche la contea di Pisino, culturalmente omogenea al resto dell'Istria,
dimostra chiaramente ciò[102].
In tempi non lontanissimi sempre il più illustre dalmata,
il Tommaseo di Sebenico, la cui famiglia era però originaria dell'isola di
Brazza, di fronte a Spalato, (nome che deriva dalla sua forma allungata, come
un grosso braccio), definì "illirico" l'idioma che ora si chiama serbo-croato e che prima si era
chiamato schiavone, non conoscendo altro plausibile modo per definirlo; quando
raccolse i "Canti illirici" dovette essere aiutato dal suo insegnante
di illirico Spiridione Popovich, non conoscendo quell'idioma. Anche gli
Austriaci chiamarono a lungo quella lingua (il serbo-croato) illirico.
Tantomeno per le conoscenze d'allora qualcuno poteva intuire che i Morlacchi
fossero d'origine romena (allora detti valacchi e studiati dal Cattaneo); essi
erano invece detti anche Latini Nigri; era quindi almeno chiaro che non erano
slavi. Tommaseo, peccando di campanilismo, definì il proprio dialetto il più
puro d'Italia e infatti il dialetto bergamasco di sua nonna gli risultava quasi
incomprensibile; quando però scrisse in slavo (illirico) "Scintille"
("Iskrice") lo fece unicamente col fine di divulgare le proprie idee
autonomiste[103] (sempre fermamente contrarie all'unione alla
Croazia-Slavonia) agli Slavi, cercando il pacifico dialogo, anche se
sucessivamente ciò fu strumentalmente travisato in chiave filo-slava[104]. Egli considerò il piemontese frammisto di elementi
francesi, il lombardo ricco di germanismi ed il napoletano spagnoleggiante,
mentre considerò purissimo il sebenicense (o più ampliamente il dialetto veneto
in genere); gli abitanti italiani di Sebenico si sono quasi sempre definiti
sebenzani (volgarmente), più che sebenicensi (letterariamente). Niccolò
Tommaseo, tornato in Dalmazia dopo anni di assenza, si lagnò alquanto
costatando come molte terre e contadi si fossero slavizzati e come la Dalmazia
del secondo Ottocento fosse sempre più slava e sempre meno italiana (rispetto a
quanto la ricordava lui che l'aveva lasciata solo alcuni decenni prima per
recarsi in penisola).
Come nell'Istria nord-orientale, molte zone interne
vennero popolate da Slavi ed addirittura in certi casi furono costruiti borghi
a ridosso delle mura delle città per ospitarli in fuga dai Turchi (come ad
esempio nella democratica Ragusa). A nord di Ragusa nel XII secolo arrivarono
dall'interno i Dubroni, che prendevano il nome dalle foreste di quercia
(dubrava), e secoli dopo al loro nome si dovette il nome slavo della città. Nel
Veneto attuale vi sono ancora famiglie con cognomi slavi o greci (ed
addirittura un centinaio di persone ancora di religione ortodossa) immigrate in
quel periodo sulla Terraferma. Avvenne anche un processo inverso che portò
molte famiglie in Dalmazia dalla Terraferma veneta (così come molti dalla
Carnia giunsero in Istria); molti dalla Lombardia orientale, specialmente
alpina, giunsero nelle isole e nelle cittadine dalmate, come evidenziato dal
nome del paese di Lombarda sull'isola di Curzola. Molte famiglie, per meglio
controllare il territorio, furono infeudate e legate ad isole o terre come i
Fedrigo a Lussino o come i Frangipane a Veglia (che poi si spostarono a Segna
sotto l'Ungheria); anche moltissimi uomini influenti, pur d'origine schiavone,
ottennero riconoscimenti nobiliari sotto Venezia (si pensi al conte Viscovich
di Perasto) e ciò equivalse ancora di più a venetizzarli completamente.
Nel frattempo Ragusa si consolidava come la quinta
repubblica marinara italiana con floridi traffici che a tratti misero in
difficoltà la stessa Venezia; essa potè commerciare con i Turchi grazie ad una
apposita bolla papale (anche se i Veneziani lo facevano ugualmente). Il motto
della Repubblica adriatica fu nei secoli: "Non bene pro toto libertas
venditur auro". Le arti e la cultura fiorirono grandemente e l'ingerenza
turca si limitò ad un fastidioso e periodico pagamento di tributi, cessato
definitivamento nel 1718 a seguito della sconfitta turca inflitta dalla
coalizione austro-veneta. La rete consolare e commerciale era vastissima ed
alcuni mercanti accumularono ricchezze incredibili come Michele Prazzato da
Mezzo, che pure era partito dal nulla, il quale con la flotta delle sue
caracche contribuì a risolvere la crisi commerciale spagnola, meritandosi il
riconoscimento personaledi Carlo V. Egli in punto di morte, nel 1607, lasciò
tutte le sue sostanze alla Repubblica meritandosi, caso unico, un busto nel
palazzo dei Rettori[105] (il doge infatti era qui detto "rettore").
Il Patriziato Sovrano Originario era composto da undici nobili famiglie (Bona,
Caboga, Cerva, Ghetaldi, Giorgi, Gozze[106], Gradi, Pozza, Saraca, Sorgo e Zamagna) tutte dalmate
(i Ghetaldi erano però d'origine tarantina), formanti il nerbo culturale ed
economico dell'aristocratica Repubblica. Le famiglie nobili in città
complessivamente erano ben 153, delle quali 36 originarie in linea diretta
della penisola (da Padova, Roma, Pescara, Bari, Reggio Calabria, Ravenna,
Ancona, Napoli, Siena, Milano, Brescia, Ferrara e così via).
Alcuni Dubroni, vivamente chiesta ospitalità entro le
mura, si fusero pacificamente con la popolazione latina, anche se agli strati
più bassi, e ne assimilarono tosto i costumi; questi arrivi furono facilitati
dal fatto che a Ragusa vigeva il diritto di asilo, detto
"franchisia". La cultura italiana raggiunse livelli altissimi,
sconosciuti in molte parti della stessa penisola, come nel 1487 quando
divennero famose in tutta Italia (e non solo) le preziose copie della Divina
Commedia che andavano in stampa nella tipografia ragusea di Bonino de' Boninis
di Lagosta (Lagosta era sotto Ragusa come Meleda e Sabbioncello); anche in ciò
Ragusa rivaleggiò, spesso alla pari, con l'avversaria Venezia. Questa
"inimicizia" non era di carattere etnico-nazionale, ma analoga a
quella che vi era tra Venezia e Genova piuttosto che tra Pisa e Genova. E'
assai interessante vedere come sia a nord (foci della Narenta) che a sud
(bocche di Cattaro) la Repubblica di San Biagio (Ragusa, appunto) non
confinasse con la rivale Vernezia, preferendo due sottili limgue di terra
appartenenti all'Impero Ottomano al quale era pure legata da vincolo , di
vbolta in volta, furono, come detto più o meno marcati. Uno di questi corrisdoi
rimane tuttora e coincide con lo sbocco di Neum, attuale unico porto della
Repubblica di Bosnia-Erzegovina. Pure il grande novelliere Francesco Sacchetti
nacque a Ragusa nel 1332 (o 1334). I Croati, sostenendo le loro note tesi
nazionaliste, parlano orgogliosamente e soventemente di un noto ed illustre
raguseo di fine Trecento, di nome Rusko Kristoforich; in realtà suo padre,
insigne medico, era di Benevento e si chiamava più semplicemente Cristofori:
egli si spostò a lavorare a Ragusa dalla penisola come moltissimi altri fecero
in quel periodo. I commerci così floridi con il Regno di Napoli resero
necessaria nel 1640 la presenza nella città di San Gennaro di confessori che
conoscessero il dialetto raguseo, così differente dal dialetto napoletano.
Proprio i contatti di questo periodo tra la Repubblica di Ragusa e l'Italia
(Regno di Napoli, Toscana, Stato Pontificio), con l'arrivo di molte genti
italiane, modificando il dialetto locale rendendolo un veneto "toscaneggiante";
si era soliti dire che a Sabbioncello, presso Ragusa, si parlasse l'italiano
più forbito di tutta la Dalmazia[107]. Nel Settecento da qui provenne una folta schiera di
uomini di cultura che si mise in luce in tutta l'Europa; specialmente la corte
di Roma ne ebbe diversi tra i suoi preziosi ed invidiati ospiti formanti una
piccola comunità. Tra essi si ricordano Luca Stulli, Bernardo de' Zamagna,
Benedetto Stay, Giunio Resti, Benedetto Rogacci, Raimondo Cunich, Giorgio
Sagrivi, Ruggero Giuseppe Boscovich, Giorgio Baglivi, Gioacchino Stulli e Marco
Faustino Gagliuffi[108] che dettero vigore all'Illuminismo italiano con i
propri studi religiosi, astronomici, matematici, classici e con la propria
poesia. Centro di cultura europeo (o meglio mondiale) era allora il Collegio dei Gesuiti di Ragusa. Si noti, parlando
di cosmopolitismo, che il medico chirurgo Giorgio Baglivi era addirittura di
lontane origini armene; la tolleranza nella Repubblica fu tale che vi fu pure
un rettore di origini ebraiche (Judas). Ragusa, a causa anche del tremendo
terremoto del 1667, non tornò mai più agli splendori di quest'epoca ed alcune
popolazioni slave ricominciarono gradualmente ma con più forza a penetrarvi.
Nel 1706 un incendio rimise duramente ed irrimediabilmente in ginocchio la
città[109].
Altrettanto grandi furono i dalmati tutti in campo
artistico[110], si possono ricordare tra i moltissimi Giorgio Orsini
di Zara detto Giorgio Dalmata, Giorgio Ciulini[111] di Scardona detto Giorgio lo Schiavone, Giovanni
Stattilo[112] di Traù detto Giovanni Dalmata, Andrea Meldolla di
Zara detto Andrea lo Schiavone, Francesco Laurana di Vrana, Trifone Cocoglia di
Perasto, Carlo Raimondi di Cattaro, Luciano Laurana di Zara, Vincenzo Catena di
Cattaro[113] e moltissimi altri[114]; essi operarono anche in Penisola come pure per
l'Europa intera come del resto anche artisti di altre regioni d'Italia giunsero
a lavorare in Dalmazia (Onofrio della Cava da Napoli, Niccolò Fiorentino da
Firenze e molti altri). Tutta la costa orientale dell'Adriatico è impreziosita
di stupendi cattedrali gotiche con autentico gusto italiano (lombardo, toscano
e pugliese) come a Trieste, Pola, Arbe, Zara, Traù, Spalato, Curzola, Cattaro;
si noti che ora Cattaro fa addirittura parte di un paese ortodosso come il
Montenegro.
La letteratura (non si può non ricordare il poeta-soldato
del Cinquecento Ludovico Pasquali di Cattaro), la storia, la musica e la
religione (con ben tre papi) videro sempre i dalmati in grandissimo rilievo[115]. In fatto di arte e cultura si può oggettivamente
affermare che la Dalmazia nella storia dette all'Italia più di molte altre
regioni della stessa Italia.
VII - La Dalmazia e i modelli di
nazione
All'inizio del secolo scorso la Dalmazia, coerentemente
con la penisola, visse animatamente i moti risorgimentali e la nascita della
Carboneria[116]; tutto ciò ovviamente spinse l'Austria ad intervenire
in una opera di repressione che pure non potè fermare i fermenti liberali che
avevano pervaso l'Europa intera[117]. Inizialmente le idee liberali, che avevano trovato
origine negli stessi principi^ della Rivoluzione francese, avevano carattere
universalistico e solo dopo presero un carattere nazionale e patriottico
alimentato dalla vasta cultura italiana di Dalmazia. In questo passaggio la
cultura strettamente croata fu quasi completamente assente; l'Austria nella
seconda metà del secolo si comportò di conseguenza, colpendo gli Italiani e le
loro associazioni[118]. In Dalmazia nacquero logge massoniche di stile italiano
a Zara, Sebenico, Ragusa, Cattaro e Macarsca, comprendenti artigiani, ex
soldati, possidenti, ecclesiastici, e soprattutto uomini di cultura. Le vendite
carbonare si tenevano a Zara, Sebenico, Spalato, Ragusa, Cattaro, Curzola,
Lesina, Macarsca e Lissa; inoltre i carbonari dalmati si incontravano
abitudinariamente nella penisola alle fiere di Lanciano e Senigallia ove si
tenevano veri e propri congressi politici[119] ai quali partecipavano anche patrioti di altre
regioni (Lombardia, Toscana, Emilia). In questo periodo, tra i centri minori,
spicca l'attivo ruolo della cittadina di Macarsca dove nel 1862 nascerà il
patriota Giuseppe Ziliotto, futuro sindaco di Zara e poi senatore del Regno
d'Italia. Nel 1848, durante i moti, diversi Dalmati accorsero a combattere per
la difesa di Roma e della sua Repubblica (altri furono a Firenze ed altri
ovviamente a Venezia), tra i quali Giorgio Giovannizio, don Giuseppe Fama e
Marco Allujevich da Spalato, Giacomo de' Zanchi da Zara, don Vincenzo Marinelli
da Bol e Federico Seismit-Doda da Ragusa, quest'ultimo autore dell'inno
risorgimentale La Romanina e futuro ministro delle Finanze del Regno
d'Italia nel 1889. Altri patrioti dalmati accorsi in ogni angolo d'Italia
durante il Risorgimento furono: Ballovich, Paolucci delle Roncole, Graziani,
Puder, Baccinelli, Hoeberth, Cossovich, Billanovich, Derossi, Gialinò,
Millanovich, Venturini, Lisovich, Molin, Carrara, Vusio, Giuppani, Luscovich,
De Giovanni, Popovich, Maggiorato, Minich, il conte Vucovich ed il conte
Viscovich. Luscovich accorse volontario a Venezia nel 1848 all'età di sedici
anni.
Sucessivamente si delineò in Dalmazia una situazione
completamente mutata che, dopo la caduta di Venezia nel 1797, vide quella
definitiva del 1848 con i moti ai quali accorsero 12.000 volontari al seguito di
Niccolò Tommaseo e Daniele Manin e tra i quali si evidenziarono numerosissimi
Dalmati, che speravano di restaurare la Repubblica. Erano pure finiti i comuni
motivi di resistenza ai Turchi, in quanto il gigante dai piedi d'argilla era
ormai moribondo ed alla mercé austro-tedesca, mentre in generale erano i tempi
che stavano mutando l'Europa intera[120]. La restaurazione non lasciava più spazio ad
autonomie ad entità repubblicane come furono quelle di Venezia, di Genova, di
Lucca o di Ragusa; lo Stato nazionale era ormai consolidato. L'ultimo doge di
Venezia, Ludovico Manin, pensò in un primo tempo di recarsi a Zara e tentare
una strenua resistenza ("Tolè suso el corno e andè a Zara[121]", cioè gli fu detto di prendere con sé il simbolo
dogale e di andare a Zara). Nel frattempo seicento schiavoni del Militar
Collegio di Verona si ribellarono ai Francesi e dettero vita alla rivolta detta
delle Pasque veronesi[122]. Alla caduta della Repubblica i quattro quinti del
naviglio veneto avevano armamento istriano e dalmata. Questi eventi ancora non
spensero l'unità dei Dalmati, che fino al 1866 seguirono la sorte di Venezia e
di tutto il Veneto che ancora veniva detto la Terraferma. Venezia invece sempre
definì la Dalmazia come la Fedelissima; ma un nuovo elemento si stava
delineando inesorabilmente: la nascita della coscienza croata.
Ancora tra il 1805-06 ed il 1809 (Ragusa solo tra il
gennaio 1808 ed il 1809) la Dalmazia tutta fu annessa assieme all'Istria, nei
confini veneziani (ovvero entro la linea Mocenigo), al satellite napoleonico
del Regno d'Italia sucessivamente al trattato di Presburgo del 26 dicembre 1805[123], seguendo così, ancora una volta, le sorti
dell'intero Veneto; dal 1806 al 1810 provveditore generale di Dalmazia fu il veneziano
Vincenzo Dandolo[124]. Una delegazione dalmata inviò i propri
ringraziamenti all'imperatore; essa era composta da: Garagnin, Baiamonti,
Stratico, di San Fermo, Giubilo, Albinoni, Lovrich e Kreglancivich. In questo
frangente Napoleone Buonaparte, forse pentito del baratto del 1797 (se non
altro per l'importanza strategica della Dalmazia), dette ordine a Dumas di
leggere questo proclama: "Dalmati, l'imperatore Napoleone re d'Italia
vostro re vi rende la patria. Egli ha fissato i vostri destini. Il trattato di
Presburgo garantisce la riunione dalla Dalmazia al Regno d'Italia",
ponendo tardivo e parziale rimedio agli accordi franco-austriaci del 1797.
Questi accordi avevano causato la petizione dei dalmati a Parigi firmata dallo
zaratino di San Fermo il 6 agosto 1797 e tanto avevano deluso Foscolo (che
aveva vissuto a lungo in Dalmazia[125]) e gli ex sudditi veneziani, tutti; essi dando ai
Dalmati i primi otto anni di dominio austriaco (1797-1805). Fu il generale
Marmont che il 6 gennaio del 1808 spense per sempre l'antichissimo parlamento
di Ragusa tradendo la fiducia dei ragusei; la Repubblica di San Biagio era
occuputa dal 1806 per esigenze militari in quanto i Russi avevano mire in zona,
tant'è che nel 1807 sbarcarono a Cattaro puntando dritto su Ragusa; dopo la
sconfitta russa di Saturina in breve l'ordine fu ristabilito e sia Cattaro sia
Ragusa furono integrate nel Regno d'Italia (malgrado la rivolta antifrancese
delle bocche di Cattaro ed il generale malumore dei Dalmati i quali criticavano
pure l'acceso anti-clericalismo francese). L'estromissione dei Russi dalla
Dalmazia fu sancita con il trattato di Tilsit (1807)[126]. Poi vi fu la complessa esperienza delle Provincie
Illiriche costituite da Dalmazia, Istria, Corfù (discontinuamente) e dai
territori annessi a danno dell'Austria cioè Carniola (attuale Slovenia), gran
parte della Croazia e Carinzia; i Francesi aggregarono questi territori
etnicamente eterogenei e dettero loro per capoluogo la città di Trieste; il
confine tra Regno d'Italia e Province Illiriche fu ineditamente fissato
all'Isonzo. Le Province Illiriche incorporavano così (per la prima volta
unitamente) le città italiane di Gorizia, Monfalcone, Trieste, Capodistria,
Rovigno, Pola, Fiume, Zara, Traù, Spalato, Sebenico, Ragusa e Cattaro con tutte
le 863 isole dalmate. Il generale Marmont però prese sede a Lubiana (forse
apparentemente più solida dal punto di vista militare). La Dalmazia, per fini
militari, ebbe la creazione di una strada costiera vera e propria di cui i
veneziani non avevano mai sentito l'esigenza; fino ad allora era sempre stata
utilizzata la nave per gli spostamenti, mentre strade vere e proprie che
valicassero le alpi Dinariche ancora non ne esistevano. In questo periodo
furono anche importate le leggi dei dominatori francesi che portarono un
indiscusso rinnovamento; nello stesso periodo la lontananza dei traffici e dei
commerci (che solo parzialmente torneranno con gli Austriaci) accentuò una
forte crisi economica nella regione che contava all'inizio dell'Ottocento circa
250.000-260.000 abitanti (il censimento di Marmont ne evidenziò esattamente
257.000). Era stato il trattato di Passarowitz del 1718, sucessivo alla
vittoria veneto-austriaca sui Turchi, a stabilire in maniera precisa e
definitiva i confini interni della Dalmazia (seconda linea Mocenigo che
perfezionava la linea Grimani del 1719 preceduta dalla prima linea Mocenigo del
1699 e dalla linea Nani del 1635); proprio dal 1718 gli Austriaci cominceranno
la loro penetrazione nei Balcani rendendo e ciò renderà loro d'importanza
strategica insostituibile la Dalmazia[127].
Con il congresso di Vienna del 1814-1815 e con il mancato
ripristino della Repubblica di San Marco (da molti Veneti, Istriani, Ionici,
Lombardi e Dalmati caldamente auspicato) l'Austria tornò a governare tutte
queste terre (tranne le isole Ionie con Cerigo che rimasero agli Inglesi fino
al 1863 per passare col 1864 alla Grecia). Relativamente alle Isole Ionie[128] la situazione mutò completamente e, dopo quasi
quattro secoli, presero un destino completamente differente da quello di
Venezia. Vi arrivarono gli Inglesi che posero fine ad un concitato periodo nel
quale Veneziani, Francesi, Turchi e Russi si erano disordinatamente succeduti;
i Britannici abbandonarono così l'isola di Lissa (nel 1816) precedentemente
occupata e fortificata. Gli Inglesi decisi a rimanere a Lissa nel 1811 avevano
respinto, ma a carissimo prezzo, l'attacco congiunto di Francesi ed Italici
(comandati da Pasqualigo); sotto gli Inglesi Lissa ebbe come lingua ufficiale
l'italiano (ovviamente affiancato dall'inglese). La Dalmazia divenne quindi una
provincia austriaca, divisa in 14 capitanati con capoluogo Zara (la città più
settentrionale e quindi più vicina all'Impero)[129], mentre Spalato (in seguito allacciata alla ferrovia)
ne rimase il principale centro commerciale. Dopo i primi anni durante i quali
l'amministrazione rimase quella di stampo veneziano e, in minor misura,
napoleonico, le cose cominciarono a mutare. Il 24 aprile 1815 viene comunque
fermamente ribadito, sotto gli Austriaci, che in Dalmazia "le parti non
meno che i loro patrocinati dovranno nei loro atti servirsi
dell'italiano".
Dopo anni di relativa tranquillità (sino al 1848) sotto
la corona asburgica le cose cominciarono a mutare; mentre esteriormente tutto
ancora pareva mantenersi italiano, specie nella forma, nella cultura e negli
atti ufficiali, intorno al 1852-54 nacque la prima grammatica croata e con essa
cominciò a cementarsi la coscienza nazionale dei Croati. Grande spinta a questo
nuovo fenemeno fu dato dal fenomeno dell'Illirismo propugnato da Gaj (il cui
primissimo programma, redatto a soli diciotto anni, è datato 1830), il quale
non potendo prevedere gli episodi dei decenni a venire, prese benevolmente a
modello culturale l'Italia ed il Tommaseo[130]; l'Illirismo prendeva tra l'altro linfa
dall'accidentale unione croato-dalmata di periodo napoleonico (1810-1814).
Ancora pochi anni prima, quando il futuro duca napoleonico di Ragusa e
governatore della Dalmazia generale Marmont arrivò nella provincia (dicembre 1805)
con truppe arruolate in Croazia, i Dalmati di madrelingua croata si erano
sentiti molto imbarazzati nel costatare che in quell'esercito rozzo, sporco e
disordinato si parlasse una lingua del tutto simile alla loro: entrambi non
sapevano, ancora, di essere Croati.
L'Austria, fedele al motto "Divide et impera"[131], dinanzi al nascere tra i Dalmati di madrelingua
italiana (ai quali cioè la lingua slava era assolutamente sconosciuta) di un
forte senso patriottico alimentato dal Risorgimento italiano[132], cercò di favorire il più fedele e malleabile
elemento croato il quale alle spalle non aveva un movimento culturale di forza
e quindi pericolosità analoghe. La componente italiana, forte detentrice di
cultura, era stata infatti promotrice di diverse iniziative editoriali:
"Regio Dalmata" (1806-1810, sotto Napoleone), la "Gazzetta di
Zara" (nel 1832, soppressa dagli Austriaci nel 1850), "La
Dalmazia" (a Zara, che ebbe vita breve), "Zara Democratica", la
"Dalmazia Costituzionale" (a Zara dal 1848), l'"Osservatore
Dalmato" (a Sebenico dal 1848), "Voce Dalmatica" (stampata a
Zara dal 1860 e fatta chiudere nel 1863, diretta dal noto giornalista
Duplancich che dovette fuggire esule ad Ancona accusato dagli Austriaci di alto
tradimento), "Risorgimento" (edito a Zara), "Avvenire"
(fondato a Spalato da Baiamonti[133] nel 1875, con direttore Colautti, fatto chiudere
dagli Austriaci nel 1883), "Difesa" (a Spalato dal 1884 al 1889, di
proprietà sempre del Baiamonti, giornale radicale), "Il Dalmata"
(uscito già nel 1866 e diretto da Meteovich, fatto chiudere dagli Austriaci nel
1916 mentre era sotto la direzione di Feoli), "Il Costituzionale" (a
Zara dal 1876, radicale), "Corriere Nazionale" (a Zara dal 1896 al
1897); pubblicazioni periodiche di fine secolo furono: "Palestra"
(1878-1882), "Scintille" (1886-1890), "Cronaca Dalmatica"
(1888), "Rivista Dalmatica", "Bollettino di Archeologia e di
Storia Dalmata" (gli ultimi due diretti dallo studioso Brunelli,
anconitano ma spalatino d'adozione) "Il Secolo", la
"Verità", il "Fulmine", "Sport Dalmato" (questi
ultimi cinque a Spalato), la "Leva", la "Mosca",
l'"Avvisatore Popolare", la "Trappola", il
"Laccio", la "Domenica", "Rivista Illustrata",
"Zara", "Sor Todaro", l'"Operaio Dalmato" (questi
dieci editi a Zara[134]). Attività di carattwere sportivo o ricerche storiche
erano comunque veicoli (spesso strumentali) di cui si serviva la cultura
italiana per proseguire la propria sempre più difficile opera di diffusione; di
questo strumento si servirà pure Francesco Rismondo a capo, a Spalato, della
società sportiva Pro Patria. La "Rivista Dalmatica" diretta da
Fichert uscì a Zara nel 1859 (per solo sette mesi), scritta in italiano,
perorava romanticamente la causa slava, L'"Avvenire" uscì a Ragusa in
italiano, ma era fortemente filoslavo (vi scriveva Voinovich[135]). Anche la componente slava, con cinquant'anni di
ritardo, si organizzò; nel 1863 a Zara uscì il "Nazionale" che in
breve (1873) divenne "Narodni List", in croato (edito fino al 1876),
così come "Dalmazia Cattolica" (del clero) repentinamente divenne
"Hrvatska Konna" (radicalmente anti-italiana). Erano giornali croati
e come tali nacquero: "Zora Dalmatinska" (a Zara), "Crvena
Hrvatska" (a Ragusa, radicale) e "Zemljak", "Narod"
(diretto da Bianchini) e "Iedinsto" (a Spalato); erano giornali
serbi: "Srpsk i Glas" (edito a Zara) e "Dabrovnik" (a
Ragusa)[136]. Nel 1848 la "Dalmazia Costituzionale" così
scriveva: "Né Italiani, né Slavi, ma Dalmati", non cogliendo che
l'ora dura delle scelte forse stava arrivando; nello stesso anno (1848) Dalmati
anonimi composero l'Invocazione dei Dalmati: "Nel nome del Padre, del
Figliolo e dello Spirito Santo, Noi popolo dalmata, in virtù dei diritti nostri
antichissimi e per la nostra piena ed unanime volontà, il più antico di tutti i
diritti e di tutte le leggi, alle generazioni presenti e all'ultime a venire;
protestiamo agli altari e dinanzi ai nostri figlioli, sulle fonti del nostro
battesimo e sui poveri sepolcri dei nostri antenati; protestiamo dai nostri
lidi e dai nostri monti e dalle isole nostre, al cospetto di tutti i popoli
della terra e al cospetto santo di Dio: non vogliamo essere croati".
Si stava arrivando ad un vero e proprio confronto
culturale, che più tardi muterà in politico; la componente croata con giornali
ed opuscoli spesso in italiano (allora perfettamente conosciuto ad ogni dalmata)
cercava di portare sulle proprie tesi uomini di cultura notoriamente italiani.
In generale la cultura Italiana in Dalmazia fu sempre di altissimo livello ed
ottima diffusione, l'Impero fu indubbiamente portatore e veicolo di cultura
anche indipendentemente dai moltissimi torti furono commessi. La cultura
italiana dette appoggio allo spirito liberale e patriotico per tutto
l'Ottocento, ed i Dalmati furono attentissimi agli accadimenti che stavano
coinvolgendo la cultura italiana nella penisola e tramite essa l'Europa tutta.
Addirittura con i Mille del nizzardo Garibaldi combatterono i Dalmati Giorgio
Garavà[137] da Tenin, Francesco Galateo da Spalato, Enrico
Matcovich da Stretto, Giacomo de' Zanchi da Zara e Spiridione Sirovich da
Cattaro[138]. In questa situazioni ricca di tensioni latenti si
arriva al 1866 dove due fattori
fondamentali e dannosissimi per la componente italiana vengono a coincidere; da
un lato i Croati stanno cercando una collocazione culturale precisa cercando di
assimilare alla propria cultura la Dalmazia, dall'altro gli Austriaci
cominciano una dura repressione a danno degli Italiani servendosi dei Croati
stessi. I Dalmati con sentimenti italiani persero nei propri mari al largo di
Lissa[139] nel 1866 la speranza di essere uniti all'Italia come
capitò invece ai Veneti e dovettero subire la vendetta austriaca; tra l'altro i
marinai delle navi austriache erano tutti Dalmati ed Istriani e ricevevano gli
ordini in dialetto veneto. Il dialetto veneto aveva carattere di
semiufficialità all'interno della Marina austriaca tant'è che nelle scuole
nautiche di Cattaro e Ragusa l'italiano rimase lingua d'insegnamento. Tra i
caduti sulle navi austriache vi furono, tra gli altri, Dominighetti, Spadotin, Tebaldi,
Busetto[140], tutti di chiara ascendenza italiana. Sulla nave
italiana "Re d'Italia" capitanata da Faà Di Bruno perì col suo
capitano anche il patriota spalatino Giovanni Ivancich che aveva disertato
dalla Marina austriaca per arruolarsi volontario in quella italiana; affondò
pure la nave "Palestro" capitanata dal livornese Cappellini. Al di là
degli errori strategici del loro comandante Persano, i singoli elementi delle
navi italiane spiccarono per il loro coraggio; Faà di Bruno perì lasciandosi
volontariamente inghiottire dai flutti sul ponte della propria nave speronata
dalle navi austriache. In realtà al sopraggiungere delle navi austriache le
impreparate navi italiane stavano già sbarcando le proprie truppe a Lissa
(paese) tra la gioia degli abitanti accorsi al porto. Nottetempo, partita la
flotta italiana da Ancona il 16 luglio, spie della marina italiana cercarono di
entrare in contatto a Spalato con i patrioti Giovannizio e Boxich (ma
maldestramente furono subito sorprese dagli Austriaci). Il giorno 20 luglio
Giorgio Giovannizio a capo dei patrioti italiani (mentre il podestà Baiamonti
era momentaneamente a Padova), scrutò la battaglia dal monte Mariano, alla
spalle di Spalato, attendendo invano le navi di Persano in città mentre invece
arrivarono quelle vittoriose di Tagetthoff; Baiamonti tornato rapidamente al
suo posto dovette consolare una folla di oltre 400 giovani in lacrime raccolti
in piazza Marmont. L'ammiraglio austriaco per prendersi beffa dell'Italia e
degli Italiani fece porre a Lissa una lapide che recitava in tedesco: "In
queste acque uomini di ferro su navi di legno sconfissero uomini di legno su
navi di ferro", ribadendo la maldestra conduzione italiana della battaglia
(Persano fu poi processato). I Croati, ancor oggi (1996), interpretano quella
come una loro grande vittoria sui nemici Italiani e ne hanno di recente
orgogliosamente festeggiato il 130° anniversario[141]. La battaglia di Lissa, ultimo scontro navale con
obsolete tecniche settecentesche come lo speronamento, è invece interpretata da
alcuni come l'ennesima vittoria degli adriatici (Istriani, Dalmati) sui
tirrenici (Liguri, Campani), si ritiene invece che sia solamente stata la
sconfitta della giovanissima, neofita ed inesperta marina sabauda[142].
In generale si può tranquillamente affermara che gli
uomini di Dalmazia parteciparono assieme a tutte le altre regioni d'Italia ai
moti liberali prima e risorgimentali poi[143].
Come a Trieste, a Fiume[144], in Istria, nel Goriziano[145], in Trentino dopo Lissa tutto ciò che era italiano
venne avversato e non potendo germanizzare tutto quanto, specie in terre
annesse all'Austria da poco e lontane dalle zone di lingua tedesca, si cercò di
slavizzarlo[146]. Anche in Istria, dove nel 1894 Felice Bennati aveva
capeggiato la rivolta contro l'introduzione dello slavo (verosimilmente della
giovane lingua slovena) al fianco dell'italiano durante la rivolta delle
tabelle bilingui a Pirano, lo scontro si era duramente acceso; nel Friuli
austriaco (zona di Gorizia e Monfalcone) si tradusse la Bibbia in dialetto
friulano (non potendo plausibilmente tradurla né in sloveno né in tedesco) col
solito pretesto di demolire la cultura italiana. A Fiume nel 1898 furono
introdotti i tram e la popolazione stupita insorse perché le scritte al loro
interno erano bilingui[147]; l'anno dopo (1899), terminato ormai definitivamente
l'idillio ungherese, Michele Meylander fondò l'Associazione Autonoma Fiumana[148], ribadendo la peculiarità e l'autonomia di Fiume in
quanto corpo separato all'interno del Regno d'Ungheria. Per definire in maniera
omnicomprensiva le zone ad oriente del Friuli ex veneziano chiuse dalle Alpi
Giulie nel 1863 il linguista e patriota Isaia Graziadio Ascoli coniò
argutamente il termine Venezia Giulia che si contrapponeva a Kunstenland, usato
dagli Austriaci in chiave germanizzatrice ed antiitaliana. Cavour nel 1860
aveva detto che ad oriente l'Italia sarebbe dovuta arrivare sino alla Dalmazia;
in questo ed in pochissimo altro fu del medesimo parere di Garibaldi.
La toponomastica dalmata[149] ufficiale era quasi interamente italiana sulla costa
e sulle isole, slava all'interno ma prima della nascita della grammatica croata
anche i nomi croati erano ovviamente scritti in italiano (o più spesso in
dialetto veneziano); seguendo questa logica il paese di Vergoraz sarà mutato in
Vrgorac, Percovich in Perkovic, Dernis in Drnis e Metcovich in Metkovic
(pronunciati comunque in maniera identica). L'inizio del secolo vide un forte
attacco austriaco anche alla toponomastica che evitò però i centri principali
il cui nome italiano era codificato ed immutato da secoli. Nella stessa logica
furono mutati anche i cognomi (il clero che controllava i registri delle
anagrafi si prestò volentieri a questa operazione); molti Gliubich divennero
Lijubic, Voinovich divennero Vojnovic e così via.
E' significativo che i primi tre direttori dell'Atlante
Glottologico Italiano furono nell'ordine i patrioti Isaia Graziadio Ascoli (di
Gorizia), Matteo Giulio Bartoli (di Albona) e Piergabriele Goidanich (di
Volosca, presso Abbazia ed ad essa accorpata in un unico comune), tutti
ferventi irredentisti e patrioti di provenienza giuliana. L'Ascoli era zio del
grande poeta ebreo-goriziano Carlo Michelstaedter fervente patriota italiano ed
irredentista, morto suicida a soli ventitré anni nel 1910; pure l'Ascoli era di
fede ebraica come del resto molti patrioti goriziani, fiumani e triestini (tra
cui parecchi volontari nella Grande Guerra, si pensi a Levi); la sola Trieste
dette all'Italia ben 1804 volontari tra il 1915 ed il 1918, quasi sette volte
più dell'intera Dalmazia (alcuni erano proprio di origine dalmata). Per essi
d'altronde era assai più semplice varcare il vicino confine con l'Italia, per i
dalmati ciò fu difficilissimo tant'è che durante la guerra gli Austriaci sospesero
quasi tutti i collegamenti marittimi tra Italia e Dalmazia; si ricorda sempre
come tutti questi volontari considerati dalle autorità austriache dei disertori
perseguibili con la pena di morte.
Le scuole italiane chiudevano ed aprivano quelle croate,
mentre l'associazione Pro Patria cercò di divulgare la cultura italiana ma fu
chiusa dalle autorità nel 1890; gli Italiani si riorganizzarono prontamente nel
1891-1893[150] costituendo la Lega Nazionale[151] con tre sezioni: Tridentina (con sede a Trento),
Giuliana (con sede a Trieste) e Dalmata (con sede a Zara, il coordinamento
centrale era, alternativamente, un anno a Trieste ed uno a Trento[152]). Essa gestiva autonomamente scuole italiane là dove
gli Austriaci le chiudevano[153]. Nel 1901 essa contava 29 istituti, 131 gruppi locali
e 24.000 soci, passati, nel 1911 a 210 istituti, 153 biblioteche, 177 gruppi
locali, 40.000 iscritti; inoltre pagava gli studi a 250 universitari[154] non essendovi alcuna università italiana in Austria
(essa fu promessa molte volte, a Trieste, ma le promesse austriache furono
sempre vane). Negli stessi anni (1904-1908 ed oltre) furono frequentissimi gli
attriti tra gli studenti italiani e quelli tedeschi o provenienti da altre
parti dell'Impero nelle università austriache di Innsbruck, Graz[155], Budapest e Vienna[156]. In Dalmazia la Lega Nazionale era presente con
scuole a Cattaro, Ragusa, Curzola, Cittavecchia di Lesina, Spalato, Imoschi,
Traù, Sebenico, Scardona, Tenin, Ceraria, Borgo Erizzo, Zara ed Arbe, e inoltre
nel Kustenland dalmata a Veglia, Cherso, Unie, Ossero, Neresine, San Giacomo di
Lussino, Lussinpiccolo, Lussingrande, Chiusi Lussignano[157]. Si noti che Imoschi, Tenin e Scardona sono
profondamente nell'entroterra. La Lega Nazionale istituiva scuole (dove il
governo le chiudeva o croatizzava) a spese delle collettività italiane che si
autofinanziavano con continui versamenti. In questo duro contrasto anche i
morti furono coinvolti: nel 1897 furono infatti profanati i cimiteri italiani
di Oltre e San Cassiano. Nel frattempo, nei Comuni le amministrazioni divennero
croate e dal 1909 l'italiano non fu più lingua ufficiale in Dalmazia[158] (la Bosnia, con l'Erzegovina, era austriaca dal 1908
e la Dalmazia sarebbe dovuta divenirne il litorale). Ufficialmente rimase
insegnato come seconda lingua, ma è dimostrato che ciò avvenne in maniera
discontinua e molto lacunosa[159]. Nel 1873 il Comune di Sebenico passò
all'amministrazione croata così come caddero nel 1882 Spalato, nel 1886 Traù,
nel 1887 Cittavecchia di Lesina per arrivare ad Arbe nel 1904 ed in fine a
Slarino nel 1910 che lasciava sola Zara[160]. La logica austro-croata prevedeva che in un Comune
con amministrazione croata vi fossero scuole croate, e così sarà. Nel 1867
erano ancora italiani tre Ginnasi superiori (Zara, Spalato, Ragusa), una Scuola
reale superiore (a Spalato), una Scuola reale inferiore (a Zara), tre Ginnasi
reali inferiori (Curzola, Sebenico, Cattaro), due Scuole nautiche (Ragusa,
Cattaro)[161] e ancora numerosissime Scuole popolari (a Arbe, Zara,
Sebenico, Tenin, Dernis, Traù, Almissa, Ragusa, Cattaro, Curzola, Lesina,
Lissa, Comisa e molte altre)[162].
La Dieta dalmata votò l'8 febbraio 1869 una legge in base
alla quale la lingua d'insegnamento fosse determinata dal Consiglio scolastico
provinciale su proposta del Consiglio scolastico locale composto da parroco,
presidente della scuola e tra i due ed i cinque delegati del Comune; ciò segnò
la condanna delle scuole italiane. Nel 1870 all'unanimità il Consiglio
Scolastico Locale di Curzola votò per il mantenimento della lingua italiana
(compresi tutti i rappresentanti dei villaggi di Zernovo, Blatta, Vallegrande e
Smoquizza), ma la Dieta impose la lingua croata (ancora detta illirica);
successe lo stesso a Lissa nel 1871 malgrado una petizione portata addirittura
all'Imperatore, così come erano pure già stati respinti i ricorsi di Comisa,
Bol, Almissa nel 1868. Addirittura la remotissima Tenin (e per gran parte
serbo-ortodossa) chiese apertamente il mantenimento della lingua italiana[163]. A Sebenico la scuola italiana privata era
sovvenzionata dallo Stato, ma nel 1874 le autorità le negarono le consuete
sovvenzioni ed essa chiuse; le sovvenzioni torneranno quando avrebbe riaperto
come croata, a Traù le sovvenzioni cessarono nel 1888; a Spalato la scuola
venne croatizzata, l'anno dopo il Comune,
nel 1883; sarebbero stati respinti respinti i ricorsi del 1886 (firmata
da Salvi con i genitori di 107 bambini) e 1893 (firmata dal conte degli Alberti
per 147 bambini). Le autorità calpestarono i diritti pure espressi nella severa
costituzione austriaca del 1848 adducendo motivi puerili, ovvero, sui 107
bambini del 1886, 58 avevano nomi di origine croata e quindi erano croati; il
padre di un bambino cambiando idea aveva ritirato la propria firma; due bambini
abitavano nel vicino villaggio di Castel Vitturi, sei erano sudditi del Regno
d'Italia, due erano sudditi ungheresi (provenienti dalla zona di Fiume), sei
non erano stabilmente domiciliati a Spalato e due erano nel frattempo passati
alle scuole medie, i restanti 30 bambini non erano in numero sufficiente (che
era di 40)[164]. Castel Vitturi era uno dei sette borghi (chiamati
castelli) che davano il nome all'omonima nota riviera posta tra Spalato e Traù
(Vitturi, Veniero, Cambio, Abbadessa, San Giorgio, Nuovo, Vecchio), mentre
altri sei castelli erano ormai abbandonati da tempo ed in rovina.
Dal 1866 nessuna scuola italiana fu aperta dalle autorità[165]. A Zara nel 1884 e 1894 due scuole slave furono
aperte, mentre fallì completamente l'apertura di una scuola tedesca causando
ilarità a Zara. Coloro che si esponenvano chiedendo per i propri figli una
scuola nella propria lingua erano una parte minoritaria degli Italiani (a
Spalato come nella Dalmazia tutta), che giornalmente temevano dure vessazioni.
In realtà il tracollo della componente italiana di Dalmazia avvenne in questi
anni (1870-1880) quando le autorità la colpirono chiudendo le scuole e vessando
la libertà di espressione culturale; con la parziale eccezione di Zara sino
agli accordi di Rapallo (1920) nessuna scuola italiana venne aperta lasciando
per quasi cinquant'anni gli Italiani orfani della propria cultura (intere
generazioni si susseguirono senza poter studiare la lingua materna, ma anzi
costrette ad apprenderne coattamente una non propria; da questa situazione la
componente italiana mai si riebbe).
Alla vigilia della deflagrazione europea erano 1.850 gli
alunni iscritti alle pubbliche scuole italiane di Dalmazia, mentre circa 2.200
erano quelli iscritti alle omologhe scuole private[166] (gestite dalla Lega Nazionale in 13 centri con 50
insegnanti)[167]; si noti come fortemente incidesse sugli Italiani
stessi il peso di mantenere viva la proipria cultura. Nello stesso periodo solo
9 scuole popolari su 459 erano in italiano (solo a Zara, Kunstenland escluso),
e tra le superiori solo 2 su 12 (le nautiche di Cattaro e Ragusa, poi divenute
bilingui)[168].
Antonio Baiamonti fu a lungo podestà[169] di Spalato (fino al 1880). Egli dedicò l'intera vita
alla sua città spendendo tutte le sostanze in suo possesso (per arrivare ad
essere oberato di debiti), agendo sempre con ferrea intransigenza[170], così come a Zara fece il locale podestà Niccolò
Trigari. Nel 1875 l'imperatore Francesco Giuseppe visitò la città di
Diocleziano e Baiamonti la fece trovare avvolta in unico grande tricolore[171], forse anticipando, con la sua coraggiosa
intransigenza, la sua destituzione a favore di Bulat (definitosi croato, ma
solo per interesse essendo d'origine italiana). Le elezioni del luglio del 1882
furono turbate da enormi brogli elettorali compiuti dai Croati[172] che ebbero dunque un loro podestà[173].
Il lungomare di Spalato fu testimone delle cordiali ma
accese discussioni tra i concittadini Antonio Baiamonti e Francesco de' Suppè
Demelli, insigne musicista noto a Vienna con lo pseudonimo di Franz von Suppè,
austriaco d'adozione ma dalmata italiano nel cuore se pur di madre austriaca
(si era formato tra Zara e Padova). Baiamonti morirà sesantanovenne nel 1891
oberato dai debiti dopo aver speso la sua personale fortuna per pubbliche opere
cittadine non supportate, come promesso, dalle austriache assicurazioni[174]; morendo lascerà la sua pesante eredità morale al più
giovane concittadino Ercolano Salvi. Così soventemente si espresse sempre
Baiamonti: "Se vogliamo vivere, a noi non resta che combattere", ed ancora:
"A noi Italiani della Dalmazia non resta che un solo diritto: quello di
soffrire"[175]. Il continuatore di Baiamonti, Salvi, anni dopo così
aggiunse duramente: "Non è il numero che conta: bensì la cultura e la
civiltà. Cinquant'anni di violenza e di sopraffazione plebea ed asburgica, non
sono valsi, non che a deturpare, a scalfire l'impronta che il genio latino
fermò sulla Dalmazia", aggiungendo: "L'Italia in Adriatico non si
difende se non dalla Dalmazia e con la Dalmazia; altrimenti la vittoria d'Italia
sarebbe invano" ed ancora appassionatamente: "La Dalmazia è italiana
d'arte e d'anima. S'Ella s'espresse nei secoli e s'Ella si esprime tutt'ora nel
mondo dello spirito, la sua voce fu ed è, soltanto romana ed italiana. Se per
lei la bellezza del mondo fu accresciuta, la mano che scolpì, che disegnò,
scrisse, ebbe nome italiano"[176]. A Ragusa uno strano esperimento permise al conte
Marino Bonda di tenere le redini della città fino al 1899 grazie ad una solida
alleanza tra il partito italiano e quello serbo, entrambi in lotta politica con
i Croati[177], i quali al loro interno risultavano divisi in due
tronconi[178]. Bonda poi fu l'ultimo rappresentante italiano
proveniente dalla provincia di Dalmazia al parlamento di Vienna, decaduto e non
rieletto nel 1897[179].
Nel complesso i Comuni con amministrazione italiana
passarono da 84 nel 1861 ad uno (quello di Zara) nel 1914 (escluse le isole
settentrionali, scorporate dalla Dalmazia ed aggregate al Kustenland, le quali
pure mantenevano diversi Comuni italiani). Diversamente in Istria allo scoppio
della Grande Guerra erano ancora circa due terzi i Comuni con amministrazione
italiana (tra cui incredibilmente il remotissimo paese di Rozzo, nell'Istria
nord-orientale, dove gli Italiani erano nettamente in minoranza). Nel 1875 in
Dalmazia ancora resistevano nelle mani delle amministrazioni italiane Spalato,
Zara, Traù e tra i centri minori Pago, Slarino, Selve, Arbe, Postire, oltre ad
un'altra dozzina; in un secolo di dominio austriaco mai accadde che un Comune
passasse dall'amministrazione croata a quella italiana.
E' Interessante vedere come sul finire del secolo scorso
migliaia di pugliesi della zona di Bari e cioè Bisceglie, Mola di Bari e
Monopoli (che in Dalmazia venivano detti Puci), si trasferirono nella Dalmazia
meridionale (ben millle a Ragusa, più di cento su duemila abitanti a Curzola e
trecento su tremila a Cattaro), ma nel giro di poco finirono croatizzati non
conoscendo né l'italiano né il dialetto veneto (ma solo il dialetto pugliese)
ed essendo interdette loro le pur pochissime scuole italiane rimaste[180] (in zona rimanevano in lingua italiana le sole scuole
navali di Cattaro e Ragusa, alle quali era però stata posta a fronte la
traduzione slava, essendo il linguaggio marinaresco prettamente italiano).
Questo grosso spostamento di genti dalla penisola italiana alla Dalmazia seguì
i numerosi precedenti spostamenti, con l'unica grande differenza che non furono
più mercanti e professionisti a giungere in Dalmazia (portando con sé cultura
italiana) ma poveri manovali inermi[181].
Solo a Zara rimase un sindaco italiano, Giuseppe Ziliotto
(originario però della piccola Macarsca) eletto nel 1900, futuro senatore del
Regno d'Italia. A Ziliotto successe Roberto Ghiglianovich che rimanendo sempre
all'interno della legalità evitò astutamente l'accanimento austriaco
sull'ultimo Comune italiano di Dalmazia (come diversamente era successo con
Spalato e con l'intransigente e rigida posizione di Baiamonti) e si legò
saldamente al più ampio movimento irredentista con epicentro a Trieste[182]; nel 1908 Ghiglianovich organizzò per tutta la
Dalmazia una raccolta di fondi da destinarsi alle vittime del terremoto che
aveva scosso l'Italia meridionale; il gesto, chiaramente politico, fu mal
tollerato dalle autorità. L'ultimo duro attacco al comune italiano di Zara si
ebbe nell'ultimo lustro dell'Ottocento, ma fu vano; sembrò fallacemente che, ad
inizio secolo, i Croati fossero ressegnati a Zara italiana. Era paradossale che
a Zara vi fosse la Dieta provinciale che era a nettissima maggioranza croata,
mentre l'amministrazione comunale era unicamente italiana[183].
Il Comune di Zara sotto gli Austriaci constava di 322
chilometri quadrati con 36.000 abitanti (nel 1910), ciò era stato voluto per
aggregare a Zara molti Slavi del contado circostante, qui detto proprio Contado
(nello stesso anno in Zara città vi erano 15.000/16.000 abitanti di cui 10.000
Italiani, 3.000 Slavi e circa 2.000 familiari degli 800 funzionari imperiali di
composita provenienza)[184]; nel 1920, a Rapallo, il territorio italiano di Zara
fu ridotto a soli 57 chilometri quadrati, soffocando la città mentre nello
stesso periodo quasi tutti i funzionari asburgici seguiti da un migliaio di
Slavi lasciarono la citta rimpiazzati dagli esuli italiani (rimasero quindi
pochi Slavi, specialmente nel piccolo territorio comunale nei borghi di
Boccagnazzo, Punta Amica, Borgo Erizzo)[185].
Nacquero inevitabilmente, nel secondo Ottocento, i
paladini delle opposte fazioni come il croato Trumbic[186] (che pure aveva studiato nel ginnasio italiano di
Spalato, sua città natale[187]), che fu anche presidente della Dieta dalmata a Zara[188] e per contrapposizione i patrioti italiani come i
noti spalatini Baiamonti, Salvi, Rismondo e Tacconi, ma ciò non giovò alla
Dalmazia, che anzi subì queste nette lacerazioni tra conterranei. Altri
autorevoli esponenti del partito unionista (cioè croato) furono Kukuljevic,
Mestrovic, Tresic, Pavicic e Vojnovic, per citare i più autorevoli. Ante
Trumbic divenne poi presidente del Comitato Iugoslavo e dovette mediare tra le
opposte posizioni di Franjo Supilo, che chiedeva l'autodeterminazione per i
popoli della regione, e quelle del presidente serbo Nikola Pasic, che ne aveva
paura[189] (per non rischiare di perdere la Voivodina e la
Macedonia, tutt'altro che serbe); il Comitato in questo frangente più volte
sfiorò la rottura[190]. Trumbic diventerà poi ministro degli esteri dello
Stato iugoslavo[191].
L'atteggiamento austrocroato con la sua intransigenza non
colpì solo l'italianità, vera o presunta, di queste terre ma, le snaturò
violentemente. Va sempre ricordato come in questa terra vi fossero moltissimi
elementi etnici e non solo un semplice dualismo italocroato (anche se gli
elementi più isolati si stavano fatalmente spegnendo non avendo, come gli
Italiani del resto, un solido entroterra su cui poggiare). Gli Austriaci ad
esempio favorirono l'assimilazione dell'elemento morlacco da parte di quello
croato (secondo lo storico dalmata Alessandro Dudan esso era composto da
300.000 unità all'inizio secolo, cifra verosimilmente esagerata); inoltre
furono duramente avversati gli elementi ortodossi (Montenegrini nella provincia
di Cattaro e Serbi nella provincia di Ragusa e nella zona di Tenin); le
statistiche austriache finivano così per comprendere erroneamente sotto la voce
"serbo-croati" svariate popolazioni (Serbi, Croati, Bosniaci,
Morlacchi, Albanesi). Per Bosniaci si intende i mussulmani della Bosnia[192] (annessa nel 1878). La Dalmazia austriaca era divisa
in 14 capitanati (a loro volta divisi in 35 complessivi distretti giudiziari)
ma si ricorda che i soli 4 centri paragonabili alle attuali provincie erano:
Zara, Spalato, Ragusa e Cattaro, quest'ultime due delimitate direttamente dal
territorio della perovincia di Bosnia-Erzegovina. I 14 capitanati austriaci
erano: Bencovazzo (con i distretti giuridici di Bencovazzo, Chistagne ed
Obbrovazzo), Cattaro (Cattaro, Budua, Castelnuovo di Cattaro e Perasto),
Curzola (Curzola, Blatta, Sabbioncello), Imoschi (con l'unico distretto di
Imoschi stessa), Lesina (Lesina, Lissa, Cittavecchia di Lesina), Macarsca
(Macarsca e Vergoraz), Metcovich (solo Metcovich), Ragusa (Ragusa,
Ragusavecchia e Stagno Grande), San Pietro della Brazza (solo San Pietro della
Brazza), Sebenico (Sebenico, Scardona e Stretto), Signo (Signo e Verlicca),
Spalato (Spalato, Almissa e Traù), Tenin (Tenin e Dernis) e naturalmente Zara
(Zara, Zaravecchia, Pago ed Arbe).
Va qui ricordato a tal proposito che ancora tra il 1941
ed il 1943 molti Serbo-ortodossi di Dalmazia (da Tenin, Obbrovazzo, Chistagne,
Bencovazzo, Dernis, Ponti di Bribirio) servirono fedelmente nelle truppe
anticomuniste dell'esercito italiano (V.A.C.) comandate dagli ufficiali dalmati
italiani Leinweber, De Vescovi, Fattovich, De Vidovich, Thuringer, Damiani,
Mestrovich, Unich, Iellich, Perasti, Fedel, Vukasina, Belich, Serrentino,
Cocetti, Calmetta, Ciurcovich, Handel, Kenk, Petrich e Schuh[193], in quanto nei secoli l'elemento religioso non era
mai stato discriminante ed essi non furono mai dei Serbi ma dei Dalmati ortodossi
o come dicevan loro di rito greco (in quel periodo furono creati anche gruppi
croato-cattolici anticomunisti fedeli all'Italia).
Per frammentare la Dalmazia addirittura gli Austriaci ne
avevano scorporato le isole più settentrionali (Veglia, Lussino, Cherso ed
alcune minori come Plauno ed Unie) e le avevano aggregate alla provincia del
Kustenland (come non era mai stato), facendo diminuire la percentuale degli
Italiani, essendo esse proporzionalmente tra le più italiane di tutta la provincia[194]. La Dalmazia austriaca cominciava quindi ad Arbe,
terra natale di San Marino, e finiva sempre a Spizza[195] per 12.835 chilometri quadrati complessivi (di cui
2.387 insulari, pari al 19% circa). Vi fu inoltre una immissione di elementi
tedeschi (488 nel 1910 e circa 2000 nel 1915[196]) e di altre popolazioni, più fedeli agli Asburgo,
provenienti da zone lontane dell'Impero (Cechi, Slovacchi, Magiari, Polacchi),
che non avevano mai avuto niente a che fare con i Dalmati; i numerosi
funzionari imperiali, se non tedeschi, erano quasi sempre di ceppo slavo e ciò
fu voluto con l'unica finalità di indebolire il partito autonomista, costituito
dagli Italiani i quali non volevano la paventata unione della Dalmazia
all'entroterra bosniaco occupato dagli Austriaci nel 1878 ma ufficialmente
annesso solo nel 1908 (a danno del solito Impero Ottomano al quale pure veniva
restituito il Sangiaccato di Novi Pazar)[197]. I cittadini di lingua tedeschi residenti in Dalmazia
erano invero oltre 3.000 essendo molti di essi militari di stazza nei porti e
sulle navi.
L'avversione per l'unione alle altre regioni slave ebbe
in questo periodo uno dei suoi paladini in Antonio Lubin di Traù, uomo di
immensa cultura (noto critico di Dante) e di fervidi sentimenti italiani, che
riuscì ad ottenere grande rispetto anche presso i suoi avversari (cosa assai
rara); il suo scritto più celebre, compilato ormai quasi novantenne nel 1898,
fu Contro l'annessione della Dalmazia alla Croazia, pubblicato a Trieste[198].
Nel 1885 alcuni giovani Dalmati crearono una sorta di
patto segreto che avrebbe combattuto in maniera non frontale contro il governo;
essi scelsero di adoperare con abilità tutti i mezzi legali in loro possesso;
furono: Giovanni Avoscani ed il conte Marino Bonda (da Ragusa), Stefano
Smerchinich (da Curzola), Leonardo Pezzoli ed Ercolano Salvi (da Spalato),
Giovanni Lubin[199] (da Traù), Emanuele Fenzi e Luigi Pini (da Sebenico)
Natale Krekich, Luigi Ziliotto e Roberto Ghiglianovich (da Zara),
rappresentanti del più sincero patriottismo italiano. Gli stessi (esattamente
Ghiglianovich, Krekich, Lubin, Pini, Salvi, Ziliotto, Smerchinich) nel 1919, in
piena crisi fiumana, scrissero i noti articoli Appello dei dalmati e Grido
di Sebenico pubblicati il 2 ottobre dal giornale nazionalista Il Dovere
Nazionale (a detta loro tra i pochi giornali che perorasse la causa dalmata).
Mentre questi patrioti dalmati peroravano in Italia la
loro causa in Dalmazia la lotta politica era dura e si serviva di ogni mezzo,
un episodio assai significativi di questi convulsi anni fu la morte del giovane
zaratino Oddone Nachich d'Osliak volontario nell'esercito italiano e perito in
Libia nel 1912; Zara sinceramente commossa lo pianse manifestando il proprio
affetto con un immenso corteo funebre a cui parteciparono numerosissimi
(cariche pubbliche incluse)
Il censimento del 1910 (l'ultimo austriaco) segnalava
presenti nella provincia austriaca di Dalmazia solo gli elementi serbo-croato[200], italiano e tedesco cancellando secoli di traffici e
di contatti umani (si pensi solo ai Morlacchi); secondo questi dati gli
Italiani erano poco più di 18.000, cioè meno del 2,9%[201] mentre ancora nel 1915 lo storico fiorentino Giotto
Dainelli li quantificava in oltre 80.000 unità[202] (12-13%) smascherando i volontari errori del governo
austriaco che in tempi non sospetti (1816, primo rilevamento asburgico) li
aveva quantificati nel 20% (cioè 60.000 su 300.000). Secondo il Ghisleri i dati
di Dainelli sono però esagerati a vantaggio degli Italiani, indipendentemente
dai volontari errori austriaci; in questo periodo in Italia i Dalmati italiani
furono quantificati variabilmente tra i 50.000 ed i 90.000, calcolando solo la
provincia austriaca di Dalmazia ed escludendo quindi il Kunstenland (le cui
isole si riteneva erroneamente sarebbero state annesse all'Italia senza grossi
problemi). Giotto Dainelli, in base ai dati del "Repertorio Comunale dei
Regni e paesi rappresentati al Consiglio d'Impero" del 1908, evidenziò i
"nuclei di Italiani" in Dalmazia in base ai censimenti ufficiali (in
base al censimento del 1900): Cherso 12, Lussino 5, Unie 1, Veglia 9, Arbe 2,
Pago 4, Selve 1, Ugliano 3, Lunga 1, Morter 1, Slarino 1, Brazza 11, Lesina 6,
Lissa 3, Curzola 5, Sabbioncello 8, Meleda 2, Giuppona 1 (isole e penisole),
Ragusa 12, Fiume 3, Sebenico 6, Spalato 7, Macarsca 1 (aree attorno a città),
bocche di Cattaro 16, foci della Narenta 2, valle della Cettina 6, valle della
Cicola 3, valle della Cherca 2 valle della Zermagna 1, Contado (di Zara) 7,
costa di Liburnia 3[203]; ovviamente alcuni "nuclei" di persone che
si erano definite italiane erano composti da pochi gruppi familiari. Non
compare Lagosta dove pure si poterono individuare diverse famiglie italiane
(Martelletti, Sangaletti ed altre[204]) dopo l'annessione all'Italia (1920), mentre altrove
le autorità italiane mai poterono arrivare a censire ed a verificare. I dati
austroungarici omettevano pure Sussak (dove risiedevano circa 1.500 Italiani)
evidenziando la presenza italiana nell'area, sino a Novi. I nuclei evidenziati dal pur fallace registro austriaco del
1908 (che si basava sul precedente censimento del 1900) ammontavano
complessivamente a 144; intendendo la Dalmazia nei limiti geografici proposti
dal noto geografo Dainelli detti nuclei erano così divisi: Austria
(Cisleithania) 138 (di cui 27 Kustenland dalmata e 111 Dalmazia
amministrativa), Ungheria (Tansleithania) 6. Il censimento del 1880 aveva
evidenziato nella sola Dalmazia austriaca oltre 200 centri con popolazione
italiana (tra il 1880 ed il 1900 gli Italiana scomparvero ufficialmente dalle
isole di Ulbo, Meleda, Pasmano, Isto, Sestrugno, Zirona Grande, Bua e così
via). Nel 1890 essi erano ancora evidenziati nel borgo più meridionale e remoto
di tutta la Dalmazia: Spizza, nel frattempo diventata Sutomore, 20 chilometri a
nord della remota Antivari; solo nei dintorni prossimi di Spalato tra il 1880
ed il 1900 ben 8 centri videro l'ufficiale scomparsa degli Italiani.
Complessivamente la Dalmazia contava 860 insediamenti ufficiali, compresi
borghi remoti e minuscoli villaggi; ciò significa dire che nel 1880 in un borgo
su quattro vi era presenza ufficiale di Italiani (in oltre 200 su 860).
Si notino le significative presenze italiane a
Obbrovazzo, Tenin, Verlicca, Signo, Imoschi, Vergoraz e Metcovich: questi paesi
avevano costituito la linea difensiva veneziana del 1699, in chiave antiturca.
Metcovich (circa 45 chilometri a sud della erzegovina Mostar) ed il vicino
villaggio di Fort'Opus (dove nel 1893 nacque il giornalista Giuseppe Marussig
in seguito spostatosi esule a Roma) erano in assoluto, presso le paludosi foci
della Narenta, i nuclei più isolati e remoti; a nord di Metcovich sul confine
con l'allora Erzegovina turca sta il paese di Gabela che ricorda con
l'inequivocabile nome (veneto) il ruolo doganale che ebbe nei secoli. La pur
remotissima Metcovich già prima della Grande Guerra fu sede di consolato
italiano.
Pure Marussig era un tipico nome modificato dagli
Austriaci con il finale germanico "ig" (al posto del più slavo finale
"ich"); esso era utilizzato specialmente a Trieste ed a Gorizia, più
vicine al mondo germanico (ed anche comprese entro la Confederazione
Germanica), dove a molti cognomi italiani venne fatta l'aggiunta della lettera
"g" come Marchig, Zanussig, Maurensig, Lustig, Marussig, Bombig[205] e così via.
Sempre l'ingeneroso (per gli Italiani) censimento
austriaco del 1910 citava presenti a Veglia paese, nel Kustenland dalmata,
circa il 50% di Italiani (sempre secondo lo stesso censimento l'isola nel
complesso risultava a lieve maggioranza croata). Sempre Veglia era giustamente
considerata italiana dagli atlanti linguistici tedeschi d'inizio secolo[206] i quali pure definivano erroneamente slave le isole
di Cherso e Lussino, notoriamente italiane; ciò evidenzia chiaramente in Veglia
un solidissimo focolaio di italianità escluso dagli accordi di Londra
sovvertendo il principio di nazionalità.
La provincia italiana di Zara istituita con regio decreto
il 18 gennaio 1923 (due soli comuni: Zara e Lagosta per 112 chilometri quadrati
complessivi) nel 1921 (nei territori poi inclusi nella provincia), data del
primo censimento italiano, conteva complessivamente solo 18.500[207] abitanti passati a 20.300 nel 1931[208], escludendo matematicamente molti dalmati italiani;
le isole di Cherso e Lussino (cinque comuni sotto la provincia di Pola[209]) alla stessa data del 1921 conteranno 19.000 abitanti[210]. I vari censimenti austriaci così avevano valutato
nei decenni passati la percentuale degli Italiani: 12,5% nel 1865 a repressione
appena cominciata, 5,8% nel 1880, 3,1% nel 1890, 2,6% nel 1900 e, come detto,
esattamente 2,84% nel 1910[211]; la Iugoslavia li quantificherà nel solo 0,7% a
seguito del censimento del 1921 (territori italiani, ovvero Zara e pochissimo
altro, ovviamente esclusi). In termini numerici gli Italiani sarebbero passati
dai 56.000 del 1850, ai 55.000 del 1865, ai 27.000 del 1880, ai 16.000 del
1890, ai 15.000 del 1900 ai 18.000[212] del 1910, ricordando che erano 60.000 già nel 1816.
Tra il 1865 ed il 1910 gli Slavi (Croati e Serbi comodamente computati assieme)
sarebbero passati da 384.000 a 610.000 (+ 59 %), gli Italiani da 55.000 a
18.000 (- 68%). Schematicamente il rapporto tra Italiani e Slavi in Dalmazia è
così mutato negli anni tra il 1865 ed il 1910: 384.180 contro 55.020 nel 1865,
440.282 contro 27.305 nel 1880, 501.307 contro 16.000 nel 1890, 565.276 contro
15.279 nel 1900 e, come detto, 610.669 contro 18.028 nell'ultimo censimento
austriaco del 1910[213]. Nel solo ventennio intercorso tra il 1880 ed il
1900, secondo i macrospicamente tendenziosi dati austriaci gli Italiani
sarebbero calati a Cattaro da 689 a 310 (-55%), ad Arbe da 567 a 223 (-61 %),
Spalato da 5.280 a 1.046 (- 80%), a Lesina da 492 a 69 (-86%), A Traù da 1960 a
170 (-92%), Lissa da 3.292 a 199 (- 94%), a Cittavecchia di Lesina da 2.163 a
169 (- 93%), a San Pietro della Brazza da 421 a 43 (-94%), a Comisa da 1197 a
37 (- 97%); si pensi che già i dati del 1880 erano ampliamente manipolati e
ridotti, dati alla mano, di oltre metà rispetto al 1865 (gli Italiani erano calati
in quel periodo dal 12,5% al 5,8%). In certi casi non un ventennio ma un solo
decennio era stato sufficiente al tracollo numerico degli Italiani: a Spalato
gli Italiani passarono ufficialmente da 5.280 a 1.969 (-63%) tra il 1880 ed il
1890, a Postire da 138 a 41 (-63%) tra il 1880 ed il 1890, a Neresi da 212 a 42
(-80%) tra il 1890 ed il 1900, a Verbosca da 27 a 4 (-86%) tra il 1890 ed il
1900, a Traù da 1.960 a 171 (-92%) tra il 1880 ed il 1890, a Cittavecchia di
Lesina da 2.163 a 150 (-94%) tra il 1880 ed il 1890, a Comisa da 1.197 a 52
(-96%) tra il 1880 ed il 1890. Si noti come in rarissimi casi l'aumento
demografico degli Italiani era stato tale che le pur errate statistiche
austriache lo evidenziavano in qualche maniera: Macarsca da 120 a 124 (+3%) tra
il 1880 ed il 1890, Sebenico da 977 a 1.018 (+4%) tra il 1880 ed il 1890,
Metcovich da 46 a 51 (+10%) tra il 1880 ed il 1890, Cittavecchia di Lesina da
150 a 169 (+12%) tra il 1890 ed il 1900, Verbosca da 21 a 27 tra il 1880 ed il
1890 (+ 28%), Tenin da 82 a 114 (+39%) tra il 1890 ed il 1900, Postire da 95 a
138 (+45%) tra il 1880 ed il 1890[214]; ciò fu dovuto a molteplici fattori come migrazioni
interne ed esterne, diversi parametri di misurazione da parte delle autorità
austriache che si servivano in loco di elementi slavi e di una correzione al
rialzo la dove le manipolazioni e gli errori erano stati precedentemente più
macroscopici ed a dir poco clamorosi (d'altronde tra il 1900 ed il 1910 gli
Italiani di Dalmazia aumenteranno ufficialmente da 15.279 a 18.028, ovvero
+18%). Nel 1900 rimarranno alcuni Italiani anche nei remotissimi paesi di Tenin
(114) e Metcovich (24); nel 1910 l'unico comune di tutta la Dalmazia austriaca
che aveva visto ufficialmente aumentare il numero degli Italiani (rispetto ad i
dati del 1900) era quello di Zara (l'aumento era poco più di un punto
percentuale).
Le autorità austriache quantificando nel 1880 gli
Italiani a Lissa in circa 3.300, a Cittavecchia di Lesina in quasi 2.200, a
Comisa in circa 1.200, ad Arbe (paese) in circa 600, a San Pietro della Brazza
in oltre 400, a Neresi in circa 250 ed a Bol in circa 150 dichiaravano
indirettamente la cristallina e quasi totale italianità di quei borghi, piccoli
o grandi che fossero.
Il Dainelli nella sua ricchissima raccolta di dati ci
evidenzia anche i fenomeni migratori intercorsi dalla Dalmazia e verso la Dalmazia. Nel 1910
risiedevano 6.158 persone che non fossero[215] né di lingua italiana e nemmeno di lingua
serbo-croata (3.081 Tedeschi, 1.411 Boemi e Slovacchi, 812 Ruteni, 542 Sloveni,
301 Polacchi, 7 Rumeni e 4 Magiari); nello stesso periodo 2.375 persone erano
provenienti dal Kustenland (1.207 dall'Istria, 763 da Trieste e 405 da
Gorizia-Gradisca, essi erano quasi tutti Italiani). Sempre nel 1910 ben 10.376
Dalmati di nascita, pure in grandissima parte Italiani, risultavano dimoranti
nel Kustenland (5.110 a Trieste, 4.982 in Istria e 284 nel distretto di
Gorizia-Gradisca[216]). Con ciò si vede come i Dalmati cercassero di
accentrarsi in luoghi chiaramente italiani per sfuggire, almeno in parte, alle
pressioni austro-croate; in particolar modo l'Istria, Trieste, Fiume e Zara
risultavano, all'interno dell'Impero, i posti più vivibili per loro. Gli
Italiani di Dalmazia furono sempre accentrati in borghi e quasi mai in luoghi
isolati e sparsi e ciò li rese sempre agilmente identificabili dalle autorità.
I dati austriaci definiscono Boemi i Cechi ed i Moravi, Ruteni gli Ucraini.
Interessante il caso di Lissa dove i dati austriaci del
1880 evidenziavano nei due Comuni della piccola isola (Lissa e Comisa) poco
meno di 5.000 Italiani, cioè la stragrande maggioranza della popolazione, anzi
la quasi totalità. A Spalato, 12.600 abitanti nel 1900, immigrarono molti Slavi
a causa delle fiorenti attività portuali e ciò colpì ancora gli Italiani che
videro l'arrivo in città di molti forestieri.
Nei 14 distretti della Dalmazia austriaca nel 1900 il
rapporto ufficiale tra Slavi ed Italiani era il seguente: Bencovazzo 43.955 a
84 (ovvero gli Italiani erano lo 0,2%, in un rapporto dualistico), Cattaro
32.475 a 538 (1,7%), Curzola 29.244 a 444 (1,5%), Imoschi 42.018 a 46 (0,1%),
Tenin 54.643 a 186 (0,3%), Lesina 26.279 a 586 (2,2%), Macarsca 27.503 a 117
(0,4%), Metcovich 15.413 a 32 (0,2%), Ragusa 37.252 a 526 (1,4%), San Pietro
della Brazza 22.564 a 265 (1,2%), Sebenico 55.912 a 968 (1,7%), Signo 56.704 a
111 (0,2%), Spalato 95.869 a 2.357 (2,4%), Zara 70.338 a 11.768 (14,3%)[217]. Addirittura sia a Ragusa che a Cattaro i residenti
di lingua tedesca superavano numericamente gli autoctoni italiani: addirittura
1.206 contro 538 a Cattaro e 570 contro 526 a Ragusa (si trattava per lo più di
militari ed amministratori); malgrado ciò la toponomastica delle città, della
costa e delle isole rimase italiana anche in centri dove secondo i dati
ufficiali non vi erano più Italiani. Secondo i suddetti dati ben 11.768
Italiani su 18.028 di tutta la regione erano accentrati nel capitanato di Zara
(65,3%) ciò appare macroscopicamente fasullo, giustificato dal solo fatto che
almeno nel capitanato di Zara gli Italiani erano ancora presenti
nell'amministrazione comunale del capoluogo e potevano censirsi in maniera
relativamente autonoma (di fatti a Zara città i circa 10.000 Italiani erano
censiti come tali); nei 13 capitanati restanti, escludendo cioè Zara, gli
Italiani erano solo 6.260 contro 539.831 Slavi (l'1,15% dei quali Italiani
accentraiti a loro volta per il 37,65% nel capitanato di Spalato (2.357 su
6.260). E' comunque significativo che gli Italiani risultassero ancora presenti
in tutti i 14 capitanati regionali. Solo nel distretto di Zara si arrivava a
superare la percentuale media di presenza italiana in Dalmazia (2,84%); senza i
quasi 12.000 Italiani ufficiali del distretto di Zara essi sarebbero risultati
statisticamente annullati. Nel distretto di Cattaro, inoltre, erano evidenziate
oltre 1.200 persone di nazionalità "non definita"[218]: si trattava delle centinaia di Pugliesi (Puci) colà
immigrati a cercar fortuna e dalle autorità non computati come Italiani. Sempre
a poposito dei decennali censimenti asburgici, va aggiunto che essi domandavano
alla popolazione sia la lingua in uso sia la lingua materna (ed ovviamente mai
la nazionalità d'appartenenza): ufficiali di volta in volta divenivano i dati
che alle autorità risultavano più vantaggiosi. Questo avveniva in Boemia, nella
Slovacchia meridionale, in Dalmazia, in Stiria, a Trieste ed ovunque
nell'Impero ve ne fosse necessità; nella composita città portuale di Trieste[219], ad esempio, molte persone di remota origine, ma
perfettamente assimilata, risultavano ancora parlanti la propria lingua
materna, slava, ugra o germanica che fosse[220].
In questi stessi anni Zara e Spalato rivaleggiarono
campanilisticamente a lungo per il primato di prima città di Dalmazia, nel 1900
Zara (12.726 abitanti) superava ancora Spalato (12.696) che di li a breve la
superò con le inurbate masse slave; nello stesso anno le altre principali
cittadine della Dalmazia austriaca erano alla stessa data, per popolazione
comunale: Sebenico (9.003), Blatta (5.674), Ragusa[221] (5.346), Lissa (4.321), Pago (3.960), Vallegrande
(3.354), Comisa (3.262), Vodizze (2.515), Milnà (2.499), Borgo Erizzo (2.365),
Pucischie (2.253), Cattaro (2.274), Cittavecchia di Lesina (2.013)[222]. Da questi dati possiamo dedurre che nel 1900 gli
Italiani uffucialmente erano il 13,6% a Cattaro, il 9,5% a Sebenico, l'8,4% a
Cittavecchia di Lesina, l'8,2% a Spalato, il 4,6% a Lissa, l'1,1% a Comisa e
così via.
Complessivamente gli Italiani in Austria[223] erano presenti, stando ai censimenti ufficiali del
1910, in tre provincie: Tirolo, Kustenland e Dalmazia. Per quel che riguarda il
Tirolo essi erano presenti soltanto nel Sud Tirolo (attuale Trentino Alto
Adige, o meglio, ufficialmente: Trentino-Alto Adige/Sudtirol) con la
percentuale del 42,09% (assenti completamente nel Tirolo vero e proprio),
questa cifra includeva, ovviamente popolazioni ladine, comprese quelle della
zona di Cortina d'Ampezzo (sotto l'Austria fino al 1918, entro la provincia di
Bolzano). Il Kustenland era stato
diviso in tre unità: Trieste, dove gli Italiani ufficialmente erano il 62,31%
(l'estensione di Trieste coincide con quella comunale attuale salvo i territori
più orientali passati alla Iugoslavia nel 1947), Istria con il 38,15% e
Gorizia-Gradisca con il 36,06%. Il Kustenland risultava ulteriormente divisi in
micro-provincie dette "bezirk": Trieste, Gorizia, Gradisca, Tolmino,
Sesana, Pisino, Abbazia, Parenzo, Capodistria oltre alle dalmate Lussinpiccolo
e Veglia[224]. L'Italia nel 1918-1920 annesse pure una piccolissima
porzione di Carinzia (Tarvisio, aggregato poi alla provincia di Udine) ed una
parte di Carniola[225] (zona di Postumia, in tedesco Adelsberg, aggregata
alla Venezia Giulia e divisa tra le provincie di Trieste e Gorizia)[226]. Adelsberg divenne Postumia per via dell'antica via
Postumia che vi passava giungendo ad Emona (Lubiana) tramite Longaticus
(Longatico) e Nauportus (Nauporto), ma gli Sloveni, che pure vi abitavano,
crearono il nome di Postojna solo nel 1947 quando storpiarono, in sostanza, il
nome italiano (e non quello storico tedesco); al contrario Moncorona (la
tedesca Kronberg, presso Gorizia) è stata tradotta Kromberk, per semplice
assonanza. L'Istria nei limiti austriaci cominciava a Muggia e terminava a
Castua incluse, inglobando pure le isole dalmate di Cherso, Lussino e Veglia[227]. La Dalmazia nei limiti austriaci, come si è detto,
contava ufficialmente solo il 2,84% di Italiani. A Fiume, sotto l'Ungheria,
nello stesso anno gli Italiani risultavano essere il 49,27%[228], dato facilmente deducibile essendo la città
liburnica amministrativamente ben distinta dalla vicina Croazia, pure sotto
l'Ungheria. Si noti, a proposioto dell'Istria, che anche qui gli Austriaci con
accorti accorpamenti avevano creato una unità amministrativa che il più
possibile si confacesse alle esigenze del loro dominio, aggregando all'Istria
veneziana (passata all'Austria definitivamente nel 1814-1815 con il Congresso
di Vienna) non solo l'Istria asburgica (zona di Pisino) ma anche terre
fondamentalmente slave e storicamente esteanee alla regione (Castua ad est e
Matteria a nord) col solito motivo di indebolire la componente italiana;
nell'Istria vera e propria (la penisola istriana, geograficamente delimitata da
una retta tracciata tra il golfo di Trieste ed il golfo di Fiume) gli Italiani
sarebbero risultati una nettissima maggioranza ed in quella dei confini
veneziani la quasi totalità.
Solo nei territori annessi dall'Italia (1918-1924) si
potranno smascherare gli errori austriaci (e vedere che nell'Istria gli
Italiani erano comunque chiaramente in maggioranza); inoltre se si fosse fatto
un rapporto dualistico tra Italiani e Croati (e sopra la Dragogna tra Italiani
e Sloveni), escludendo tutti gli altri gruppi, i rapporti sarebbero risultati
ancora più vantaggiosi per gli Italiani.
Sul finire del secolo scorso l'Ascoli pubblicò un
opuscolo nel quale erano classificate le cittadine in cui era parlato
abitudinariamente la lingua italiana (campagne e sobborghi però esclusi):
Fiume, Veglia, Arbe, Cherso, Ossero, Lussinpiccolo, Zara, Spalato, Almissa,
Lesina, Curzola, Cattaro; erano mistilingui: Lussingrande, Pago, Nona,
Sebenico, Scardona, Traù, Cittavecchia di Lesina, Stagno Grande[229], Ragusa, Perasto, Castelnuovo di Cattaro, Budua;
erano di lingua serbo-croata: Buccari, Segna, Carlopago, Antivari. Lo studio
dell'Ascoli omette per chiarezza le minoranze inferiori ad un quarto sul totale
della popolazione, mentre parla solamente di lingua normalmente "in
uso" in città (è infatti noto che anche i Croati in città parlavano
l'italiano senza alcuna difficoltà), senza però analizzare i contadi slavi[1].
Si noti che nasce il termine serbo-croato per indicare la lingua comune di
Serbi e Croati (scritta però in due differenti alfabeti); questo termine nacque
con evidenti finalità politiche panslaviste. Il Bartoli ribadì alcuni anni
dopo, con un prezioso studio in risposta ad uno scritto francese in cui si
parlava di Trieste come unico centro di italianità adriatico-orientale[1], in cui evidenziò i paesi (esclusi sempre i sobborghi
e nel caso di Spalato addirittura le periferie) in cui fosse parlato
"solamente o quasi solamente l'italiano": Veglia, Ossero,
Lussinpiccolo, Arbe, Lesina, Curzola, Zara e Spalato; definendo quasi tutti gli
altri Dalmati come bilingui. Bartoli supporta le proprie tesi irredentiste
(l'Italia sta per entrare in guerra e lui è istriano), parlando di forte
consapevolezza dei pochi Italiani colti contro l'indifferenza dei remoti
contadini slavi, pure italianizzanti[1]; il Dainelli
arriverà a parlare persino di analogie geologiche e naturalistiche
italo-dalmate[1] citando poi l'incontro che ebbe nella Dalmazia
interna con un pastore slavo (forse d'origine morlacca) che orgogliosamente gli
decantò alcuni versi della Divina Commedia[1]. Sempre il
Bartoli nel 1919 divide, con alcune incoerenze rispetto i dati precedentemente
forniti, le città dalmate in tre gruppi in base all'italianità (decresdente)
delle stesse:
I gruppo (totale italianità): Veglia,
Ossero, Arbe, Lussinpiccolo, Lesina, Zara;
II gruppo (presenze slave): Cherso, Pago,
Lussingrande, Cittavecchia di Lesina, Curzola, Sebenico, Traù, Spalato,
Almissa, Cattaro;
III gruppo (Italiani in minoranza):
Nona, Scardona, Macarsca, Stagno Grande, Ragusa, Castelnuovo di Cattaro,
Perasto, Budua[1].
Sotto gli Austriaci le città (tutte sulla costa) e le
isole furono invase da elementi croati provienenti dall'interno in numero non
più assimilabile. Malgrado ciò in molte cittadine e villaggi dell'interno, come
si è detto, rimasero importanti nuclei di Italiani pur circondati da campagne
unicamente slave, ricordiamo infatti che, tra i soli patrioti, Trevisan,
Marcocchia e Bonacci erano originari di Signo (nell'entroterra di Spalato),
Garavà, Borelli e Gazzari di Tenin (nell'entroterra di Sebenico) e Dudan di
Verlicca (ancora nell'entroterra di Spalato).
Sempre i dati del censimento del 1910 quantificavano
l'analfabetismo in Dalmazia in questa maniera: 17,42% tra gli Italiani, 63,67%
tra i Croati ed i Serbi evidenziando un'impari distribuzione della cultura (e
già la colta Austria aveva incorporato questi Croati da un secolo); nel 1900 le
percentuali erano 27,27% (Italiani) e 75% (Slavi). E' inutile dire poi che una
forte immigrazione dalla Bosnia e dalla Erzegovina (in parte naturale ed in
parte pilotata dagli Austriaci) ed un aumento demografico delle zone agricole,
in gran prevalenza croate, mortificarono ulteriormente l'elemento italiano già
vittima di una continua emorragia, che lo spingeva ad emigrare continuamente.
Alcuni non arrivarono nel Regno d'Italia ma rimasero oltre confine (Zara, Pola,
Trieste) abbandonando spesso piccoli paesi o villaggi dove la vita era per loro
diventata sempre più difficile; altri approdarono nella penisola perdendo
presto le proprie peculiarità dalmatiche, altri se ne andarono all'estero come
aveva fatto tempo addietro il padre di Emile Zola lasciando Zara e scegliendo
la Francia.
VIII - Dalla prima guerra mondiale
alla pace di Parigi
Negli anni subito precedenti allo scoppio della Grande Guerra
la Dalmazia visse un periodo assai concitato dove le speranze degli Italiani e
quelle degli Slavi si contrapponevano frontalmente. I primi erano attratti
ovviamente dal fenomeno dell'irredentismo sperando la rottura delle precedenti
alleanze la scesa in guerra dell'Italia contro l'Austria al fine di spostare ad
oriente il confine sino ad annetterli; i secondi per un lungo periodo rimasero
fedeli all'Impero caldeggiando la nascita di un proprio Stato solo in un
secondo tempo[1]. In questi frangenti Roberto Ghiglianovich[1]
in viaggio a Roma costatava il disinteresse italiano per la sua terra,
dolendosi che si parlasse solo del binomio Trento-Trieste[1]
(motto valido giusto per le piazze) che a volta nell'anteguerra era scivolato
in ambito coloniale (le quattro T di Trento, Trieste, Tripoli e Tunisi),
omettendo sempre e comunque la Dalmazia; di fatto molti nazionalisti volevano
la guerra a tutti i costi, anche contro la Francia piuttosto che la pace (molti
in Italia infatti rimasero vicini, addirittura fedeli, alla pur sempre alleata
Austria-Ungheria[1]).
Inoltre egli costatò il filoslavismo di alcuni intellettuali come Gaetano
Salvemini, espresso dall'"Unità"[1] (periodico da lui
diretto) già nel 1915 ed il disinteresse di molti politici (molti dei quali
erano totalmente all'osuro del reale stato delle cose[1]).
Ghiglianovich, pur podestà di Zara, trovatosi poi furtivamente in Italia nel
1915 (giuntovi rocambolescamente via Vienna-Lugano) a promuovere la
"sua" causa[1],
si sarebbe arruolato volontario nell'esercito italiano. Egli mai capì come gli
Italiani non cogliessero che la causa dalmata era una causa che doveva
riguardare tutti loro e non solo quei pochi volenterosi ed attivissimi Dalmati
(con maggiore urgenza delle spite coloniali di taluni)[1].
Paolo Boselli, presidente dell'associazione culturale
Dante Alighieri dal 1907 e presidente del consiglio nel 1916, così si espresse
nel 1914: "E' ventura nostra affidare le nostre deliberazioni a soldati
italiani, che sentano l'impazienza dei valorosi e la cui virtù uguaglia ogni
cimento, più forte delle fortissime navi, i quali anelano a dimostrare che
nelle pieghe del tricolore rifulge ancora e sempre l'insegna vittoriosa di San
Marco e San Giorgio[1]"
(San Giorgio è il patrono di Zara e della Dalmazia). Nel frattempo in ferma
risposta alla dura azione austriaca nacquero varie associazioni cultuali
italiane come il Circolo Filologico a Ragusa o come, solo a Zara, il Comitato
d'Unione Nazionale, la Diadora[1], la Iuventus Iadertina[1] che spesso
gravitavano attorno al Caffè Centrale; la stampa filocroata sostenne duramente
che in questo caffè alcuni Croati erano stati malmenati dagli Italiani[1] mentre non si infervorò affatto quando il 17 ottobre
del 1909 dinanzi alla Birreria Nuova il macellaio Riccardo Zanella (omonimo
dell'autonomista fiumano) fu brutalmente assassinato da Slavi usciti dalla
Trattoria Balkan. Il colpevole parve essere l'impunito Boroevic, slavo della
zona di Sebenico, ed i giornali croati si stupirono che ai funerali fosse
accorsa l'intera città con la presenza ufficiale dal sindaco Ziliotto. In
quegli anni la spaccatura era così netta da toccare anche i luoghi di svago,
infatti al Caffè Centrale, luogo d'incontro degli Italiani, si contrapponeva la
Trattoria Balkan, luogo d'incontro dei Croati
Nel 1910 gli Austriaci, anche in relazione a questi gravi
episodi, istituirono con fini di duro controllo politico la Polizia di Stato
(attivata poi nel marzo del 1911).
Come detto in questi anni moltissimi si impegnarono
nell'associazionismo politico, su entrambi i fronti, a Spalato era attiva
l'Associazione Nazionale con sede nel teatro Baiamonti, dato alle fiamme,
ufficialmente da ignoti, nel 1893. Nella città dell'imperatore Diocleziano nel
1910 venivano conteggiati ufficialmente 1.046 Italiani, quando nello stesso
anno oltre 3.000 erano pubblicamente iscritti all'associazione culturale e
patriottica Dante Alighieri. Ancora nel 1911 a Spalato il partito
italiano-autonomista ottenne un ottimo risultato elettorale con grande stupore
dei Croati, ormai indiscussi padroni della città.
I Croati sul finire del secolo scorso formarono il gruppo
dei Sokolisti (da sokol, che in slavo significa falco), spesso coinvolto in
molti di questi atti. Tutto il periodo precedente alla Grande Guerra vide il
continuo acutizzarsi del conflitto e la lenta sconfitta degli Italiani. Molti
di essi con lo scoppio delle ostilità nel 1914, furono coattamente arruolati
dagli Austriaci ed inviati sul lontano fronte russo dal quale tornarono, alcuni
addirittura via Vladivostok e dopo mille peripezie, solo negli anni venti[1]. Un migliaio di loro vennero anche inquadrati nel
contingente italiano mandato in ausilio dell'Armata Bianca in lotta in Siberia
ai confini con la Mongolia contro l'Armata Rossa (rubando il gergo agli arditi[1] questo battaglione venne chiamato Battaglione Nero).
Appena terminata la dura prigionia in Russia, sul freddo
Volga, Nereo Petranich si meritò la medaglia d'oro al valor civile alla memoria
per aver salvato due donne che stavano annegando nel gelido gigante d'acqua,
perì subito dopo aver terminato l'impresa essendo quelle acque ben più fredde
di quelle della sua Cherso. Il suo cognome originario prima dell'intervento
austriaco presso le anagrafi era Petrani.
Circa 3.500 dalmati durante la guerra si rifugiarono
esuli in Italia capeggiati da Antonio Cippico, Alessandro Dudan[1]
e Roberto Ghiglianovich ed oltre 250 si arruolarono volontari nell'esercito
italiano rischiando la forca austriaca come toccò a Francesco Rismondo giustiziato
a Gorizia nel 1915. La sua figura divenne leggendaria e la sua morte (si sa
solo che fu poi impiccato nel novembre del 1915) avvolta nel mistero; pare che
abbia capeggiato all'arma bianca l'insurrezione del campo di prigionia di
Opacchiasella ed è così ricordato da D'Annunzio: "Egli è, nei secoli dei
secoli, l'Assunto di Dalmazia"; forse fu riconosciuto per il proprio
orologio effigiato con i simboli dell'associazione Pro Patria di Spalato di cui
era attivista. Eroiche e commoventi erano state le sue parole all'amata moglie
triestina quando, già trentenne, era partito volontario per il fronte,
rifiutando il ruolo di interprete in un ufficio e combattendo come soldato
semplice in prima linea nel corpo ciclisti. Venti di questi volontari dalmati
perirono in combattimento. A Francesco Rismondo l'Italia concesse la medaglia
d'oro alla memoria al valor militare.
Molti di questi irredentisti (oltre che irredenti) furono
fagocitati dalle idee della destra nazionalista che aveva fatto dell'intervento
in guerra dell'Italia uno dei propri più solidi cavalli di battaglia. La
destra, ed il fascismo poi, furono visti da molti di questi Italiani di
frontiera come sicuri baluardi in difesa della propria italianità ed in difesa
dell'italianità delle proprie terre. A tal proposito Monteleone li definisce
come "fautori intransigenti di una politica adriatica oltranzista (...)
imbevuti di livore antislavo[1]".
I volontari nell'esercito italiano accorsero da Zara (in numero di 99), Spalato
(60), Ragusa (15), Sebenico (11), Cattaro (4), Curzola (4), Traù (3),
Castelnuovo di Cattaro (3), Postire (2), Perasto (2), Pago (2), Macarsca (2),
Lesina (1), Cittavecchia di Lesina (1), Scardona (1), Novaglia Nuova (1),
Slarino (1), Milnà (1), Lissa (1), più alcuni non registrati, altri sotto falso
nome, molti già in Italia o trasferitisi in altri luoghi dell'Impero ed in più
quelli delle isole del Kustenland davanti a Fiume spessissimo conteggiati come
Istriani. Lo storico zaratino Oddone Talpo avrebbe esattamente quantificato i
volontari dalmati (Fiumani esclusi) in 258[1]. I nomi dei
Dalmati ufficialmente schedati tra i volontari nell'esercito italiano sono:
Abitini, Addobbati, Allarica, E.Andretta, U.Andretta, D.Angelucci, G.Angelucci,
V.Angelucci, Barbaglio, Bassetti, Bastianutto, Battara, Belardinelli,
Ed.Bellini, Er.Bellini, L.Bellini, D.Benevenia, G.Benevenia, M.Benevenia,
R.Benevenia, U.Benevenia, V.Benevenia, Benzoni, C.Beros, G.Beros, G.Biasutti,
R.Biasutti, Billos, D.Blasotti, S.Blasotti, Bonavia, Bonifacio, Boscarolli,
Bottura, Brunetta, Bucevich, Burovich, Bussi, Calussi, Capurso, Caputo, Catani,
Cavallarini, Centis, Cerljenco, Chebat, Chiabov, Ciasca, Cimosa, Cippico,
Coccoli, Codognato, Colonna, Pao.Confalonieri, Pas.Confalonieri, Covacev,
Crespi, E.Croce, R.Croce, Dal Mas, Deburovich, Del Bianco, Depolo, D'Este,
A.Devescovi, G.Devescovi, Di Nunzio, Di Peppe, Draghicevich, Dudan, Fabbrovich,
Fabris, de' Fanfogna, Farchi, Ferruzzi, B.Fiorentino, G.Fiorentino,
M.Fiorentino, Fiorina, Folicaldi, Fontanella, Franchi, Frisotti, Gallesich,
Gasperini, Gentilomo, Gerngross, Ghiglianovich, Ghirin, Giacinti, Gio.Gaia,
Giu.Gaia, M.Gaia, Gilardi, Gonano, Griffini, Guidi, Hoeberth, D.Ingravalle,
M.Ingravalle, Iuraga-Vionnet, Ivanovich, Kaisner, M.Kraglievich, R.Kraglievich,
Lana, Lauvergnac, Linda, Linz, A.Lunazzi, G.Lunazzi, P.Lunazzi, Luxardo,
A.Maggio, C.Maggio, Mandel, Marassovich, Marincovich, Marsan, Martinelli,
Martucci, Marussich, Matessich, Mistrovich, Mladineo, Mladinovich, Mussap,
Nakich-D'Osliak, Nani, Nasso, Ogrisevich, Olivo, Padullo, Paladino, Palazzo,
Palcich, Palese, Paulovich, Pellegrini, Penos, Penzo, Perlini, Persello,
Pezzoglia, Piscitelli, Poduje, Polli, de' Portada, Prettili, Quattrini, Quero,
Raimondi, Rismondo, Rossini, Ruggeri, Sala, Sala-Spini, M.Salghetti,
S.Salghetti, C.Sanguinazzi, Gio.Sanguinazzi, Giu.Sanguinazzi, Gu.Sanguinazzi,
P.Sanguinazzi, E.Santucci, Gio.Santucci, Giu.Santucci, Seglin, E.de' Serragli,
L.de' Serragli, Servadei, Sirolla, de' Sisgoreo, Sisgoreo, Spadavecchia,
Stefanini, Stojan, Storelli, G.Subotich, N.Subotich, Tacconi, L.Terenzi,
L.Terenzi, N.Terenzi, Tolja, A.Tommaseo-Ponzetta, R.Tommaseo-Ponzetta, Toscano,
G.Tosarotti, V.Tosarotti, A.Tripalo, F.Tripalo, Troiani, Trojanis,
Uscok-Ubezzi, Valle, Vazzoler, Vezzil, Visicchio, Vucassovich, di Zamagna,
Zanner, C.Zink-Zini, E.Zink-Zini, G.Zongaro, U.Zongaro, de' Zotti, Zucar,
Zuccolo. I nomi dei suddetti patrioti italiani di Dalmazia sono evidentemente
in preponderante maggioranza italiani, ma si notino molti cognomi croati,
serbi, tedeschi, ungheresi ed addirittura russi e francesi. Si noti il
ricorrere di molti nomi storicamente assai noti e frequenti in Dalmazia, nonchè
i più specificamente citati: Antonio Cippico, Alessandro Dudan, Roberto
Ghiglianovich, Nicolò Luxardo, Francesco Rismondo, Ruggero Tommaseo-Ponzetta e
Riccardo Vucassovich. Risulta proporzionalmente elevatissimo il numero di 9
volontari dalle remote bocche di Cattaro (Cattaro, Castelnuovo di Cattaro e
Perasto). I volontari di Spalato, Cattaro, Ragusa, Perasto, Castelnuovo di Cattaro,
Traù e Macarsca (in tutto non meno di 90, tra il 40% el il 50% di tutti i
volontari della Dalmazia) combatterono per l'Italia malgrado il patto di Londra
li escludesse categoricamente ed aprioristicamente dalla possibile redenzione.
Gli Austriaci (già dai tempi di Radetzky, a Milano, con
truppe croate) cercarono di portare al fronte contro l'Italia molti Slavi
formando la V Armata dell'Isonzo comandata dal generale Svetovar Boroevic von
Bojna, pur'egli slavo, accentuando così l'odio tra i due popoli; gli
"Italiani d'Austria" invece furono inviati su altri lontani fronti
per paura delle diserzioni. Radetzky anni prima si era così espresso:
"Bisogna slavizzare la Dalmazia per toglierla alla pericolosa signoria
intellettuale di Venezia alla quale le popolazioni italiane si rivolgono con
eccessiva ammirazione". Complessivamente dall'Impero furono circa 85.000
gli Italiani che si rifugiarono esuli nel Regno d'Italia[1].
Di questi 85.000 (da Trieste, da Gorizia, da Gradisca e dalla Venezia Giulia tutta,
da Trento e dal Trentino, da Cortina d'Ampezzo, dall'Istria, da Fiume, dal
Quarnaro, dalla Dalmazia) i 3.500
dalmati rappresentavano oltre il 4% del totale, cifra evidentemente superiore
rispetto ai dati ufficiali forniti dagli Austriaci (secondo i quali i Dalmati
italiani erano solo 18.028 nel 1910).
Questa spaccatura negli animi dei Dalmati, favorita dagli
Austriaci, non era però reale ed infatti in Dalmazia molti Italiani erano
d'origine croata e moltissimi Croati erano d'origine italiana se non Italiani[1];
purtroppo il conflitto si stava sempre più politicizzando ed assumeva toni
cruenti. Per interessi personali molti illustri dalmati, influenti e ricchi
latifondisti, si schierarono per il partito unionista (croato) dichiarandosi
croati senza spesso nemmeno conoscerne la lingua croata[1],
ciò per avere sgravi e sconti in relazione alle riforme agrarie austriache e
vantaggi di ogni altro tipo. Alcuni tra questi furono Morpugno, Cambi, Bulat,
Tartaglia, Cattalinich, Caraman, Fabris, Gazzari, Addobbati, Stradella,
Tolentino, Lose a Spalato, il conte Borelli a Zara (seguito ancora nel 1945 dal
conte Begna, ricco latifondista), Modirozza, Paladino e Rubignoni a Traù,
Macchiedo a Lesina, Bianchini e Rossini a Cittavecchia di Lesina, Zaffron, Callogerà
ed Arneri a Curzola. Bulat sarà podestà a Spalato nel 1882 sostituendo a luglio
Baiamonti. Tra i nazionalisti croati di fine Ottocento si possono aggiungere,
oltre a Donadini (noto scrittore in lingua croata) e Guidotti, addirittura un
Machiavelli ed un Tommaseo. Molte famiglie si spaccarono e si ebbero casi di
fratelli che si definivano di differente nazionalità; si arrivò talvolta alle
violenze che venivano punite solo quando, rarissimamente, erano gli Italiani a
compierle in quanto la componente croata era appoggiata dal potere centrale.
Addirittura Vito Morpugno, alto dirigente "croato" di Spalato, era
parente del patriota italiano Umberto Morpugno, suo cugino.
Si ricordi tra le tante violenze commesse, per l'enorme
scalpore che fece, il barbaro pestaggio di Vragnizza subito tra gli altri dallo
studioso spalatino Luca Poduje, patriota italiano di origine slava che sulla
carta stampata vide l'intervento in sua difesa da parte di D'Annunzio (che lo
ribattezzò Luca Dalmatino). Vragnizza, paesino immediatamente a nord di
Spalato, era nota agli Italiani della zona come centro di Croati acerrimamente
antiItaliani; malgrado ciò questo paese fu sempre paradossalmente chiamato dai
dalmati italiani Piccola Venezia; l'origine di questo antico nome si perde nei
secoli. Di violenze i Croati ne compirono sicuramente diverse, come i brogli
elettorali per le elezioni alla Dieta dalmata[1]; in questi casi
li compirono sotto precisa regia austriaca[1] (il governatore
Rodich veniva istruito a tal proposito dalle autorità) con grande
determinazione (nel luglio del 1882 i Croati si recarono a votare celermente
spostando poi le lancette dell'orologio del campanile facendo chiudere i seggi
prima che diversi Italiani potessero regolarmente recarsi ai seggi).
In questi anni la Dieta[1] (blando sistema rappresentativo istituito
dall'Austria su proposta del ministro Goluchowsky nel 1860 ed attivato nel
marzo-aprile del 1861) si slavizzò sempre più anche con il cambio di censo del
1896[1].
Con proporzioni ben diverse ciò accadde più a settentrione anche presso la
Dieta istriana, con sede a Parenzo. La prima seduta del 18 aprile 1861 la Dieta
di Zara aveva votato (40 a 2) contro l'unione alla Croazia, pur essendo 10 i
membri croati. Il partito unionista prevalse dal 1870 in avanti (29 seggi a 11
in seguito a palesi brogli), ma la Croazia e la Slavonia erano passate dal 1867
all'Ungheria, con grande disappunto dei Croati; ciò evitò l'unione
croato-dalmata senza però che le linee generali della politica austriaca in Dalmazia
(ed in Istria) mutassero. I brogli del 1870 furono favoriti da Vienna tramite
diretto intervento del commissario Fluk coadiuvato in loco dal neogovernatore
di Dalmazia, il croato Rodich. Alla Dieta si formarono quattro partiti:
autonomista (cioè italiano), unionista (cioè croato), serbo e del diritto (pure
croato)[1].
Nella sua ultima composizione su 45 membri complessivi ne rimasero solo 6 del
partito italiano-autonomista: Ziliotto, Krekich, Ghiglianovich (da Zara), Salvi
(da Spalato), Pini (da Sebenico), Smerchinich (da Curzola). Nella composizione
del 1875 gli Italiani della Dieta erano nove: Baiamonti, Giovannizio,
Rossignoli, Radman (da Spalato, i cosiddetti intransigenti), Bonda, Gondola (da
Ragusa), Lapenna, Trigari (da Zara), Galvani (da Sebenico). Si noti che Radman,
nome apparentemente tedesco, è il nome veneto
(tradotto in croato come Raduc) di una località dalmata. Gli Italiani
presenti nel parlamento regionale della Dieta dalmata si stabilizzarono nel
numero di 6 membri alle elezioni del 1895, quando il partito croato-unionista
aveva 22 seggi, il partito croato del diritto 3 ed il partito serbo 10; si noti
come i Serbi, pur avversati dagli Austriaci (e dai Croati), fossero più
rappresentati degli Italiani.
In questa spaccatura, politicamente netta ma umanamente
sottile, Luca Poduje[1] incarnava
perfettamente il dualismo dalmata[1];
in lui era presente la coscienza dell'origine slava ma vivissimo era il senso
di appartenenza alla cultura ed alla nazione italiana; in questo seguiva le
orme del Tommaseo[1]
che aveva auspicato, ma erroneamente profetizzato, la guida della cultura
italiana sulla preponderante massa slava[1]. E' sicuramente
utile al proposito creare un parallellismo con un'altra situazione europea dove
qualcosa di assai simile è presente; in Finlandia infatti la minoranza svedese
(6,5-7 %) ha culturalmente guidato la massa finnica in maniera assolutamente
pacifica avvicinandola alla cultura europea ed addirittura lo stesso eroe
nazionale di Finlandia era del ceppo svedese (von Mannerheim). Sia Svedesi che
Finnici sono protestanti luterani, come Italiani e Croati sono entrambi
cattolici. La presenza svedese in Finlandia è collocata in maniera analoga a
quella italiana in Dalmazia (sino al 1945), stanziata cioè sulla costa occidentale
della Finlandia, così come i Greci sino al 1922 erano collocati sulla costa
occidentale dell'Anatolia (turca), l'antica Ionia, (ma là i rapporti furono
ancora peggiori che tra Italiani e Croati anche per palesi motivi di carattere
religioso).
Luca Poduje costaterà in quegli anni il fallimento dei
suoi propositi di pace e convivenza (gli stessi che avevano mosso il Tommaseo)
finendo fucilato dagli Slavi a Spalato nel 1944 alla veneranda età di settantotto
anni.
Una netta spaccatura si verificò anche tra gli Slavi di
Dalmazia divisi tra un panslavismo serbo-croato-sloveno (Ivan Kukuljevic) ed un
pancroatismo (Ante Starcevic che ebbe spavaldamente a dire: "Dio ed i
Croati") che propugnava una grande Croazia antiserba oltre che
naturalmente antiitaliana; il movimento di Starcevic ebbe una prima fortuna
durante le rivoluzioni del 1848-49, che lo tennero a battesimo e che, per la
prima volta, interessavano anche la giovane cultura croata. Due tra i più
importanti assertori della causa croata in questi anni furono Giorgio Bianchini
da Cittavecchia di Lesina e Francesco (poi croatizzato in Franjo) Supilo da
Ragusavecchia, i quali in campo internazionale cercarono e trovare illustri
protettori della proprie tesi[1].
Il Bianchini, giornalista oltre che politico, aveva sempre scritto i propri
articoli in italiano ma dal 1920, modificando fin il proprio nome in Jurai
Biankini, comincerà a Spalato a
scrivere in croato (che verosimilmente nel frattempo aveva imparato) e dal 1920
dirigerà il giornale Narod; così come aveva fatto a Ragusa nel tardo Ottocento
il conte Ivo Voinovich, che divulgava le proprie idee antiitaliane in italiano
per poi mettersi a scrivere in croato. Sempre il Bianchini, duramente
anti-italiano, fece cadere la petizione della scuola elementare italiana di
Cittavecchia di Lesina (la sua cittadina natale) che veniva chiusa malgrado
fosse stata invocata dai genitori di quasi cento ragazzi.
Intanto il clero nelle campagne condannava, spinto dagli
Austriaci, la prosaica città (italiana) nemica del bucolico e felice contado
(slavo) modificando all'anagrafe i cognomi italiani da secoli e cercando di
imporre il glagolitico[1] (idioma paleo-slavo) al posto del latino nella
liturgia (come voluto ed ordinato a Roma dal cardinale croato Stroessmeyer),
l'esperimento attecchì solo molto parzialmente; il clero radicale croato ebbe
poi il proprio organo nel giornale "Hrvatska Konna". Spesso la
cristallizzazione attorno ai punti di riferimento religiosi viene sottovalutata
non intendendo che essa interessava non solamente la religione in senso stretto
ma la cultura in senso lato, con la lingua, con i testi sacri, con i costumi,
con le liturgie, con l'idea di salvezza comunitaria e soprattutto con il clero
organizzato[1]. Va inoltre ricordato il grande significato
dell'istituzione religiosa nei secoli e nei decenni addietro, significato che
in questi tempi risulta molto ridimensionato. Per gli Italiani di Dalmazia
celebrare le proprie funzioni religiose in latino[1] risultava nuovo motivo di orgoglio e contrasto con la
comunità croata.
Pur essendo quasi tutti gli Italiani (formanti il partito
autonomista) erano radicali e irredentisti, alcuni però scelsero un
atteggiamento morbido dando vita ad una corrente liberale all'interno del loro partito
che rimase però sempre saldamente unito[1]; altri ancora si
definirono apertamente lealisti[1].
Malgrado questo continuo stillicidio 7 capitani[1] su 14, alla data del 1914[1], erano ancora
Italiani (del gruppo liberale, lealista agli Asburgo) con circa il 50% degli
impiegati pubblici; addirittura alcuni amministratori e pubblici impiegati
rimasero al loro posto anche sotto la Iugoslavia).
Si giunse quindi alla guerra che travolse tutrti i
precedenti equilibri europei. Il trattato di Versailles[1]-[1], cui seguirono quelli di Rapallo[1] e di Roma[1] (lasciando queste terre in una situazione precaria
fino al 27 di gennaio del 1924), consegnava quasi tutta la Dalmazia al Regno
Serbo-croato-sloveno che dal 1929 avrebbe preso il nome di Iugoslavia. Questa
nazione era stata ideata a Londra tra il 1915 ed il 1918 da un gruppo di
intellettuali serbi, sloveni e croati i quali, con l'incontro di Corfù nel 1917[1]
(siglato il 20 luglio, anniversario della battaglia di Lissa), avevano creduto
di archiviare le rispettive rivendicazioni interne (che invece riesplosero
violentemente già nel 1921); tra essi vi erano proprio Supilo e Trumbic, il
quale li capeggiava. Essi seppero accattivarsi i governi di Londra, Parigi e
Washington in spregio al patto stipulato nella stessa capitale inglese il 26
aprile del 1915 tramite il quale una grande parte della Dalmazia avrebbe dovuto
essere assegnata all'Italia in caso di vittoria; addirittura le richieste slave
emerse a Corfù e proposte in via ufficiale l'anno seguente a Parigi, fra lo
stupore generale, inclusero oltre all'intera Dalmazia, l'intera Istria anche
Gorizia e Trieste senza tenere in alcun considerazione né gli accordi
precedenti né la reale composizione etnica di quelle terre (queste richieste
furono superate, ma non di molto, solo da quelle proposte, sempre a Parigi[1], dalla Iugoslavia nel 1947). L'articolo 5 del Patto
di Londra recita testualmente: "L'Italia riceverà la provincia di Dalmazia
nella sua attuale estensione, includendo a nord Lissarizza e Tribagno ed a sud
tutti i territori fino alla linea partente dal mare presso Punta Planca, e
seguente la spartiaque verso est, in modo da porre in territorio italiano tutte
le valli i cui fiumi sboccano in mare presso Sebenico, cioè la Cherca, il
Cicola, e il Bustinizza coi loro affluenti. All'Italia anche appartengono tutte
le isole a nord ed ad ovest della costa cominciando da Premuda, Selve, Ulbo,
Maon, Scherda, Pago, Puntadura a nord, ed arrivando a Meleda a sud con
l'aggiunta di Busi, Lissa, Sant'Andrea, Spalmadori, Torcola, Lesina, Curzola,
Cazza e Lagosta, senza però le isole di Zirona Piccola, Zirona Grande, Bua,
Solta e Brazza[1]".
Il Patto di Londra rimaneva ambiguo circa le zone adriatiche non assegnate
all'Italia, che rimanevano "a disposizione" delle potenze alleate
(alleata era pure la Serbia); non era cioè prevedibile con certezza il crollo
asburgico, malgrado le sempre crescenti rivendicazioni slave (esse arrivarono
addirittura oltre il fiume Boiana, fino cioè alla foce del fiume Drin,
includendo quindi anche il porto di San Giovanni di Medua, poi invece assegnato
all'Albania; gli articoli 1, 2 e 3 erano relativi alle sucessive
neutralizzazioni. L'articolo 4 era invece relativo all'allora detto Sud Tirolo
che passava all'Italia, mentre gli articoli 6, 7 e 8 erano relativi
all'Albania, che di fatto diveniva protettorato, e Dodecaneso, di cui veniva,
dopo l'occupazione del 1912 durante la guerra italo-turca, ricunosciuto il
possesso all'Italia. Gli articoli sucessivi dell'accordo parlavano di vaghi
compensi coloniali ed economici mai concretizzatisi (alla Somaglia italiana fu
aggiunta una sottile striscia di territorio cheniano, detto Oltregiuba, e fu
perfezionato a vantaggio italiano il confine libico, nulla di ciò che fu tolto
a Germania o Turchia fu dato all'Italia)[1].
Gli accordi londinesi annullarono gli sforzi
dell'ambasciatore tedesco a Roma, il principe von Bulow (dicembre 1914 - maggio
1915), che aveva chiesto a nome degli Imperi Centrali la non belligeranza
italiana; Von Bulow spese alacremente tutte le sue energie anche per sinceri
motivi personali, essendosi nel frattempo sposato a Roma con una nobildonna
italiana. Le proposte austro-tedesche offrivano all'Italia a nord il Trentino
sino a Bolzano (inclusa, ma senza Cortina d'Ampezzo)[1] mentre ad oriente offrivano solo la correzione sino
all'Isonzo di un confine che sostanzialmente rimaneva immutato (Grado ed
Aquileia)[1]. Le contropartite richieste dall'Italia prevedevano
(anche se espresse in maniera non totalmente univoca) il Trentino fino a
Bolzano incluso (entro la linea napoleonica del Regno d'Italia, all'incirca),
Trieste, Gorizia e Capodistria fino alla linea Troghofel-Vebresina che quindi
le includeva, senza però alcun entroterra ad oriente, ed in più le isole
curzolane (Lissa, Sant'Andrea, Busi, Lesina, Spalmadori, Torcola, Curzola,
Lagosta, Cazza, Pelagosa e Meleda); l'accordo partito da presupposti antitetici
ed inconciliabili (Trieste e Gorizia), come è noto non portò a nessun risultato
concreto. La linea Troghofel-Vebresina non risulta essere radicalmente
differente dall'attuale confine terrestre italo-sloveno, con l'unica eccezione
dello stretto abitato di Capodistria[1]. Il confine pattuito con il Patto di Londra avrebbe
dovuto dare all'Italia la Dalmazia centro-settentrionale fino a punta Planca (e
quasi tutte le isole) poggiando sulle alpi Dinariche (ovvero la zona
territorialmente più solida e compatta); questo confine non comprendeva Spalato
che sarebbe dovuta rimanere l'indispensabile porto dell'Austria (dopo
l'eventuale perdita di Trieste) così come non chiedeva Fiume in quanto unico ed
indispensabile porto magiaro. L'articolo 5 del Patto di Londra stabiliva il
confine orientale d'Italia ponendolo nella zona istriana-orientale tra Castua
(all'Italia) e Fiume (da assegnarsi ed a disposizione delle potenze
vincitrici), ricalcando il confine terrestre del Kustenland, pure le isole di
Veglia ed Arbe furono escluse dall'Italia che invece riceveva la piccola Plauno[1];
col passare dei mesi di guerra fu chiaro che l'Italia avrebbe dovuto trattare
direttamente con gli Slavi e che l'Austria sarebbe stata completamente
estromessa dalla zona adriatica.
L'inesperienza e l'imperizia della diplomazia italiana si
palesò pesantemente alla pace di Parigi dove il governo italiano (rappresentato
tra gli altri da Sonnino ed Orlando) pretendeva il legittimo riconoscimento del
precedente patto di Londra (stipulato con Inglesi, Francesi e Russi, ma non con
gli Stati Uniti di Wilson che mai lo riconobbero) in base al principio di
legittimità avanzando pure pretese su Fiume in base al principio etnico
dell'auto-determinazione dei popoli; è assai palese dimostrare come i due
principi cozzassero in quanto in Dalmazia gli Italiani erano generalmente in
minoranza a differenza di Fiume dove essi effettivamente erano in netta
maggioranza. Questo ambiguo atteggiamento (al quale si aggiunsero altri
importanti fattori riportati in seguito) tolse assai peso alle richieste
italiane, contemporaneamente a questa mancanza di univocità italiana si
evidenziava una fermezza di richieste da parte slava (tutta la Dalmazia, tutta
l'Istria, Trieste e Gorizia). Solo Giolitti in seguito seppe dare univocità
alle richieste italiane.
Sul finire della guerra, addirittura, il generale Mola, a
Londra, di sua autonoma e spontanea iniziativa, ebbe a conferire con Trumbic e
gli disse che l'Italia avrebbe ridimensionate le proprie richieste se fosse
sorto ai suoi confini orientali uno Stato slavo del sud e che ciò sarebbe
accaduto nel più pieno accordo. Il "Secolo" di Milano nel febbraio
del 1918[1], coerentemente con quegli abboccamenti non ufficiali,
parlò di perfetta intesa italiana con Trumbic e con gli Slavi. Quando si
profilò il tracollo dell'Impero asburgico[1] (non intuito e
non valutato dalla diplomazia italiana) il governo italiano palesò, ormai
tardivamente vista l'ampia azione slava intercorsa, i propri interessi su
Spalato[1]
e soprattutto su Fiume (ufficialmente chiesta con un protocollo aggiuntivo il 7
febbraio del 1919, al quale rispose subito il 18 febbraio un analogo documento
di richiesta d'annessione da parte croata[1]). Come è noto,
alla fine il tracollo asburgico favorì la nascita ed il rafforzamento dello
Stato degli Slavi del sud, al quale il governo italiano in un primo momento
aveva pur pensato di "lasciare" la mai richiesta Dalmazia
meridionale, ingestibile ed indifendibile come ammesso dallo stesso Dudan,
volendo in parte accogliere le richieste slave sui necessari porti di Ragusa e
Cattaro (la Iugoslavia avrebbe comunque così ricevuto 2.304 chilometri di
coste).
La stessa opinione pubblica italiana si spaccò in
"dalmatofili" (Federzoni, Corradini, Foscari, D'Annunzio) e
"non-dalmatofili" (Salvemini, Bissolati, Prezzolini, Ojetti)[1]
analizzando sia problemi nazionali, sia economici e sia militari.
Fondamentalmente i nazionalisti e gli interventisti si schierarono per la tesi
dalmatofila. Generalmente gli aspetti economici e militari furono valutati più
pesantemente di quelli etici che, secondo gli ultimi romantico-ottocenteschi,
avevano mosso l'Italia contro l'Austria per liberare tutti gli Italiani dal suo
vile giogo. In quest'ottica lo storico Gioacchino Volpe parlò di quarta guerra
d'indipendenza italiana contro l'Austria, evidenziando il limite dei molti che
non avevano capito la portata continentale (se non già mondiale) dello scontro.
Quest'ottica avrebbe assai limitato la visuali italiana condizionandola poi
lungamente, a Parigi e non solo. Sia l'atteggiamento dei non-dalmatofili che
dei dalmatofili diventava sempre più una presa di posizione politica essendo i
primi vicini alle tesi socialiste ed i secondi alle tesi nazionaliste, in vero
in molti casi si dimostrarono entrambi
assai ignoranti in materia; in particolar modo i socialisti, vicini alle idee
pacifiste, avevano molta fretta di chiudere con la dolorosa guerra appena
conclusa per occuparsi di altre problematiche. Alcuni dalmatofili nazionalisti
che furono, diversamente dai più, alquanto informati e partecipi della realtà
dalmata furono Foscari, Dainelli, Federzoni (marchigiano che aveva a lungo
soggiornato in Dalmazia) e pochi altri.
Infine, a conti fatti, all'Italia furono assegnate
solamente le isole di Cherso, Lussino, Lagosta, Pelagosa (italiana di diritto
dal 1860 ma goffamente dimenticata dalla marina piemontese dopo Teano), Cazza,
alcuni scogli minori e la città di Zara[1] (per circa 57
chilometri quadrati comunali di forma rettangolare con lati di 8.500x6.800
metri di angusta enclave resa poi necessariamente porto franco nel 1923[1]),
rivoluzionando in senso filoslavo gli accordi precedenti[1].
La città di Zara, capoluogo della Dalmazia e cristallinamente italiana ancora
nel 1918 quando proclamò la propria annessione al Regno d'Italia (30 ottobre),
non riuscì ad essere annessa alla Iugoslavia anche per un dato anomalo ed in
clamorosa controtendenza: era l'unico Comune della Dalmazia che, secondo gli
stessi censimenti austriaci (1880, 1890, 1900, 1910), aveva visto la componente
italiana crescere in valore assoluto (contrastando il pur decrescente valore
relativo mortificato dalla continua immissione in città di elementi stranieri).
Ciò fu dovuto anche dall'immigrazione di molti marchigiani essendo la linea
Ancona-Zara da secoli familiare agli abitanti delle due sponde adriatiche;
Spalato difettava di una rotta analoga (con Pescara ad esempio) ed inoltre era
città prevalentemente mercantile che richiedeva immigrazione massiccia (dalle
campagne slave), ma non specializzata (a differenza della burocratica Zara).
Alla fine di questo convulso periodo Zara risultò però privata del naturale e
vitale entroterra[1],
tanto che fin il limitrofo e minuscolo lago di Boccagnazzo fu diviso nel mezzo
tra Italia ed Iugoslavia. Zara italiana, modesta e poco più che simbolica soddisfazione alle pretese
italiana sulla Dalmazia, fu comunque uno smacco per gli Iugoslavi (soprattutto
per i Croati), essendone storicamente il capoluogo (voluto dagli stessi
Austriaci antiitaliani e filocroati).
La nuova sistemazione territoriale emersa a Parigi
delimitò il confine, più a settentrione (ad oriente dell'Istria), fissandolo in
modo da includere in Italia i paesi di Clana, Mattuglie e Volosca (quest'ultima
significativamente patria sia del noto linguista italiano Piergabriele
Goidanich e sia del grande geologo croato Andrja Mohorovic), mentre Castua
(patria del pittore di scuola veneta Vincenzo da Castua[1], nel Cinquecento) passò allo Stato
serbo-croato-sloveno. L'accanimento croato su Castua, paesello di poche decine
di anime (260 all'epoca dei fatti) posto ai limiti orientali dell'Istria
austriaca (e strategicamente importante per il controllo di Fiume) fu dovuto
anche al fatto che uno stretto collaboratore di Trumbic, Marjavic, ne era
nativo. Castua passò alla Iugoslavia sebbene detta borgata fosse stata
assegnata all'Italia dal patto di Londra e sebbene fosse stata inclusa entro i
confini dell'Istria dalla stessa amministrazione austriaca (appunto in questo
punto ricalcati dalla linea di Londra). Più di tutto destò stupore la nuova
situazione in cui veniva a trovarsi la città di Zara, capoluogo di Dalmazia e
tanto cristallinamente italiana da non poter essere assegnata alla futura
Iugoslavia. Al proposito Cantalupi quantificò il territorio economico minimo,
vitale ed indispensabile di Zara in 2.200 chilometri quadrati con circa 120.000
abitanti (dei quali circa i tre quarti slavi); questo territorio era
indissolubilmente legato alla città di Zara sin dal lontano 1409[1].
A Zara così si espresse[1] il consigliere provinciale Filippi: "La
soluzione data a Rapallo alla questione dalmatica è innaturale e rovinosa"[1]. Anche con un siffatto angusto confine continuò dai
sobborghi
agricoli e dalle antistanti isole (Ugliano e Pasmano) a giungere manodopera in
città (sia italiana che soprattutto slava), mentre molti latifondisti e
possidenti continuarono ad uscirne quotidianamente; un blando accordo
italo-iugoslavo sul fenomeno dei lavoratori frontalieri fu stilato in seguito.
Cherso e Lussino, senza la piccola Plauno (anche se
inclusa nel patto di Londra) passarono all'Italia ed era previsto nella logica
del Patto di Londra che esse collegassero la Dalmazia terrestre all'Istria e
quindi al resto d'Italia come un ponte ideale (anche se solo via mare, come
d'altro canto era da ottocento e forse più anni).
Uno dei tanti motivi che tolsero peso alle richieste
italiane, pur precisamente espresse, siglate a Londra all'ingresso in guerra dell'Italia (24 aprile 1915) fu che la
linea italo-austriaca del fronte all'armistizio (4 novembre 1918) non giungeva
nemmeno lontanamento al vecchio confine politico italo-austriaco[1]; le truppe italiane raggiunsero la linea del confine
patuito solo il 17 gennaio 1919 (dove vi furono inevitabili attriti con le costituitesi
truppe iugoslave)[1].
Tutto ciò causò lo sconforto degli Italiani che a
migliaia emigrarono (secondo lo storico Federzoni furono 50.000[1],
secondo lo studioso Battara 35.000, secondo lo storico Talpo furono di
difficile quantificazione ma comunque in numero un poco minore[1]), lasciando le proprie case. Battara
quantificò nel 1920 gli Italiani presenti in Dalmazia in 60.000 (10.000 a Zara, 35.000 prossimi
esuli, 15.000 rimanenti); Cantalupi quantificò gli Italiani in maniera identica
a Battara[1]
(10.000 a Zara, 35.000 esuli, 15.000 rimasti sotto la Iugoslavia). A ciò si
aggiunga che 3.500 circa erano già fuggiti esuli dopo il 1914 (senza contare
quelli arrivati negli ultimi cinque decenni precedenti, in parte assimilati
dalle nuove realtà nelle quali si erano inseriti). Al di là di ogni facile
retorica, si può quantificare che, nel primo dopoguerra, circa il 70% degli
Italiani che si venivano a trovare in Iugoslavia lasciarono rapidamente le
proprie case (35.000 sui 50.000 della Dalmazia iugoslava stando ai dati
avallati dai più e qui accettati) contro lo 0,2% di Slavi (Croati e Sloveni) che lasciarono i
territori della Venezia Giulia e Zara annessi all'Italia (1.000 autoctoni su
circa 500.000). Il dato di mezzo milione di Slavi annessi nel 1919/1920
(Venezia Giulia con Tarvisio, Cherso, Lussino, Zara e Lagosta) e 1924
(Fiume) è da sempre in discussione ed è stato valutato da alcuni in addirittura
700.000 mentre da altri solo in 200000 (Toth[1])[1]; i dati del censimento italiano del 1921 (non ancora
condizionato dal fascismo) li quantificavano in circa 385.000, Fiume ovviamente
ancora esclusa.
I dati dei censimenti
precedenti (1910, eseguito dagli Austriaci) e sucessivi (1921, 1931 e 1936
eseguiti dagli Italiani) fanno comunque desumere che, di quei 35.000 e forse
più esuli, circa 7.000 trovarono posto a Zara e circa 350 a Lagosta lungo tutta
la prima
metà degli anni venti[1]-[1]; Zara quindi arrivò ad essere una sorta di Dalmazia
in miniatura comprendente Dalmati italiani provenienti da ogni angolo della
regione.
Sempre Federzoni (bolognese, tra i fondatori nel 1910 del
movimento nazionalista
italiano) aveva così stimato e diviso i dalmati nell'immediato anteguerra:
40.000 dichiaratamente Italiani, 20.000 dichiaratamente Iugoslavi e gli altri
contadini nazionalmente non definiti[1]; è evidente come
egli non fosse equilibrato nelle sue stime. Lo stesso Federzoni dal 1911
appoggerà la causa dalmata dalle infuocate colonne del giornale nazionalista
l'"Idea Nazionale", di cui era direttore.
Come si è detto, di questi esuli solo alcuni trovarono
posto in Dalmazia, i più a Zara[1],
mentre una cinquantina di famiglie delle isole curzolane (Lissa, Lesina,
Curzola) si trasferirono a Lagosta, che in realtà era una delle isole proporzionalmente col minor
numero di Italiani di tutta la Dalmazia (quantificati da don Marino Sangaletti[1], nato a Lagosta nel 1913 da famiglia di lontana
origine bergamasca, nel 5% circa), ma strategicamente fondamentale per il controllo
dell'Adriatico da parte della marina italiana; la situazione a Lagosta mutò in
modo che gli Italiani salirono da meno di 100 ad oltre 400, mentre i Croati
rimanevano più di mille (ma moltissimi si italianizzarono, volenti o nolenti,
sotto il fascismo). L'isola
di Lagosta passò all'Italia malgrado la
linea Wilson, nota per essere assai dura nei confronti dell'Italia, avrebbe
attribuito nel basso Adriatico Lissa all'Italia sulla quale erano ancora
presenti moltissimi Italiani speranziosi della redenzione, speranza
evidenziata dai tumultuosi avvenimenti del 30 ottobre del 1918 in cui gli
Italiani del luogo manifestarono la volontà di far parte del regno d'Italia.
Questi avvenimenti dettero vita agli ennesimi scontri con i Croati di asburgica memoria.
Altri esuli da Veglia ed Arbe scelsero le familiari Cherso o Lussino. Tutti
questi Dalmati esuli, come poi nel 1944-1947, si fermarono preferibilmente
nelle città costiere dove giungevano come Ancona, Bari, (allora anche Pola e,
dopo il gennaio del 1924, Fiume), Pescara e Venezia, nonchè a Padova, Milano, Genova,
Napoli, Torino e Roma. Altri ancora lasciarono anche l'Italia andandosene per
il mondo (Canada ed Australia soprattutto). Si cominciò in Italia a parlare di
esuli dalmati in seguito alla così detta "vittoria mutilata",
propagandisticamente ripresa da Mussolini a Milano dopo la fondazione dei
Fasci. Difatti era la marina a premere per gli avamposti dalmati, mentre nella obsoleta
visuale strategica di inizio secolo (si pensi alla francese linea Maginot)
l'esercito vedeva la Dalmazia come una regione strategicamente precaria e poco
difendibile (in realtà i patrioti Italiani di Dalmazia mai fecero di questi
conti, essendo accorsi da Zara come da Cattaro nell'esercito italiano).
Gli Italiani rimasti si organizzarono ridando vigore alla
Lega Nazionale ed all'associazione culturale Dante Alighieri[1] (strumento patriottico nato a Trieste già nel 1898)
ed al suo presidente Roberto Ghiglianovich di Zara e stringendosi attorno alla
più numerosa delle proprie comunità in territorio iugoslavo, quella di Spalato[1]
(che avrà ben nove istituti culturali coordinati dal senatore Antonio Tacconi)
ed alla fitta
rete di consolati, finalmente potenziata dopo il 1923.
Fino allo scoppio della prima guerra mondiale furono solo
cinque i consolati operanti nella Dalmazia austriaca[1]
(Zara, Sebenico, Spalato, Metcovich e Ragusa), un numero insufficente che aumentò proprio in
concomitanza col netto calare degli Italiani (riorganizzati nelle
circoscrizioni di Spalato, Ragusa e Zeta). Zeta, anticamente Zenta, (ovvero
Montenegro), comprendente le bocche di Cattaro, e Ragusa furono in seguito accorpati
con sede a Ragusa.
Il croato Rubic, autore nel 1931 a Spalato di un non
obiettivo studio sugli Italiani rimasti[1] (in cui
praticamente li schedava uno per uno), così si espresse: "Les Italiens
en Dalmatie sont par leur culture inferieurs aux Slaves[1]-[1]". Egli parlò sempre e solo di "...littoral
du Royaume
de Yougoslavie" (litorale del Regno di Iugoslavia) e mai di Dalmazia.
Il governo d'Italia finanziò in maniera celata ma
sostenuta tutte le organizzazioni di carattere nazionale nonchè gli istituti di
credito come la Banca Dalmata di Sconto di Zara con filiali a Spalato e
Sebenico e la Banca Commerciale Spalatina[1]. Si deve
ricordare che nel 1918 a Spalato oltre 8.000 cittadini capeggiati da Ercolano
Salvi avevano raccolto le proprie firme per chiedere presso i
"grandi", a Parigi, l'unione con l'Italia; e che nel 1914 la città
contava circa 18.000 abitanti complessivi tra cui centinaia di Italiani che si
definivano Croati per interesse e moltissimi imperiali prossimi alla fuga; ciò significava
che non meno della metà degli spalatini alla data del 1918 erano ancora
italiani. Senza minimamente mettere in dubbio il primato di Zara, la più
italiana città di Dalmazia, è lecito asserire che le città dalmate passate alla
Iugoslavia[1] se passate all'Italia sarebbero state in una
situazione tale da poter essere ancora amalgamate al contesto nazionale
italiano, difatti anche a Zara nel 1918 vi erano 6.000 non Italiani ed a Zara dal 1920
in avanti non si registrarono affatto tensioni di carattere etnico. Salvi nel
1919, in un appassionato appello, così parla della propria terra: "Il
Dinara divide la Dalmazia dalla Balcania con più netto distacco che un ampio e
profondo oceano. Come Sardegna e Corsica nel Tirreno, la Dalmazia è,
nell'Adriatico, un'isola italiana"[1], egli morirà a
Roma nel 1920 di crepacuore (perlomeno si disse) due giorni dopo
essere stato mominato senatore del suo agognato Regno d'Italia. Il nobile
veneziano Pietro Foscari, noto nazionalista, definirà la figura di Salvi come
l'ultimo dei martiri dalmati[1]: egli, forse dimenticando il divenire continuo della
storia, si sbagliava non intuendo che giorni assai più tragici erano prossimi
per gli Italiani di Dalmazia.
In questi frangenti l'attivita propagandistica di Salvi,
Ghiglianovich
e Ziliotto fu instancabile; essi parlarono a Parigi come a Londra e a New York[1] e come nel parlamento di Roma (da loro giudicato
insensibile). Nel frattempo Francesco Salata di Ossero partecipava alla
conferenza di Parigi nella commissione italiana perorando l'annessione
all'Italia della propria isola natale (Cherso), esclusa dall'ingenerosa (per
gli Italiani) linea Wilson. Pure il fiumano Zanella girerà l'Europa perorando
la causa dell'annessione all'Italia di Fiume; divenendo poi il paladino dell'autonomismo
una volta fallito il progetto e divenuta la sua città Stato libero (dicembre
1920). Il presidente Wilson propose la non applicazione del patto di Londra
portando il confine italo-iugoslavo all'Arsa, escludendo oltre a Fiume
anche l'Istria orientale (molto si discusse sul futuro dell'italiana cittadina
di Albona, patria proprio del Bartoli, che molti volontari dette all'esercito
sabaudo) riconoscendo all'Italia solo le isole dalmate di Lussino e Lissa come
avamposti della marina (eppure tutti sanno che le isole di Cherso e Lussino,
unite da un ponte, sono di fatto una cosa sola)[1]. Inoltre Wilson
propose (14 aprile 1919) che Fiume, resa città libera, dopo cinque anni si
pronunciasse plebiscitariamente circa il proprio futuro; ma la linea proposta
dal presidente americano impediva a Fiume di confinare con l'Italia e nel caso
di volontà di unione con l'Italia la città sarebbe rimasta tagliata
completamente fuori dalla propria patria. Il patto di Londra fu
dichiarato decaduto, da Wilson, il 24 aprile del 1919. Una delle tante proposte
che furono fatte in questo concitato periodo prevedeva che Veglia e Cherso con
Plauno entrassero a far parte dello Stato libero di Fiume, che Lussino, Unie,
Pelagosa, Lissa e Lagosta fossero assegnate all'Italia e che Zara diventasse
anch'essa città libera con un sufficiente entroterra e con l'antistante isola
di Ugliano diplomaticamente rappresentata dall'Italia; si arrivò alla
sistemazione del 1920 dopo decine di proposte[1] più o meno sensate.
Nel frattempo in questo clima si compirono numerose
violenze, quasi sempre subite da Italiani, i quali pure cercarono di linciare
il giornalista croato Strazicic (direttore del giornale "Iedinsto" di
Spalato) che, spalleggiato dal potere ormai cessato, li aveva duramente
attaccati ed offesi per molti anni. Gli Italiani ebbero così in soccorso la
nave da guerra Puglia in attesa della definitiva risoluzione della questione dalmata;
in un tafferuglio tra militari italiani ed alcuni agitatori Slavi avvenuto l'11
luglio 1920 perì il comandante di vascello Tommaso Gulli, reggino quarantunenne
sposato con una donna inglese, assieme al marinaio-motorista Aldo Rossi; voci
non ufficiali riferiscono che furono guardie croate a commettere il gravissimo
delitto. Il Gulli intervenì personalmente per sedare la rissa ricevendo un
mortale colpo d'arma da fuoco: la fermezza espressa in punto di morte gli fece
meritare la medaglia d'oro alla memoria. Il comandante De Angelis arrivato
celermente a Spalato a bordo dell'Intrepido, non poté che costatare la tragedia
e calmare gli animi dei marinai italiani che chiedevano di sbarcare per
consumare immediata vendetta[1].
Così Gulli in punto di morte si espresse: "Se muoio, muoio tranquillo; io non ho assolutamente
provocato nessuno, anzi sono andato io stesso a impedire provocazioni. Se ci
sono dei morti lo deploro ma io non li ho sulla coscienza". Il funerale,
per motivi di sicurezza, si svolse in mare al largo di Spalato; gli Spalatini
che si recarono a gettare in mare corone di fiori furono duramente insultati
dalla componente croata. Le campane suonarono a lutto anche a Zara, Lissa,
Arbe, Lesina ed altre localita dalmate dove i locali Italiani dovettero lottare
con i locali Croati per accedere ai campanili; alcuni spalatini poi fecero
porre una commovente lapide nel cimitero di Reggio Calabria associando alla figura
del Gulli quella eroica del loro concittadino, pure medaglia d'oro alla
memoria, Francesco Rismondo.
IX - D'Annunzio e Fiume
L'esercito italiano parve comportarsi ambiguamente
quando nel dicembre del 1920, nella caserma di Zara, fece duramente
sgomberare i volontari dei battaglioni "Rimondo" e
"Carnaro", vicini a D'Annunzio, che si opponevano alla cessione
(ormai decisa) alla Iugoslavia anche delle isole quarnerine di Arbe e Veglia
che avevano invece decretato in seguito a plebiscito la propia annessione
all'Italia già alla fine della Grande Guerra (31 ottobre 1918); in vero la più
ampia isola dalmata (Veglia, 408 chilometri quadrati) e l'isola natale di San
Marino (Arbe) non erano inclese dal patto di Londra entro i territori prossimi
a passare sotto sovranità italiana. Malgrado ciò Veglia paese era giunto alla
Grande Guerra con amministrazione italiana mentre quella croata ad Arbe si era
insediata solo nel 1904 (favorita dai dominatori austriaci). Questi irregolari
furono condotti nel carcere di Ancona malgrado moltissimi militari regolari
simpatizzassero con loro. Diverse azioni isolate furono compiute da vari
nazionalisti italiani che portarono anche a sbarchi in Dalmazia (a Traù), più o
meno goffi; codesti personaggi furono sempre fatti rientrare nei ranghi e
sovente arrestati tranne in un caso: D'Annunzio (o come si firmava lui, più
nobilmente, d'Annunzio).
Nello stesso periodo infatti era proprio Gabriele
D'Annunzio il protagonista dell'impresa fiumana (a cui parteciparono, tra i
9.000 "legionari", anche diversi Dalmati, tra cui Riccardo
Vucassovich che perì nel tragicamente famoso "Natale di sangue" del
dicembre del 1920). Il grande poeta abruzzese aveva debuttato nella vita politica italiana nel
1897 (fu eletto ad Ortona Mare nelle file della destra per poi passare tra le
fila dei socialisti tre anni dopo, senza per'altro essere rieletto) ma sino al
discorso pronunciato a Quarto (5 maggio 1915), in cui si schierava
apertamente e duramente per l'ingresso in guerra dell'Italia contro gli Imperi
centrali, non trovò una sua specifica collocazione in campo politico.
D'Annunzio, inoltre, considerava la Francia la "nazione gemella"
dell'Italia (vi aveva lungamente soggiornato per sfuggire ai numerosi
creditori) e fu assai turbato dalla sua parziale invasione ad opera
dell'esercito tedesco. Allo scoppio delle ostilità D'Annunzio partì volontario
per il fronte a 52 anni meritandosi (caso unico) 5 medaglie d'argento ed una
d'oro[1], rimanendo ferito e perdendo un occhio; fu un
abilissimo aviatore. Calamitò su di sé l'attenzione di una intera nazione
galvanizzando l'esercito con le sue spericolate ed incredibili imprese (non
immense per quantità quanto invece per qualità). Fu in seguito appellato dai
giornali come il poeta-soldato. Il suo originale nazionalismo era imperniato di
riferimenti classici ed estetici, attingendo pure all'idea di Nietzsche del
super-uomo; fu il fascismo che ne fu condizionato e non certo il contrario.
In
questo elettrico clima postbellico i legionari, il 12 settembre 1919, partirono
da Ronchi (poi ribattezzata Ronchi dei Legionari), presso Monfalcone, con un
contingente di 300 irregolari (saliti subito a 1.000 con l'arrivo da Fiume di
Giovanni Host-Venturi e delle sue truppe, pure irregolari) e raccolsero strada
facendo militari, affaristi, sbandati, esaltati, contrabbandieri, arditi, eroi
di guerra, patrioti, nazionalisti, socialisti rivoluzionari, avventurieri,
anarchici, fuggiaschi, falliti, idealisti di ogni tipo, veterani garibaldini,
attori in cerca di pubblicità[1]
e quant'altri che si rifacessero ed ispirassero più o meno sinceramente a quelle gesta spettacolari e pirotecniche
(si pensi ad i "maiali" MAS, ovvero motoscafi anti-sommergibili, da
D'Annunziuo ribattezzati con il motto "memento audere semper") che
pure l'impreparato esercito italiano aveva compiuto nel conflitto appena
conclusosi (beffa di Buccari, volo su Vienna, volo su Cattaro, volo su Pola,
affondamento della Szent Istvan a Premuda, tutti più o meno orchestrati dal
poeta e dai suoi uomini). I cento chilometri tra Ronchi e Fiume videro
l'afflusso di una tale massa di legionari che il loro numero complessivo salì a
circa 9.000. Su Vienna il Poeta aveva volato gettando il 9 agosto 1918
centinaia di volantini patriottici (e non bombe), a Cattaro durante il
bombardamento aveva riportato 127 fori nella carlinga del suo aereo rimanendo
illeso (il 5 ottobre 1918, e ciò gli valse la medaglia d'oro), a Buccari il 10
febbraio 1918 si era guadagnato una taglia austriaca sulla sua testa di ben
20.000 corone[1].
In questo inedito amalgama di uomini trovarono così posto
nella Reggenza del Carnaro anche un ministro degli esteri belga (Koschnitzy) ed un alto
diplomatico giapponese (Shimoi). Tra i molti c'era pure l'aviatore Keller,
resosi famoso, oltre che per le sue arditissime azioni belliche, anche per aver
lasciato precipitare sul Campidoglio un vaso da notte; egli arriverà in questa
babele di fermenti addirittura a cibarsi solamente di petali di rosa canditi[1].
Con lui c'era un altro noto aviatore, il romagnolo Ettore Muti, avventuriero,
già volontario sedicenne alla Grande Guerra (il più giovane di tutto l'esercito
italiano) poi combattente in Abissinia e Spagna, convinto fascista decorato sia
dalle autorità militari spagnole, sia italiane e sia tedesche (caso unico);
morì in circostanze misteriose nell'ottobre del 1943, secondo alcuni dfu
assassinato nel sonno per ordine di Badoglio[1]. Poche volte la storia unì un "materiale
umano" così variopinto e capace di generare un fermento tale; i destini di
molti di questi uomini prenderanno poi strade diversissime ed a volte
contrapposte.
D'Annunzio, impareggiabile regista di tutti questi avvenimenti,
ebbe anche vive parole per la Dalmazia e per Zara, da lui ribattezzata la
"Santa" (Fiume invece sarà chiamata durante la Reggenza la "Città di Vita" e
dopo in Natale di sangue la "Città Olocausta", mentre gli autonomisti
di Zanella la chiameranno la "Città Martire"). Il confronto sulle
contrapposte tesi di D'Annunzio e Zanella (autonomista sincero) sono
tutt'ora animosamente dibattute tra gli esuli fiumani[1], divisi tra il magnetismo del Poeta ed il lealismo
sincero dell'autonomista.
Il 30 ottobre 1918 Fiume, lasciata la città gli Ungheresi
ormai sconfitti, aveva plebiscitariamente proclamato la propria
annessione al Regno d'Italia, ma poco dopo alcuni esponenti della minoranza
croata avevano fatto altrettanto invocando la Iugoslavia (ancora Regno
Serbo-croato-sloveno)[1]
e distribuendo ed affiggendo volantini filo-croati (scritti però non solo in
croato ma anche in italiano). La Società delle Nazioni vi aveva solermente
inviato in loro vece truppe alleate, specialmente francesi, apertamente
anti-italiane e filocroate[1];
entro questa forza multi-nazionale, comandata dal generale Grazioli, la pur
ampia componente italiana, si trovò così isolata. La Francia infatti voleva
arginare le richieste italiane al suo oriente e ciò sarà evidenziato dal
sucessivo intreccio di alleanze balcaniche (Piccola Intesa). D'Annunzio giunto
a Fiume (con la febbre a quaranta gradi causata da una colossale indigestione
di scampi,
ma da lui addebitata alla solennità dell'evento) fu accolto in un bagno di
folla e dalle più alte cariche cittadine tra cui Giovanni Host-Venturi
(legionario ed ardito della prima ora), Antonio Grossich (illustrissimo
chirurgo di Draguccio, nell'estrema Istria orientale), Antonio Vio (ex sindaco
cittadino), Icilio Bacci (patriota nazionalista, il cui cognome originariamente
era Baccich) e dal neoeletto sindaco Riccardo Gigante (che verrà torturato ed
ucciso dai titini nel 1945, assieme ad oltre 2.000 concittadini, appeso vivo
per la gola ad un gancio da macellaio). Gigante fu il penultimo prefetto
italiano di Fiume seguito solo da Alessandro Spalatin (nome assai
significativo) sino all'aprile del 1945. La strada da cui i legionari entrarono
in città, viale Volosca, da quel giorno prese il nome di Strada della Santa
Entrata anche se nei secondo anni trenta divenne propagandisticamente viale
Benito Mussolini. In questo effervescente clima molti si mutarono
spontaneamente il nome, italianizzandolo, come i noti Bacci (Baccich),
politico, ed Odenigo (Hodnig), giornalista.
Nel frattempo D'Annunzio, non scevro di demagogica
retorica, creava la "Carta del Carnaro" costituzione del piccolo
Stato composta da 65 articoli preceduti dalla frase "Si spiritus pro nobis,
quis contra nos[1]"; la Carta era il documento programmatico di un'inedito
programma politico ed economico, espresso sovente in poesia, che si rifaceva
utopisticamente alle rinascimentali corporazioni di arti e mestieri, ispirò in
parte il fascismo godendo anche dell'interesse di molti intellettuali
bolscevichi, al punto che lo stesso Lenin inviò a D'Annunzio un telegramma di
vivo augurio. Il governo provvisorio della Reggenza del Carnaro era
inizialmente composto da Gabriele D'Annunzio (affari esteri), Giovanni
Host-Venturi (difesa nazionale), Maffeo Pantaleoni (finanze e tesoro), Icilio
Bacci (interno
e giustizia), Lionello Lenaz (istruzione pubblica), Luigi Bescocca (economia
pubblica), Clemente Marassi (lavoro)[1]. Si noti la presenza del
tipico cognome fiumano Lenaz (che nella grafia croata compare come Lenac, ma
rimanendo pronunciato identicamente). Questa non ben definita entità politica
si scelse il nome di Reggenza del Carnaro (e non Stato Libero di Fiume), avendo
il progetto dannunziono obbiettivi ben più ampi sia come idea politica (se di
idea politica si può concretamente parlare), sia come orizzonti territoriali
tanto che i propri confini non furono ben definiti e tutti i paesi limitrofi
erano invitati a farne parte; i legionari infatti subito si mossero sulle isole
antistanti (sostanzialmente italiane) di Veglia ed Arbe, arrivando sino a
controllare lo strategico scoglio San Marco, posto tra Veglia e la costa, di
grande importanza strategica.
D'Annunzio, al cui fianco era allora la nota pianista
Luisa Baccara, si lasciò scivolare di mano la situazione ed i costumi dei suoi
legionari degenerarono e degradarono a tal punto che alcuni sinceri
nazionalisti se ne scostarono, duramente contrariati; alcune impunite violenze
furono compiute specialmente a danno di insofferenti Slavi. Molto contrariati
all'atteggiamento dei legionari e del loro capo si dimostrarono il comandante
Breganze ed il comandante Caviglia[1], come evidenziano i loro importanti diari. Nel
frattempo tutto ciò che non era genuinamente fiumano abbandonava la città
(Ungheresi, Austriaci, funzionari imperiali, Slavi immigrati negli ultimi anni
di dominio magiaro e tutti quanti fossero in città senza esserne veramente
oriundi), eccezion fatta per i numerosi Italiani che a più disparato titolo vi
giungevano. Il così detto idillio ungherese (ultimo quarto del secolo
decimonono) era di colpo dimenticato; a quell'ormai lontano periodo era
risalito il libero statuto del Comune di Fiume (1872).
Uno od anche due discorsi al giorno erano pronunciati dal
poeta dai balconi del Palazzo della Reggenza ed ognuno di essi finiva,
attingendo al giuramento di Perasto, la frase solenne: "Tu con mi, mi con
ti", oltre a nuovi motti come: "A chi Fiume? ... A noi!". Decine
di motti furono qui creati e molti di essi furono ripresi dal giovane fascismo
in cerca di identità[1]; anche i costumi fascisti (camicia nera, coltello e
così via) attingevano agli usi degli arditi e dei legionari fiumani, difatti
D'Annunzio, certamente artista prima che politico, aveva bene inteso come gli
animi risultassero incendiati ed ammaliati da tanta forma, da tanto rumore e da
tanto colore (pur cupo e macabro). Nella "fucina" di Fiume D'Annunzio
sperimentò talune forme che ebbero grande successo in Italia ed Europa,
evidenzioando una grande conoscenza dei sentimenti popolari ed evidenziando un
grande ed innato carisma.
Molti di quanti accorsero a Fiume, dall'Italia e non
solo, lo fecero anche per interesse personale infatti molte fortune furono
realizzate in quel periodo giocando fortemente sulla svalutazione della moneta
(erano ancora in corso le vecchie banconoto imperiali).
Tutti questi avvenimenti fiumani non sono assolutamente
scindibili dalla questione dalmata per i seguenti diversi motivi: sia Fiume che
la Dalmazia rientravano ormai in un unico problema prevalentemente bilaterale
ovvero italo-iugoslavo; le richieste italiane su Fiume (cominciate
ufficialmente nel febbraio del 1919) sembrarono avere carattere compensativo
nei confronti di quella parte di Dalmazia che ormai dall'Italia sembrava
(effettivamente) persa (il cosiddetto
"sacrificio" di Sebenico); la Reggenza del Carnaro (o Quarnaro, o
Quarnero) comprendeva le isole dalmate di Veglia (ex Kustenland
dalmata) ed Arbe (ex Dalmazia austriaca);
secondo alcuni (Dainelli[1]), inoltre, la Dalmazia comincia presso Fiume e
comprende pure tutta la costa liburnica con tutte le antistanti isole.
Il 14 settembre mattina del 1919 D'Annunzio, mossosi da
Fiume, dove era giunto il 12, arrivò a Zara con circa 1.000 uomini e quattro
navi da guerra e fu fermato al largo di Zara dall'Intrepido (nave regolare
italiana), così il poeta si espresse in un clima misto di tensione ed esaltazione dal ponte
del cacciatorpediniere Nullo attraverso un megafono: "Io Gabriele
D'Annunzio comandante della città di Fiume mi reco a Zara coi miei legionari per abboccarmi
coll'ammiraglio Millo", il quale lo accolse amichevolmente in un bagno di
folla festante. Zara infatti, già alla notizia (due soli giorni prima) dei
fatti di Fiume era insorta festante. Si noti che Nitti continuerà a parlare di
"incidente" di Fiume, i legionari di "impresa", gli storici
imparziali di "fatti". Millo e D'Annunzio trovarono molti punti
d'intesa sulla gestione parallela delle due città adriatiche e così il poeta
rinunciò a proseguire la propria azione (oggi si direbbe dimostrativa) sino a
Sebenico (come era in una prima ipotesi e come testimoniato in quegli stessi
giorni a Roma dal Giuriati). Sia D'Annunzio sia Millo avevano riposto molta più
fiducia nell'intransigenza dello Stato italiano di quanto questo allA fine
dimostrerà.
Altrove, diversamente, Pilsudski accorrerà con la
cavalleria polacca in soccorso dei Polacchi insorti a Vilna (in lituano Vilnius), portando
le proprie truppe ben oltre la stabilita linea Curzon (per circa duecento
chilometri); essi furono capeggiati da Lucjan Zeligovski[1] (la cui figura è stata accostata dallo storico
tedesco Nolte a quella di D'Annunzio[1]) e la regione venne poi effettivamente annessa alla
neoricostituita Polonia, schiacciando duramente la numerosissima minoranza
lituana. La Lituania fu così privata niente meno che della propria capitale
(spostata per cause di forza maggiore a Kaunas). I caso di Fiume e di Vilnius
hanno indiscutibilmente taluni punti in comune, come evidenziato da Nolte. La
Polonia, per due secoli assente dal palcoscenico europeo in quanto divisa tra
Russia ed Austria (con alcuni territori di minor estensione e mistilingui anche
sotto la repressiva Germania di Bismarck[1])[1], sognava la grandezza di secoli passati quando, sotto
gli Jagelloni ed unita alla Lituania (pure cattolica), comprendeva quasi tutta
la Bielorussia e mezza Ucraina[1].
Com'è noto l'Italia aveva un peso ben maggiore della
Polonia sia politicamente sia militarmente; inoltre la storia le dava ben più
ragione su Fiume, dove i Croati erano nettamente in minoranza mentre era sempre
stato ufficiale in città l'italiano e mai il croato. La storia di Fiume è
quella di un Comune marinaresco sostanzialmente libero e dotato di varie
franchigie, come, nella storia, Ancona, Messina, Trieste, Barletta, Gaeta e
così via (queste città si collocavano, per così dire, al gradino inferiore
delle tradizionali repubbliche marinare[1]). Malgrado ciò la Polonia riuscì a spostare il
proprio confine di centinaia di chilometri ad oriente rispetto a quanto
stabilito, a danno della Russia rivoluzionaria divenuta Unione Sovietica (e
dove ancora si combatteva duramente), inglobando parecchie centinaia di
migliaia di Bielorussi, Ucraini e Lituani, senza contare, ad occidente, di
Tedeschi del "corridoio" e della zona di Posen (in polacco Poznan),
città natale dello stesso von Hindenburg, cancelliere della Germania[1].
In generale si può asserire che tutte le altre situazioni
analoghe a quelle adottate a Fiume nel 1920 e proposte dalla Società della
Nazioni fallirono più o meno miseramente, a Memel, nella Saar ed a Danzica.
Danzica, città libera come Fiume, aveva però un sufficiente territorio di circa
1.000 chilometri quadrati.
Nolte parla di fallimento politico relativamente all'azione
di D'Annunzio[1], ma probabilmente l'azione di D'annunzio non ebbe
nulla di realmente e strettamente politico, né negli intenti iniziali, né nella
gestione di quei movimentati quindici mesi.
Con gli accordi di Rapallo[1] del 12 dicembre
1920 Fiume, con un angustissimo territorio di 19,57 chilometri quadrati, fu
eletta a Stato libero (come Danzica, che pure aveva un sufficiente territorio
di oltre mille chilometri quadrati). Lo Stato fiumano fu poi presieduto
tumultuosamente dall'autonomista moderato Riccardo Zanella[1]
(legalmente eletto nel 1921), che venne sucessivamente sostituito dal
nazionalista Attilio Depoli[1] giunto al potere con una sorta di colpo di Stato
(1922) e sotto la cui guida la città passò in seguito all'Italia[1].
Il colpo di Stato, se così si può dire, avvenne il 3 marzo 1922 e fu voluto dai
nazionalisti locali, e da legionari rimasti malgrado la loro ufficiale
espulsione. Riccardo Zanella (il cui padre Giovanni era originario di Vicenza, mentre la
madre Teresa Antoncich era d'origine slava, proveniente dalla Carniola
meridionale) scappò a Buccari e di lì nella vicina Porto Re per recarsi poi a
Belgrado e di lì come esule antifascista a Parigi dove fu internato dal governo
di Pétain; duro sostenitore della legittimità del suo governo e vivo
antifascista mai mise in discussione l'italianità della sua amata città (aveva
pure disertato dall'esercito magiaro durante la Grande Guerra per non
combattere contro gli alleati dell'Italia).
Il Comune di Fiume prima delle pur piccole
riduzioni territoriali sucessive agli accordi del 1920 misurava 20,56
chilometri quadrati mentre dopo l'annessione all'Italia e relativi altri
accorgimenti (scorporazione del Delta e di porto Baross a vantaggio del Regno
Serbo-croato-sloveno) scenderà a soli 17,68 chilometri quadrati.
Sucessivamente agli accordi suddetti, D'Annunzio fu fatto
sgomberare
dalle truppe regolari italiane, tra le quali pure moltissimi parteggiavano per
il poeta[1];
visto lo stallo della situazione il palazzo della Reggenza fu bombardato e così
D'Annunzio si decise (rimase anche lievemente ferito). L'episodio fu chiamato
dal Poeta il "Natale di sangue"[1]; D'Annunzio disse
di abbandonare la città per il bene della stessa (ciò avvenne il 7 gennaio 1921
a bordo della stessa Fiat 501 con la quale era entrato il 12 settembre 1919, 482
giorni prima). Il giornalista e storico Montanelli ebbe invece a dire che
"D'Annunzio lasciò Fiume come aveva lasciato tutte le sue donne, sole ed
in rovina[1]";
giudizio probabilmente troppo severo, anche se è indubbio che i legionari
stessi cominciavano ad essere stufi e tediati dallo stallo nel quale si trovava
la città[1] e cercassero nuovi pretesti per continuare la loro
avventura (il fascismo darà loro un nuovo grande e colorito pretesto: vi
confluirono in massa con i propri cupi gagliardetti e con un ampio numero di
nuovi motti guerreschi[1]). La città effettivamente era prossima alla crisi
economica, essendosi ormai costatato che non vi erano possibilità di sviluppo.
Vero è che da allora il poeta, ormai cinquantottenne, non trovò più spazio per
le proprie azioni, venendo isolato in un dorato esilio al Vittoriale di
Gardone ed essendo stato nominato su volere di Mussolini nel marzo 1924
principe di Monte Nevoso (il che, praticamente, non significava nulla).
Mussolini ebbe sempre un certo timore (qualcuno dice anche invidia)
nei confronti dell'imprevedibile poeta anche perchè non riuscì mai a gestire le
proprie azioni, non potenso prevederle una volta accadute egli cercò almeno
di sfruttarle sul piano politico, celebrando l'annessione di Fiume come una
grande vittoria fascista. Sta di fatto che D'Annunzio aveva avuto il merito
di far conoscere e tenere aperta la
questione fiumana favorendo il "traghettatamento" di Fiume verso l'Italia;
inoltre aveva amalgamato in senso italiano, come nessun altro, le genti della
multiforme e multietnica città quarnerina la quale lo ricorderà (nel bene e nel
male) per sempre.
X - La Dalmazia tra le due guerre
mondiali
Gli accordi di Rapallo[1]
prevedevano inoltre l'abbandono in tre sucessive e graduali fasi da parte italiana delle
terre e dell isole adriatiche occupate (erano occupate praticamente tutte, da
regolari o da "legionari"), la delimitazione del confine giuliano con
l'abbandono della zona di Longatico (anche se assegnata a Londra all'Italia),
immediatamente oltre lo spartiacque giulio e di importanza strategica enorme, e la delimitazione del
territorio di Zara italiana. In realtà in un primo tempo si pensò di creare
anche a Zara una "Città-Stato" indipendente che avesse rappresentanza
diplomatica congiunta e delegata all'Italia, ma l'entusiasmo della maggioranza
degli zaratini (che avevano plebiscitariamente dichiarato la propria annessione
all'Italia già nell'ottobre del 1918) prevalse ed essi si dettero subito
all'Italia come secoli orsono si erano dati a Venezia. Trumbic propose però di
non scorporare Zara dal resto della Dalmazia di cui era capoluogo, anche perché ne sarebbe risultata
economicamente soffocata; ovviamente egli puntava ad inglobarla nello nascente
Stato serbo-croato-sloveno. Da punti di vista radicalmente opposti i dalmati
Trumbic e Salvi (pure concittadini, di Spalato) erano d'accordo sulla necessità
di non dividere la Dalmazia. L'occupazione italiana in Dalmazia cessò così dopo
due anni ed innumerevoli attriti politici e fisici con gli Slavi
(Federzoni però li negò dalle pagine del suo giornale L'"Idea
Nazionale"). Questi accordi furono di fatto un grande successo iugoslavo,
mentre l'Italia aveva avuto solo fretta di chiudere la vertenza per occuparsi
dei gravi problemi di politica interna; la linea di confine del 1920 non era
certo la sintesi delle due linee Wilson (1919) e di Londra (1915)[1],
ma tutt'al più la correzione a vantaggio italiano della prima. E' pur vero che
Giolitti risollevò le sorti di un accordo che per colpa non sua si era
compromesso fin dal principio ottenendo quanto rimasto oggettivamente possibile
(Zara italiana, confine orientale alle alpi Giulie, Fiume indipendente e soprattutto
confinante con l'Italia, cittadinanza italiana alla minoranza rimasta nella
Dalmazia iugoslava). Giolitti trovò una linea chiara e coerente sulla quale
lavorarre ed alla fine il suo atteggiamento pacato ma risoluto (tanto lontano
da quello di Sonnino dagli Orlando) prevalse.
Molti Dalmati lasciarono tra gli insulti e le violenze le
proprie case senza, che i militari potessero più proteggerli e senza nemmeno
poter sistemare la situazione patrimoniale relativamente a ciò che per sempre
lasciavano. Molti Dalmati italiani partirono senza il tempo materiale di
organizzare e gestire i beni, spesso ingenti, che lasciavano.
Fiume fu poi identificato (nuovamente se si pensa al
periodo ungherese) nel Corpus Separatum, contando (dati del 1910) 49.135
abitanti[1]. Malgrado il forte malcontento iugoslavo Fiume
riuscì a confinare, con una lingua di terra stretta anche solo 800 metri, con
l'Italia; in detta striscia di terra costiera passavano una strada e la
ferrovia. La Iugoslavia aveva invece proposto di racchiudere interamente il
territorio del Corpus Separatum (separato idealmente dall'Italia) entro il
territorio iugoslavo. A Fiume, i cui abitanti erano in maggioranza italiani, la
cultura autoctona non fu così sopraffatta dalla prepotenza slava. Il censimento
ungherese del 1910 (manipolato come quelli austriaci) dava presenti a Fiume
24.212 Italiani, 15.687 Slavi (molti Croati ma anche Sloveni, Slovacchi,
Polacchi e Cechi), 6.492 Ungheresi[1]
(quasi tutti ripartirono nel 1920 alla volta di Budapest), nonché Tedeschi e
quant'altro vi fosse nell'Impero con addirittura una piccola comunità di
Inglesi per complessivamente "altre" 2.744 persone[1] (alcuni ebrei, inoltre, si erano definiti tali senza
specificare la propria lingua). Questi avvenimenti e quelli dei venti anni sucessivi amalgamarono
la popolazione fiumana (salvo quelli che immediatamente se ne andarono), tant'è
che con l'esodo del 1947 partirono praticamente tutti alla volta dell'Italia
(54.000 su 60.000 ed inspiegabilmente sono 6.000 attutt'ora gli Italiani
dimoranti a Fiume[1] come se Croati non vi avesse dimorato alcun Croato
tra le due guerre mondiali[1]); in realtà la borghesia di origine croata si era già
in gran parte italianizzata. Molti Inglesi erano presenti nell'attivo porto
quarnerino e in questo periodo la zona turistica di Abbazia fu elevata dalla
mondanità europea ad uno dei principali punti di ritrovo, quando i concitati
eventi politici e militari spostarono gli appuntamenti mondani del belmondo
inglese ed europeo dai confini orientali a quelli di occidentali d'Italia, cioè
verso Nizza[1] ed al nascente fenomeno turistico della Costa
Azzurra. Come è tipico di quest'area, le campagne di Fiume, in
antagonismo col capoluogo, erano effettivamente slave inquanto uno spostamento
di popolazioni nel Settecento ne aveva fatto inurbare gli abitanti (italiani) e
sostituito i contadini con genti slave. I dati del censimento fiumano del 1910
possono essere letti anche in questi termini: Italiani 49,3%, Slavi 31,9%
(complessivi), Ungheresi 13,2%, altri 5,6%; difatti i non autoctoni partirono
quasi tutti tra il 1918 ed il 1920 (funzionari e militari magiari, funzionari slavi imperiali,
mercanti tedeschi e così via). Solo alcuni Croati (tra i tanti Slavi di altra
provenienza) inurbatisi da alcune generazioni rimasero, assieme a coloro che
erano ormai stati assimilati da anni di vita fiumana o dai numerosi matrimoni
misti (che sempre generavano fiumani italiani).
Lo stesso
censimento delle autorità magiare, pur fallace come quello austriaco, mostrava,
come evidenziato dal Dainelli[1], ben sei centri della Liburnia (la cosidetta costa
ungherese, mai stata sotto Venezia) con presenze italiane; oltre a Fiume essi
erano: Buccari, Porto Re, Novi, Segna e Carlopago. In vero in questi paesi gli
Italiani erano presenze poco più che simboliche ma comunque significative. Discreta era la presenza
a Segna (come evidenziato dagli stessi atlanti storici tedeschi del tempo[1]), il cui porto era stato il principale dell'Ungheria
sino alla "restituzione" da parte austriaca di Fiume (1867). I dati
austro-ungarici erano fasulli ed infatti veniva omesso il paese di Sussak dove
pure vi erano 1.500 italiani (ben l'11,5% sul totale cittadino) e dove taluni
giornali italiani venivano stampati per sfuggire alla censura magiara (come La
Difesa, di cui Zanella fu stretto collaboratore); d'altronde Sussak viveva
in simbiosi con la vicinissima Fiume. I Fiumani d'origine magiara tendevano ad
assimilarsi alla componente italiana della città, detentrice della cultura e di
tutte le istituzioni cittadine; un così alto numero di Slavi e di burocrati
Magiari fu conseguenza di una politica antiitaliana analoga a quella austriaca,
anche se cominciata più tardivamente, attorno al 1890 infatti a lungo i fiumani furono
fedeli sudditi di Budapest che li aveva sempre tutelati dalle mire croate.
Nell'ultimo decennio dell'Ottocento gli Ungheresi attaccarono l'italianità dei
fiumani cercando arditamente di magiarizzarli piuttosto che di croatizzarli,
temendo pure l'elemento croato[1]. Gli immigrati slavi di Fiume erano molto eterogenei
e non insidiarono mai il carattere vero ed autoctono della città di San Vito;
moltissimi erano pure i cittadini di origine ebraica (specialmente di origine
tedesca, complessivamente circa 1.500 unità, cioè oltre il 3%[1]).
Solo il patto di Roma del 27 gennaio 1924[1]
consegnerà Fiume all'Italia, dopo che già era satato perso il sobborgo
orientale di Sussak[1]
(o Susak, o Sussag, o Sussax) in prevalenza croato (circa 11.500 Slavi contro
1.500 Italiani), ed ora tolti anche porto Baross (dal nome di un ministro
ungherese), il Delta e ciò che rimaneva delle campagne, all'Italia. In realtà
la zona (di forma triangolare) del porto e del Delta (compreso tra il fiume
Eneo ed il canale della Fiumara) era stata oggetto di dure contese tra il
Comune di Fiume ed il Comune Sussak fin dal lontano 1854.
Sul finire degli anni trenta il simbolo cittadino (un
aquila su un'otre che getta acqua perenne, da D'Annunzio definita "l'otre
inesausta") fu mutato, senza gran fortuna, in un fascio littorio
costellato dall'orsa maggiore[1], tanto cara allo stesso D'Annunzio. Gli stessi Croati
al giorno d'oggi hanno ripristinato un simbolo in tutto e per tutto simile
all'originale (ma privato della scritta latina "indeficienter" e con
l'aggiunta dello scacchiere bianco e rosso di Croazia[1]). Il simbolo cittadino era stato assegnato alla città
nel 1659 da Leopoldo I.
L'autoctonia italiana di Fiume è dimostrata, oltre che da
secoli di documenti che attestano l'italianità del Comune sotto la corona
ungherese, anche dal fatto che l'80,75% delle epigrafi tombali del cimitero al momento
dello scoppio della grande guerra erano scritte in italiano (per un numero
complessivo di 2304), contro il 7,2% di epigrafi croate (206), 5,35% tedesche (153), 4,7%% ungheresi
(134), nonche 31 epigrafi in inglese (ben l'1,1%) ed altre 25 in disparati
idiomi[1] (ebraico, serbo, ceco e così via); dimostrando così
che gli elementi allogeni erano di recentissima immigrazione (oltre che di ceto
tanto inferiore da non permettersi epigrafi tombali, od, ove di ceto elevato
tanto assimilate da volerle in italiano[1]. Spicca il fatto che, al di là delle coatte
immissioni cominciate attorno al 1890-1895, gli Ungheresi erano storicamente in
numero minore dei Tedeschi. Spicca, come proporzioni sulle altre componenti,
anche la solidità della comunità inglese (relativamente all'influsso inglese a
Fiume si nomini solamente il nazionalista italiano Jhon Stiglich di nome inglese e di
cognome, probabilmente, tedesco, sintesi di questi innumerevoli influssi). Pure
una piccola comunità d'origine serba (e di religione ortodossa) è storicamente
presente nella città; essa è presente tuttora, ma per essa l'intransigenza dei
nazionbalisti croati risulta particolarmente insopportabile[1].
Mussolini nel 1924 (come Nitti nel 1920, l'odiato
"Cagoia" di D'Annunzio), tese a far passare gli accordi di Roma come
una grande vittoria italiana ed una definitiva risoluzione della questione
adriatica[1],
in quanto l'opinione pubblica era ormai da tempo concentrata su altre
impellenti questioni, nonché volendo dare prestigio all'ormai consolidato
regime fascista celebrandolo con un grande successo (Fiume divenne così Fiume
d'Italia, dannunzianamente). Nel Vittoriale (dorato "esilio" di
D'Annunzio) il poeta fece porre la prua della nave Puglia (quella che era stata
capitanata da Gulli), mirante verso Spalato (eslusa dall'Italia). Montanelli
scriverà che sotto D'Annunzio anche i Fiumani non italiani si italianizzarono[1] (difatti con l'esodo di cinquant'anni fa fuggirono,
salvo alcune rare eccezioni di carattere politico, praticamente quasi tutti.
D'ora in avanti (si era velocemente sgonfiato anche l'episodio della
"presa" italiana di Corfù del 1923[1]) la "vittoria mutilata" fu intesa solo in
senso coloniale.
Sucessivamente, nel 1936, (quindi dopo l'annessione di
Fiume all'Italia) uno studio del governo italiano quantificò nel 60% la
popolazione italiana di Fiume, nel 75% quella di Gorizia, nel 83% quella di Trieste
e nell'84% quella di Pola[1]; paradossalmente il più italiano di questi quattro
capoluoghi di provincia (Pola, appunto) è passata alla Iugoslavia nel 1947
(assieme a Fiume, come noto).
Dopo la fine della dura guerra (durata ben oltre i sei
mesi previsti dagli accordi di Londra) la Dalmazia, giunta alla resa dei conti
circa il proprio futuro, vide una lunga serie di accordi italo-iugoslavi[1]
formalmente distesi (reciproca amnistia, accordo biennale anti-asburgico), ma
che in realtà esasperarono gli animi soprattutto dei Dalmati (sia italiani che
croati) continuamente incerti circa la propria sorte; nel frattempo le truppe
italiane stazionarono minacciosamente lungo tutta la costa dalmata fino a tutto
il 1920.
Un altro fatto che gravemente infiammò la Dalmazia in
questo periodo di confusione del primo dopoguerra fu la possibilità esercitata
da oltre 10.000 Italiani di prendere la cittadinanza italiana rimanendo nelle
loro città, come stabilito dagli accordi di Rapallo (12 novembre 1920) e come
ribadito dall'articolo 7 dagli accordi di Santa Margherita Ligure del 23
ottobre 1922 siglati sotto il breve secondo governo Facta[1]
(il diritto di opzione doveva avvenire non oltre un anno dall'accordo); nel frattempo altri
15.000 Dalmati circa si manifestarono Italiani pur accettando (per non subire
discriminazioni, specialmente in campo lavorativo) la cittadinanza
serbo-croato-slovena[1].
Stando ai dati raccolti da Umiltà e da D'Alia, rimanevano entro i confini della
Dalmazia iugoslava, complessivamente, 25.000 Italiani dichiarati (circa il 60%
con cittadinanza serbo-croato-slovena); anche questi dati smentiscono
clamorosamente i vecchi censimenti austriaci. Questi dati furono forniti dal
console italiano di Spalato, Carlo Umiltà; secondo lo studioso Aci Monfosca
invece gli optanti cittadinanza furono 14.000[1], secondo alcuni dati croati raccolti dallo storico
dalmata Andri solo 6.000 ed addirittura per il croato Rubic solamente 4.335[1].
Una possibile chiave di lettura della parabola delle
genti latine sulla costa orientale dell'adriatico, parabola che tra il 1918 ed
il 1947 ha portato di fatto all'annientamento delle stesse, interpreta questa
"ritirata" come il naturale assorbimente di una comunità presente su
di una costa senza essere presente solidamente fin nell'entroterra,
specialmente se questa presenza era poco accentrata per costituzione.
Certamente se tutti i 60.000 o più Italiani della Dalmazia austriaca fossero
stati accentrati in una zona ben definita, solida ed omogenea certamente la
storia avrebbe seguito un differente corso. A tal proposito si possono fare
numerosi parallelismi evidenziando sul suolo europeo situazioni analoghe
cercando così di trovare teorie generali (come già trattato in questa sede). I
fattori che favorirono il declino degli Italiani di Dalmazia sono molteplici:
da un lato aspetti politici come un atteggiamento debole da parte dell'Italia
(sino al 1923) ed uno durissimo da parte delle autorità austriache (dal 1866);
dall'altro lato va citata l'assoluta permeabilità tra il gruppo italiano e quello slavo[1] e la frammentazione geografica degli Italiani, a ciò
si aggiunga il naturale spostamento di genti (slave) verso il mare e verso i
ricchi porti di clima temperato.
Nel 1927, secondo il consolato italiano, i Dalmati con
cittadinanza Italiani dimoranti su suolo iugoslavo erano già scesi a 6.802
(5.722 nella circoscrizione consolare di Spalato e 1.080 in quella di Ragusa)[1]. I dati ufficiali iugoslavi quantificavano i cittadini italiani
in 5.609 nel 1929 e in 4.900 nel 1930: prescindendo dall'esattezza dei dati
(mai o quasi mai univoci) era comunque evidente il loro tracollo. Addirittura
Umiltà ebbe a dire che durante l'opzione "in qualche rarissimo caso, di un
notaio e di un avvocato, fu loro consigliato di rimanere sudditi
serbo-croato-sloveni affinchè non si rimanesse senza possibilità di redigere
atti e di ricorrere ai tribunali"[1]. Nel 1921 vi furono diversi pestaggi d'Italiani a
Spalato, Lissa (dove il cimitero italiano venne violato), Curzola, Sebenico; a
Lissa i disordini si verificarono in occasione dell'arrivo nel porto della nave
austriaca Swarzerberg (ceduta come "risarcimento" al Regno
Serbo-croato-sloveno), che era stata una delle navi protagonoste durante la
nota disfatta italiana del 1866. Nel 1929 la società italiana SUFID (Società
per l'usufrutto delle forze idriche della Dalmazia) di Sebenico, che dava
sicuro lavoro a molti operai italiani ed anche ad alcuni regnicoli, fu
costretta a vendere ad una società francese, per le pressioni subite dai propri
dirigenti triestini, divenendo La Dalmatienne[1]; i nuovi dirigenti accondiscesero immediatamente alle
richieste croate di mortificare duramente l'elemento italiano (in questo
periodo la Iugoslavia sarà l'insostituibile perno delle alleanze balcaniche
transalpine). Alla SUFID trenta operai con le relative famiglie rinunciarono
tosto alla cittadinanza italiana[1] e dal 1931 la cittadinanza iugoslava fu un requisito
indispensabile per non essere licenziati così come ai cantieri Jugo e Marian di Spalato; a proposito del caso SUFID così si espresse la stampa croata: "Facciamo appello
alla
coscienza degli industriali affinché allontanino dai lavori gli operai
stranieri e occupino i nostri"; gli stranieri erano gli spalatini con
passaporto italiano (e fino al 1929 anche i dirigenti, ovvero nientemeno che i
proprietari[1]). Analoga sorte capiterà agli Italiani del
cementificio di Spalato, la cui proprietà era pure italiana.
Così invece si esprime un gruppo di illustri[1] Dalmati (tra cui l'onnipresente ed attivissimo
Dudan): "Nelle italianissime città di Spalato e Sebenico imperversa il più
atroce terrore austro-croato larvato di nome iugoslavo, ove bolscevismo
anarchico minaccia la vita dei cittadini italiani".
A Lesina i genitori che iscrivevano i figli alla scuola
italiana venivano multati (contro ogni legge iugoslava[1] ed ogni buon senso). Questi attriti resero la vita
degli Italiani impossibile alimentando odi e rancori sempre più profondi ed
ormai insanabili. L'appartenenza ad una comunità era una scelta solamente
politica e non etnica; infatti lo stesso Philip Andrews, comandante della
marina statunitense del Mediterraneo, testualmente disse che in Dalmazia:
"...Italian is spoken in public and no one notices it; many Slaves
speak Italian in their homes[1]"[1], dando quasi ragione agli scritti di Bartoli ed
Ascoli. Malgrado ciò il comandante Andrews nel 1920, in piena crisi dalmata,
chiese perentoriamente l'allontanamento delle navi italiane dall'Adriatico
orientale (le navi Puglia ed Intrepido erano, come si è visto, nei pressi di
Spalato)[1].
Il mantenimento della cittadinanza, privilegio che altre
minoranze in Europa non avevano, creò una serie di problemi che spaccò in due
la stessa comunità italiana, ora divisa per cittadinanza. La Iugoslavia (tale
ufficialmente dal 1929) fece di tutto per far sì che coloro che si erano
avvalsi di questo diritto vi rinunciassero, non dando loro normalmente i posti
di lavoro e creando gravi problemi di carattere scolastico ai loro figli. Agli
artigiani impoveriti di Lissa, Lesina e Pago[1] fu imposta la cittadinanza iugoslava[1].
La riforma agraria iugoslava degli anni venti espropriò
numerosissimi possidenti italiani, quei pochi risparmiati dagli Austriaci e non
solo dalmati: infatti gli Odescalchi erano originari di Roma ed i Pallavicino
di Parma. Nel 1921 rimarranno in Dalmazia 600 proprietari terrieri italiani (55
grossi latifondisti) con ancora 23.000 ettari di terreno in loro possesso (2%
sul totale di territorio agricolo, una quantità comunque irrisoria rispetto
alla quasi totalità di 50-60 anni prima[1]). Una commissione mista italo-iugoslava nel 1936
tardivamente indennizzerà centinaia di Italiani espropriati[1].
Nel 1929 anche la Iugoslavia[1] si avviava verso la dittatura con una netta
prevalenza dell'elemento serbo, presenza preponderante nell'esercito e
nell'amministrazione; Radic, capo croato, venne ucciso in pieno parlamento
nel 1928 e nel 1930 vi fu l'affare Macek[1], ingiustamente seviziato ed incarcerato, poi difeso
niente meno che da Trumbic in persona. Macek, senza esserlo, diverrà un simbolo
per la
liberà dei Croati nei confronti dei Serbi). La Iugoslavia
divenne molto aggressiva in politica estera arrivando ai ferri corti con
Ungheria e Bulgaria; al suo interno discriminò fortemente le minoranze tedesche
(come a Gottschee, in sloveno Kocevje, nel 1930), bulgare ed albanesi (oltreché
ovviamente italiane). A Gottschee i Tedeschi non poterono nemmeno celebrare
nella loro lingua il sesto centenario (1330-1930) della fondazione del loro
borgo. Si noti poi, nella Iugoslavia meridionale, come i Macedoni fossero
ancora considerati Bulgari (addirittura detti dai Serbi i "Serbi del
sud"), solo Tito "inventerà" l'etnia macedone per cercare
di svincolare queste popolazioni dalla forte influenza bulgara (la Bulgaria nel
1941 dimostrerà di essere memore della pace di Santo Stefano con la quale la
Macedonia le sarebbe dovuta appartenere). La definizione di Serbi del sud (utilizzata
dai Serbi per i bulgaro-macedoni) ricorda quella usata con spregio ancor
maggiore dai Turchi per i Curdi (Turchi delle montagne). Ogni governo
nazionalista, come quello iugoslavo (di fatto serbo) degli anni trenta,
ribadendo una logica di stampo addirittura asiatico, ha cercato di cancellare
con la forza ogni elemento destabilizzatore del proprio potere.
Inoltre minoranze incredibilmente più numerose di Slavi
(Croati ed in maggior numero Sloveni, complessivamente tra i 400.000 ed
i 500.000[1] individui) si venivano ora a trovare in Italia ed il
governo fascista non concesse loro alcuna autonomia, in certi casi essi dovettero subire intimidazioni ed
anche violenze dagli elementi italiani[1] (quasi sempre esagitate camicie nere non
del luogo) ed i loro figli dovettero frequentare senza possibilità di scelta le
scuole italiane. Il censimento italiano del 1921 (non ancora viziato dal
fascismo) quantificò i Croati entro i confini d'Italia (Fiume quindi ancora
esclusa) in 96.000 (a ben 72.000 di essi era noto l'italiano; compresi i 3.000
siti nella collettività slava del Molise) e gli Sloveni in 292.000 (a soli
48.000 era noto l'italiano; alcuni di essi però in val Canale ed in val
Natisone in Friuli, quindi non in Venezia Giulia). Tra il 1926 ed il 1930 le
autorità italiane, per reazione alla politica fascista, subirono nella Venezia
Giulia 31 aggressioni a mano armata, 13 omicidi, 18 incendi dolosi a pubbliche
strutture (tra cui diverse scuole) ed 8 attentati terroristici; 87 Slavi con
cittadinanza italiana furono incriminati. Nell'ottobre del 1930, in risposta
alla fucilazione di alcuni di questi arrestati, vennero seriamente danneggiate
diverse ditte italiane di Ragusa, Spalato e Sebenico da militanti antiitaliani
(soprattutto sokolisti)[1]. Belgrado foraggiava questo terrorismo ed
organizzava, presenti le autorità francesi, manifestazioni pro Venezia Giulia
iugoslava; suscitò imbarazzo (ed ilarità in Italia) a tal proposito
l'intervento dell'ambasciatore francese a Belgrado che in un infuocato discorso
filoiugoslavo ed, ovviamente, antiitaliano per abitudine parlò di Spalato e non
di Split alla presenza delle maggiori cariche iugoslave. Uno dei centri da cui
partivano queste iniziative terroristiche anti italiane era Lubiana, molto
vicina al confine. Si ricordi a tal proposito (Comitato pro Venezia Giulia iugoslava) che
alla pace di Parigi del 1918 gli Iugoslavi avevano proposto un confine che
desse al Regno Serbo-croato-sloveno addirittura Trieste, Gorizia ed il Friuli
orientale (tutt'altro che dissimile da quello poi proposto dagli stessi Iugosalavi a Parigi nel
1947).
Questa situazione bilaterale è molto significativa ed
emblematica in quanto vi erano due Stati con reciproche minoranze. La minoranza
italiana era ormai poco numerosa, ma nella propria regione (la Dalmazia) era
sempre stata la componente detentrice della cultura, dei capitali, dei mezzi di
produzione, delle industrie e delle terre, mentre le minoranze della Venezia Giulia
erano composte (salvo rarissimi casi) da modesti ed onesti contadini e
montanari slavi che da poco avevano trovato una propria identità ed una propria
collocazione culturale, senza aver mai goduto di reali autonomie e senza mai
aver avuto una propria identità nazionale sotto la corona asburgica di cui
erano stati per secoli fedeli sudditi. Queste popolazioni si infiammarono nel
1941 quando l'Italia, già vinta la Iugoslavia che le fomentava, annesse la
provincia di Lubiana[1] lasciandole come ufficiale la lingua slovena, rimasta
assolutamente proibita al di qua di Postumia. La dottrina
dell'autodeterminazione dei popoli, propugnata (spesso solo a parole) dal
presidente statunitense Woodrow Wilson ed espressa nei famosi 14 punti, pone
ogni etnia, per principio, sullo stesso piano, ignorando di fatto la realtà; le
minoranze dovevano cioè essere valutate in termini paritetici (cioè
quantificate in freddi termini numerici) quando la storia spesso insegna come
in Europa (esempio nei paesi baltici con i balto-tedeschi, detentori del
potere) ciò non sia stato mai e come di fatto non lo fosse allora in Dalmazia.
Ciò inevitabilmente cozzava con la rinascita (a volte solamente nascita) dei
popoli cosiddetti oppressi. Dopo il 1920 solo un migliaio scarso di Slavi
lasciò l'Italia per la Iugoslavia quando dall'Alsazia (e provincia lorenese di
Metz) per la Germania partirono nello stesso periodo ben 120.000 Tedeschi;
nella stessa logica nel 1939 partiranno dall'Italia (dopo gli accordi
Mussolini-Hitler) 45.000 sudtirolesi[1].
Così come facevano anni prima gli Austriaci, gli
Iugoslavi nel censimento del 1931 quantificarono complessivamente gli Italiani
in soli 8.860[1] (con e senza cittadinanza).
Uno spaccato di vita quotidiana della minoranza italiana
della Dalmazia iugoslava ce lo fornisce il noto giornalista Enzo Bettiza[1] (nato a Spalato nel 1927 da una famiglia di
industriali benestanti, a Spalato da innumerevoli generazioni) che rimase
assieme ai familiari, con la cittadinanza italiana, sotto gli Slavi tra le due guerre mondiali;
egli fu tra i molti, da Spalato, Traù, Sebenico, Cattaro, Almissa, Macarsca,
Ragusa[1], come lui stesso ricorda, che andarono in convitto
(per loro esso era assolutamente gratuito) a studiare a Zara, mancando altrove
scuole superiori italiane. Il convitto Tommaseo di Zara era gratuito, volendo
il fascismo incentivare gli Italiani di Dalmazia (fuori da Zara) a prendere viva
coscienza della cultura italiana rimanendo nelle proprie città sotto la corona
iugoslava. I Bettiza erano una di quelle famiglie che non avevano abbandonato
le proprie città anche per via dei propri ingenti averi ed affari; ciò accentuò
ancor di più il già grande divario economico tra Italiani rimasti in
Dalmazia e Slavi (aggiungendo motivi di
rivendicazioni eonomiche tra le componenti cittadine già lacerate da questioni
di carattere nazionale). Come lui aveva fatto pure Nino Nutrizio (nato a Traù
nel 1909) futuro giornalista[1] (e fratello della stilista Mila[1]). Il Bettiza, scrittore che assai pacatamente narra
questi episodi così duri, denota tutta la rassegnazione di chi fa parte di una
componente ormai ridotta a minoranza, sparuta minoranza in continuo calo come
non era solo una o due generazioni addietro; lo stesso scrittore racconta il
duro litigio con il fratello minore che, incendiato nello spirito dall'arrivo
in città delle truppe italiane, pose festante alla finestra di casa il
tricolore italiano. Egli ricorda poi lo stupore dell'annessione del 1941, da
lui vissuta non entusiasticamente, con i Croati che a Spalato diventavano una
silenziosa minoranza e gli Italiani una piccola maggioranza rumorosa e
baldanzosa; ricorda poi i lunghi mesi bui seguenti l'8 settembre e la fuga in
Italia, a Bari. Ricorda che la sua famiglia fu tra le ultime a lasciare la
città e che dopo il settembre 1943 nessun Italiano dichiarato rimase. Egli si
ostina a definire la propria assenza un esilio (e non esodo), quasi
parli di un'assenza temporanea, anche se essa dura ormai da oltre
cinquant'anni. Il suo libro, Esilio, si è aggiudicato con ben novanta voti il
premio Campiello 1996.
Il suo atteggiamento assai morbido nei confronti degli Slavi però ha irritato
molti esuli giuliano-dalmati, specialmente dopo la sua elezione al Parlamento
europeo di Strasburgo dove egli si sta probamente impegnando al fine di avvicinare all'Unione Europea le
giovanissime Repubbliche di Slovenia e Croazia che tanto duramente soffocano le
rispettive minoranze italiane, anche nella Spalato del Bettiza. L'aspra
polemica tra l'ex-sottosegretario agli esteri Livio Caputo (di madre giuliana) ed
Enzo Bettiza è attuttora in corso.
I linguisti italiani dopo il 1920 studiarono le minoranze
annesse. Per quanto riguardava le regioni orientali ci si rese conto di come il
75% dei Croati della Venezia Giulia fosse bilingue[1] e parlasse senza problemi l'italiano (quantomeno il
dialetto veneto), mentre "solo" il 16,7% degli Sloveni lo parlasse[1] (erano quelli delle zone mistilingui a ridosso e nelle città di Trieste e
Gorizia, già austriache e non veneziane, oppure del lembo più settentrionale
dell'Istria). La situazione era assai ricca e composita tanto che a Peroi,
presso Pola, vi era una colonia di Montenegrini russo-ortodossi fuggiti dai
Turchi nel 1645 (perfettamente bilingue con l'italiano), la quale tra l'altro
discendeva da illustri casate di Cettigne (vi erano anche dei Petrovich e dei
Popovich). Peroi, la latina Pedrolum, in seguito alla peste del 1644 si era
ridotta ad avere tre soli abitanti e la Serenissima il 17 ottobre 1645 vi
installò "habitanti novi" così ripartiti: 15 famiglie
montenegrine (da Cettigne) con il loro
pope e 25 greche (da Corfù), assegnando ad ogni capofamiglia un terreno, un
bue, trecento tavole e tremila chiodi; fu loro permesso di trasformare una
vecchia chiesa cattolica abbandonata in ortodossa intitolandola a San
Spiridione. Questi bilingui dimostravano come per gli Slavi ex sudditi
veneziani dell'Istria fosse ancora perfettamente familiare l'italiano e ciò è
stato vero anche in Dalmazia (come del resto in parte è ancora adesso, specie
tra gli anziani). L'Istria interna (contea di Pisino, in tedesco Mittelburg)
era territorio austriaco da moltissimi secoli, quindi in Dalmazia si sarebbero
potuti avere dati ancora più clamorosi. Questi stessi linguisti nel
piccolissimo territorio di Zara poterono studiare la colonia albanese, giunta
nel 1726 e perfettamente bilingue con l'italiano, di Borgo Erizzo e chissà che
cosa ancora avrebbero potuto trovare analizzando interamente la regione (che a
differenza dell'Istria centro-orientale era stata veneta quasi interamente fino
a Campoformio). Gli stessi linguisti smascherarono gli erronei dati etnici
emersi dai censimenti austriaci in Istria, anche se ciò ovviamente non fu
possibile in Dalmazia (passata alla Iugoslavia).
Gli Italiani di quelle regioni (sia in Dalmazia, sia in
Friuli orientale, sia in Istria), colpevolmente, non furono mai interessati
alla giovane cultura croata (ed anche slovena) e non impararono mai l'idioma
slavo, non avendone peraltro alcun bisogno nel dialogo quotidiano in cui si
usava sempre l'universale dialetto veneto; questo alla lunga penalizzò gli
Italiani come aveva intuito quasi un secolo prima il Tommaseo. Addirittura
tutta la letteratura croata nacque in Dalmazia tra il Quattrocento ed il Cinquecento su modelli
italiani, specialmente a Ragusa (ma anche a Spalato e Lesina), quando alcuni
scrittori bilingui come Gondola, Ettoreo, Menze, Marulo, Cassio, Ragnina,
Lucio, Cavagnini o Darsa, oltre che in italiano ed in latino, scrissero, su modelli
italiani, anche in quella che allora veniva chiamata lingua schiavone (nessuno
di loro scrisse esclusivamente in croato). Un attento studio in proposito
evidenzia come nessuno dei suddetti poeti dalmati abbia usato nella propria
produzione letteraria solamente lo schiavone. In particolare Marco Marulo di
Spalato si rifece apertamente al campano Torquato Tasso. Anche la scelta dei
caratteri latini e non cirillici (come nel serbo) nacque proprio in questo
contesto storico-culturale. Solamente i linguisti Mussafia di Spalato, nel
tardo Ottocento, nonché Maver di Curzola e Cronia di Zara, in questo secolo,
studiarono approfonditamente la filologia croata insegnandola presso
l'università di Padova ma diffondendola tardivamente; ed è significativo che
questi tre insigni slavisti fossero dalmati.
Fase drammatica per la Dalmazia, e per l'Europa tutta, fu il
secondo conflitto mondiale[1] durante il quale, dopo la prima dissoluzione della
pur giovane Iugoslavia, nacque lo Stato croato indipendente sotto il comando di
Ante Pavelic (che tra l'altro si era culturalmente formato in Italia[1]) il quale istaurerà un regime simile al fascismo
italiano. Il suo programma politico fu ribadito nell'ottobre del 1941 a
Zagabria durante una conferenza stampa alla presenza di una nutrita schiera di giornalisti italiani
(coi quali egli si mostrò molto cortese[1]). Egli si fece appellare "poglavnik", cioè
duce. Malgrado la parentela politica ed i sorrisi di circostanza egli avversò
gli Italiani specialmente dopo l'annessione da parte del governo di Mussolini[1], venuta meno la Iugoslavia dopo poche settimane
dall'invasione tedesca ed italiana, di Spalato, Traù, Sebenico, Cattaro, Zaravecchia,
Scardona, Meleda, Veglia, Arbe, Curzola, Nona, Lissa (ma non di Ragusa,
Gravosa, Almissa, Macarsca, Ragusavecchia, Lesina, Brazza, Pago, Sabbioncello,
tutte passate alla neonata Croazia). Il governo italiano favorì il ritorno in
Dalmazia di molti esuli dalmati (alcuni bilingui) impiegandoli
nell'amministrazione anche se ormai i rapporti sembravano irrimediabilmente
rotti con i Croati locali.
La Iugoslavia fu interamente scorporata e divisa tra gli
alleati della Germania (le forze dell'Asse): la Bulgaria (che prese quasi tutta
la Macedonia), l'Ungheria (che prese Voivodina e Transmuria), l'Italia
(Dalmazia e Slovenia occidentale, come si è detto), ovviamente la Germania
(Slovenia nord-orientale), l'Albania[1], (che ebbe quasi tutto il Kossovo, la fetta più
orientale della Macedonia ed il porto dalmata di Dulcigno) e la nascitura
Croazia; ciò che rimaneva della sconfitta Serbia rimase, per così dire, a
disposizione della Germania (anche la Romania guardava con vivo interesse ai
territori serbi del Banato occidentale). Paradossale fu che l'Albania (pure
sotto la corona italiana) ebbe molto più dell'Italia (non solo
proporzionalmente, ma anche in valori assoluti). Questo nuovo confine
italo-croato ricordava, a sostanziale vantaggio italiano (Traù e Spalato),
quello di Londra del 1915 con inoltre l'aggiunta della remota e piccola
provincia di Cattaro (meno di 600 chilometri quadrati) che sotto la Iugoslavia
era stata aggregata al banato della Zeta ovvero il Montenegro (il quale pure
venne ricostituito indipendente sotto controllo italiano, munito del porto
dalmata di Antivari).
In occasione di questi grandi mutamenti al di qua
dell'Adriatico la Repubblica di San Marino emise un prezioso e raro francobollo
per commemorare l'annessione all'Italia dell'isola di Arbe (1941), patria del
fondatore della propria antica Repubblica del monte Titano; Arbe e Veglia
furono unite alla provincia di Fiume (i territori da Pago in giù a quella di
Zara; in questa logica amministrativa anche Arbe entrava nella Venezia Giulia
mentre il confine amministrativo della Dalmazia italiana veniva ulteriormente
spostato verso meridione).
L'Italia annesse molti territori della Dalmazia
centro-settentrionale, dove molti Serbi vivevano, ciò fu anche voluto per il
fatto che sia i Serbi che i Montenegrini annessi all'Italia preferirono di gran
lunga quella collocazione piuttosto che essere inglobati nella Croazia di
Pavelic.
Nel 1929 era stata emessa una legge in base alla quale si
cercò di italianizzare i cognomi stranieri (il provvedimento fu obbligatorio
per i funzionari pubblibi e per gli operanti nel campo del commercio), esso
interessò soprattutto la Venezia Giulia con Zara, così che 26.000 persone
mutarono il proprio cognome; molti lo mutarono di buon grado, altri chiesero
spontaneamente di mutarlo ma molti dovettero subire un provvedimento coatto.
Inoltre il fascismo incoerentemente non fece una attenta ricerca storica che riportasse alla
forma originaria i cognomi mutati dagli austro-croati, ma prescindette da essa
(sotto gli Austriaci alcuni cognomi presenti sull'isola di Cherso erano stati
così mutati: Bonmarco in Bonmarcich, Petrani in Petranich, Stefani in
Stefanich, Dragoni, famiglia d'origine emiliana, in Dragovich e così via;
Monsignor Bonmarco di Cherso è attualmente vescovo di Gorizia). Nel frattempo
gli Italiani rimasti sotto la Iugoslavia dopo il 1920 subirono un trattamento opposto ma
analogo, continuando a subire presso le anagrafi la slavizzazione dei propri
nomi, tanto che gli Italiani di Iugoslavia arrivarono ad avere quasi tutti
cognomi perlomeno slavizzanti.
Il nuovo confine del 1941, pur più vantaggioso dei precedenti (reali o
teorici), a differenza di quello (teorico) del 1915 escludeva dall'Italia:
Pago, Lesina, Tenin, Dernis e l'entroterra fino alla solide alpi Dinariche;
esso non poteva essere per costituzione quel definitivo e solido confine
italo-iugoslavo più volte cercato ed attorno ad esso vi furono ovviamente
enormi tensioni. In Italia solo i Dalmati (non tutti peraltro[1]) lo vissero come un'ulteriore redenzione che potesse
risolvere il problema adriatico sotto ogni punto di vista; l'azione politica e
culturale italiana (si pensi alle leggi del 1929) riprese da qui. La Dalmazia
italiana costituita amministrativamente in una regione si divideva quindi in
tre province: Zara (capoluogo), Spalato e Cattaro.
Tutto ciò avvenne dopo che la Dalmazia era stata per
oltre vent'anni (quasi interamente) iugoslava con una lunghissima serie di
attriti tra le due popolazioni e tra i due governi, come il pestaggio del
comandante Toselli a Sussak[1], il pestaggio dell'ispettore scolastico di Dalmazia
Doimo Radovani, istriano di San Dorligo in Valle, e soprattutto lo scempio
commesso dagli Slavi a danno delle vestigia venete (inutile e barbaro
scalpellamento dei "leoni di Traù" nel 1932 con sucessivo infuocato
discorso di Mussolini). Il vilipendio alle vestigia veneziane, cominciato nel
1932, si esaurì solo nel 1953[1]. Nei difficili anni di Iugoslavia gli Italiani si erano
arroccati nelle proprie associazioni culturali; le principali erano: Gabinetto
di lettura, Società di beneficenza, Biblioteca popolare, Società corale, Unione
cooperativa, Società operaia di mutuo soccorso a Spalato, Società del casino,
Società di beneficenza a Sebenico con sede nella Casa degli Italiani, Unione
italiana a Ragusa, Circolo culturale a Veglia[1] (quasi tutte queste associazioni erano di periodo
austriaco e proseguivano la propria difficile battaglia culturale). A Spalato
nel 1927 alla Società operaia di mutuo soccorso e al Gabinetto di lettura fu
impedito l'uso della lingua italiana. La Società operaia era nata come circolo
socialista (fondato nel 1872 su stimoli che giungevano dai gruppi socialisti di
Trieste), ma ben presto divenne patrimonio di tutti gli Italiani di Spalato. A
stento la Lega nazionale tramite la Lega culturale italiana gestiva, dal 1927,
scuole elementari in sette centri: Spalato, Ragusa, Sebenico, Traù, Lesina,
Curzola, Veglia e così tutti gli Italiani isolati e lontani da questi centri
non poterono accedere alla cultura materna se non trasferendosi; le scuole
superiori erano solo a Zara, come si è visto (oltrechè, nel Quarnaro, a Fiume[1]). Dopo il passaggio sotto il Regno
Serbo-croato-sloveno la struttura delle associazioni italiane, coordinate dalla
Lega nazionale, rimase sostanzialmente identica all'anteguerra (come ribadito
dall'articolo 55 degli accordi di Santa Margherita[1]). Pur osteggiate nessuna di queste scuole chiuse
prima del 1943; poterono però essere frequentate quasi esclusivamente dagli
aventi cittadinanza italiana[1] (in continuo calo), quelli con cittadinanza slava
dovevano superare un'infinità di difficoltà burocratiche. Nell'anno scolastico
1925/26 la scuola italiana di Spalato fu frequentata da 147 alunni con
cittadinanza italiana e da 21 con cittadinanza serbo-croato-slovena[1] (per un totale di 168); d'altro canto però, come
asserisce lo storico dalmata Marcocchia, "fino al 1900, e forse anche
oltre, le scuole medie nonostante l'etichetta slava seguitarono ad essere vivo
centro di cultura e di spirito italiano[1]"; lo stesso patriota italiano, dalmata,
Alessandro Dudan[1], aveva frequentato le scuole croate di Spalato[1] (mentre il croato Trumbic quelle italiane). Con
l'avvento degli Iugoslavi le cose per quegli Italiani si erano nuovamente e
duramente aggravate. Il console Umiltà aggiunge, parlando dell'amministrazione
iugoslava in Dalmazia: "I funzionari iugoslavi in Dalmazia sono ancora i
vecchi impiegati austriaci (...) parlano e scrivono tutti perfettamente l'italiano[1]". Nell'anno 1927 le scuole italiane della Lega
nazionale (13 sedi complessive, condiderando i 6 distaccamenti) accoglievano
590 alunni; le collettività maggiori erano quelle di Spalato (157 alunni) e
Veglia (153), la più piccola era quella Sebenico con 11 alunni soltanto. Presso
le scuole superiori di Zara (dove essi si recavano dopo le scuole inferiori)
furono molti i Dalmati che conseguirono il diploma magistrale è ci fu un netto
eccesso di maestri italiani in Dalmazia tanto che da Spalato come da Sebenico
furono inviati ad insegnare nella penisola[1]; ciò ad ulteriore dimostrazione dell'alto livello
culturale storicamente presente in Dalmazia, specialmente tra gli Italiani[1].
Dopo il 18 maggio 1941 con il "nuovo ordine
europeo" tutto il vecchio continente cambiava volto con lo sconvolgimento
dei confini; inoltre, per la prima volta, i mutamenti non avvenivano nemmeno a
guerra conclusa ma a conflitto ancora in corso[1]; tanto aperto che le sorti si capovolgeranno.
In questo clima l'attrito era diventato fortissimo tra i
pochissimi Italiani e l'incorporata massa croata ormai consapevole di sé dopo
vent'anni di regno indipendente (anche se assieme ai Serbi). In questa
contingenza l'Italia aveva operato annessioni territoriali che oggettivamente
risultavano molto più modeste rispetto a quelle operate da nazioni come la
Bulgaria, l'Ungheria e soprattutto la Germania, che arrivava a superare
complessivamente il milione di chilometri quadrati incorporando territori da sè
remotissimi (Leopoli, almeno già austriaca, ed addirittura Varsavia[1], capitale polacca, dove vi sarà la terribile
esperienza del ghetto ebraico). Questi mutamenti avvennero in questi termini
per tre principali fattori: un calato peso dell'Italia presso la Germania, la
volontà tedesca di non voler penalizzare eccessivamente l'alleata Croazia e
forse anche la non eccessiva esosità delle richieste italiane (tale da essere
addirittura criticata da molti Dalmati, come Antonio Vukasina). Bulgaria ed
Ungheria (quest'ultima sul piede di guerra sin dagli accordi di Monaco del
1938) sognavano rispettivamente i tempi della pace di Santo Stefano (1878) e
del Regno d'Ungheria (1867), in cui i propri territori erano ben più ampli,
portando rivendicazioni proporzionalmente vicine a quelle di Hitler che sognava
un nuovo Drach nach osten e la colonizzazione tedesca (col ritorno degli
immigrati nelle Americhe) di mezza Europa orientale[1]. L'Italia di Mussolini, pur complice della Germania,
non portò mai rivendicazioni così esose, rinunciando a mezza Dalmazia con otto
secoli di storia veneta; più a settentrione l'Italia annesse pure il contado di
Fiume (interamente croato) con Sussak e Buccari. Un gesto assolutamente
spropositato da parte dell'Italia fu invece l'annessione di quasi mezza Slovenia,
non annessa alla Germania di Hitler, con capoluogo Lubiana (ribattezzata
Slovenia italiana). In questo momento di repentine e confuse mutazioni
territoriali anche la neonata Croazia, mal accettata la perdita di una grossa
fetta Dalmazia con Spalato, si prodigò ad oriente per annettere quanto
possibile; vi riuscì annettendo in toto Bosnia, Erzegovina e Srimia, arrivando
ad incorporare addirittura i quartieri nord-occidentali di Belgrado. Il diario
personale di Ciano mostra come in un primo momento, secondo accordi segreti,
l'Italia avrebbe dovuto ottenere solamente la Dalmazia di Londra (1915) con in
più la cittadina di Traù[1].
Nel frattempo gli ustascia di Pavelic sterminarono,
assieme ai musulmani di Bosnia, circa 800.000 Serbi (tra cui moltissimi civili)
e diverse migliaia di ebrei, compiendo atrocità inaudite e prefiggendosi la
totale "pulizia etnica" di tutta l'area. Molti ebrei trovarono umano
aiuto presso i militari italiani (oppure entro i nuovi confini d'Italia, come a
Spalato dove vi era una antica comunità ebraica di lontana origine iberica), i
quali pure dovevano trasgredire le leggi razziali del 1938. Sino al 1943 anche
la "zona di influenza" italiana (ovvero la fascia più occidentale
della Croazia) fu relativamente sicura per gli ebrei, mentre era per loro
impossibile sfuggire nella zona di influenza tedesca dove si svolgeva
un'accanita caccia all'uomo da parte delle congiunte forze tedesche e croate (è
difficile dire chi nella tal opera fosse più bestiale). Giovanni Palatucci[1], funzionario della questura di Fiume, fu deportato
dai Tedeschi a Dachau nel settembre del 1944 per aver permesso la fuga di
moltissimi dei 1500 ebrei della città dopo la creazione del Litorale Tedesco
(un nuovo Kustenland di chiara memoria asburgica) nel 1943 (essi erano rimasti
nelle loro case malgrado le leggi del 1938); Palatucci morì assieme a molti di
quegli stessi ebrei che aveva generosamente aiutato. La città di Tel Aviv ha
dedicato una via all'eroico funzionario di Fiume[1]. Gli ebrei dell'area furono grati del coraggio e
della generosità che molti Italiani profusero per la loro salvezza (ciò è stato
onestamente riconosciuto dalle autorità ebraiche).
A proposito degli eccidi degli ustascia è probabile che i
mussulmani (già altrove occupati per la pulizia etnica[1]) nei piani di Pavelic sarebbero stati
"lasciati" per ultimi, usandoli prima per costruire la sempre sognata
grande Croazia (sognata sin dai lontani tempi di Starcevic).
Malgrado questo inedito confine italo-croato, durante la
guerra vi furono volontari dalmati nell'esercito italiano provenienti dalle più
remote aree e dai più lontani villaggi come Signo, Carlopago, Gese, Tenin o
Sabbioncello[1] (paese), tutti passati alla Croazia, dove gli
Italiani (o almeno coloro che ancora avevano la forza ed il coraggio di
definirsi tali) erano ridotti a qualche sparuto nucleo familiare. A Gese si
evidenziò un'altra menzogna dei censimenti austriaci non essendo stati
segnalati Italiani gia dal 1910. Addirittura Carlopago, sito sulla costa liburnica
di fronte all'isola di Pago, era un villaggio di pescatori mai nemmeno
incorporato dalla Repubblica Veneta ma sempre appartenuto insieme a Fiume
all'Ungheria. A Zara, dove vivevano molti Dalmati originari di zone ancora
escluse da quest'ultima "redenzione" (come soprattutto Ragusa), molti
chiesero con una raccolta di firme l'annessione di tutta la Dalmazia
all'Italia, da Veglia alla Boiana come si usava dire; essa fu tra gli altri
richiesta da Antonio Vukasina poi perito in combattimento contro i partigiani
Slavi a Gazalesi[1] (sito tra Zara e Sebenico, presso il paese di
Vodizze) e decorato con la medaglia d'oro al valor militare. In un sol giorno,
dopo lo scoppio della guerra con la Iugoslavia, 39 universitari di Zara su 41
si arruolarono volontari. La famiglia, Vukasina inurbatasi a Zara ma originaria
di Torrette, dimostrava un'ennesimo errore austriaco che nel 1880 avevano
estinto d'ufficio la comunità italiana del paese.
Molti Dalmati furono impiegati sul fronte balcanico per la loro
conoscenza specifica del territorio e delle genti (in quest'area perirono in 30
fino all'8 settembre 1943); molti Dalmati sudditi o ex sudditi del Regno
iugoslavo avevano pure appreso la lingua serbo-croata ed erano utilissimi
interpreti.
Il tutto fu goffamente esasperato da taluni agitatori del
gruppo fascista di Zara, che a Spalato ebbero vivo appoggio dal cavalier
Castulovich, i quali favorirono l'arrivo nella Dalmazia annessa di diverse
camicie nere dall'Italia, specie dalla focosa Emilia, le quali nulla sapevano
di Dalmazia; ciò fece precipitare le cose con inutili pestaggi a Spalato,
Sebenico e
Traù a danno di Slavi ed anti fascisti. Spalato risultava poi, in virtù del nuovo
confine, ad una decina di chilometri dalla Croazia e l'infiltrazione in città
di partigiani slavi risultava tutt'altro che impossibile (specie dal tardo 1942
in avanti).
La condotta da tenersi nel gestire le comunità italiane
non fu mai univoca ed al loro interno, fin dagli anni trenta, vi furono
continue ed improduttive spaccature a Ragusa come a Spalato (dove taluni si schierarono
per l'energico cavalier Castulovich ed altri per il più mite senatore Tacconi,
pur entrambi aderenti al fascismo). A Spalato era accusatato di oligarchia il
gruppo delle famiglie Tacconi, Pezzoli e Savo che difatti, sin dal tempo degli
Austriaci, controllavano la città e le sue attività, soprattutto relativamente
alla comunità
italiana[1]. Nel 1930 le più numerose comunità italiane erano
quelle di Spalato (dove ormai solamente 1.309 persone erano riuscite a
mantenere la cittadinanza italiana) seguita da quelle di Veglia (759) e Ragusa
(503)[1], che malgrado ciò nel 1941 non fu annessa all'Italia.
Nello stesso 1930 la Dalmazia, ribattezzata Primorje (ovvero litorale), venne
scorporata in tre parti ed amministrata tramite tre banati (unità
amministrativa di origine turca): Sava (Veglia, Arbe, Pago, costa liburnica),
Primorje (quasi tutta la Dalmazia, sino alla Narenta) e Zeta, ovvero Montenegro
(tutto ciò a sud della Narenta con Curzola e Sabbioncello); tutto ciò fu sempre
fatto con la finalità di cancellare e sminuire ciò che alle zelanti autorità
non risultasse slavo.
In realtà la lunga lotta politica degli Italiani di
Dalmazia era conclusa e persa. Si arrivò quindi alla sua tragedia definitiva
dopo l'8 settembre 1943[1], con il reale controllo tedesco della regione che
scalzò quello italiano. In questo scenario vi furono le uccisioni slave di
centinaia di italiani a Traù, Sebenico, Spalato (250 fucilati con il martirio
dell'insigne studioso Giovanni Soglian di Lesina, provveditore agli studi di
Spalato); vi fu l'immane tragedia delle foibe (tra i 16.000 ed i 20.000, o
forse più civili inermi eliminati complessivamente dagli Slavi, quantificati e
documentati dagli storici Pirina[1] e Papo[1]), il calvario di Zara distrutta da 54 bombardamenti
"alleati" tra il 2 novembre 1943 ed il 30 ottobre 1944 (4.000 morti
sotto le macerie ovvero tra il 16% ed il 17% della popolazione residente) e
l'esodo degli Italiani superstiti accompagnati dal prefetto di Zara Vincenzo
Serrentino, siciliano di nascita ma zaratino d'adozione, ucciso poi a Sebenico
nel 1946 dagli Iugoslavi dopo essere stato prelevato a Trieste con
l'inganno. Serrentino, ultimo prefetto
italiano di Zara, rimase sino all'ultimo in città assistendo al graduale esodo
della popolazione avvenuto sotto le bombe americane e sotto la vicina minaccia
slava; l'esodo con meta Trieste fu condotto in condizioni disperate e fu svolto
soprattutto
tramite la nave Sansego (nome di una piccola isola dalmata vicino a Lussino).
Serrentino lasciò Zara il 30 ottobre 1944; solo il suo lontano paese di nascita
lo ricorda con una lapide, in Sicilia.
Solo ora si torna a parlare delle foibe dove molti
trovarono la morte in quanto italiani e non
per le proprie idee politiche; esse furono un chiaro esempio di pulizia
etnica. In questi frangenti (1943-45), con l'Italia alla mercè tedesca, i
Dalmati di Zara, ultimo effettivo baluardo italiano in Dalmazia dopo il
settembre del 1943, dovettero temere sia gli ustascia croati (che volevano la
città, promessa a Pavelic da Hitler assieme a tutta la regione), sia i
comunisti di Tito (in dura lotta, anche, col fascismo italiano) e sia i
Tedeschi non più fiduciosi nell'Italia e negli Italiani (se mai lo erano stati);
fino al 31 ottobre 1944 il questore croato di Zara unilateralmente investito a
Zagabria dovette fermarsi con gli ustascia fuori città, nel villaggio di Zemonico, senza
riuscire ad entrarvi. In quest'ottica il valore dell'ultimo prefetto italiano
di Zara, Vincenzo Serrentino, assurge a livelli di eroismo per dedizione al
proprio dovere. Ovunque si colpirono i simboli dell'Italia: militari, autorità
pubbliche, insegnanti, cittadini benemeriti, industriali; a Zara si infierì
vilmente sulla famiglia Luxardo, nota per l'omonima fabbrica di liquori, con il
calvario di Nicolò Luxardo (volontario alla Grande Guerra, pluridecorato e
senatore del Regno d'Italia) legato vivo alla moglie Bianca Ronzoni e gettato
in mare presso l'isola di Ugliano il 30 settembre del 1944[1]; i Luxardo erano una delle famiglie più in vista a
Zara dove erano giunti a commerciare dalla lontana Liguria nel 1721, restandovi.
Furono 2.000 gli uccisi dagli Slavi
solo a Zara che già aveva perso 330 giovani sui vari fronti europei.
Coerentemente a Spalato, oltre ad i già citati morti ed al pure citato Giovanni
Soglian, continuatore degli studi dalmatici di Matteo Bartoli, perì anche
Ruggero Tommaseo-Ponzetta direttore del quotidiano italiano locale, oltre al
vice questore ed a cinquantatrè agenti di pubblica sicurezza; la città
dell'imperatore Diocleziano fu inoltre vilipesa da bombardamenti tedeschi (300
morti sotto le macerie, sia italiani sia croati) I Tedeschi fucilarono pure 5
alti militari Italiani fedeli al re che si erano rifiutati di obbedir loro.
Addirittura a Clissa, non lontano da Spalato, Italiani fedeli ai Tedeschi ed
Italiani alleati ai comunisti si scontrarono duramente a fuoco. Situazioni
analoghe accaddero, in proporzioni minori, nel resto della Dalmazia (Veglia,
Traù, Sebenico, Cattaro, Curzola).
I Croati avevano visto aumentare per l'ennesima volta, se
possibile, il loro odio contro gli Italiani durante l'occupazione del 1941 e la
fine del Governatorato italiano di Dalmazia nel 1943 (il governatore era stato
Bastianini) fu l'attesa occasione per sfogarlo in modo vendicativo. Molte
giustizie sommarie si compirono, anche per motivi futili o personali, come
altrove.
Dopo l'8 settembre 1943 Venezia Tridentina (dal 1972
Trentino-Alto Adige/Sud Tirol) e Bellunese da una parte, Friuli e Venezia
Giulia con le isole più settentrionali della Dalmazia dall'altra costituirono le
due zone d'operazione militare tedesca Alpina ed Adriatica (ribattezzata
Adriatische Kustenland). La prima comprendeva le provincie di Trento, Bolzano e
Belluno, mentre quella adriatica comprendeva le provincie di Trieste, Gorizia,
Pola, Fiume, Udine[1] con quella di Lubiana (nei limiti stabiliti nel
1941). In questo periodo (dopo il 1941) Veglia ed Arbe dipendevano da Fiume,
Cherso e Lussino (già dal 1920) da Pola. Questi territori furono praticamente
annessi alla Germania ed a Trieste (sede di questo "nuovo"
Kustenland) si installò l'austriaco Reiner, fanaticamente anti italiano e
voglioso di riportare in queste zone la mai sopita influenza austriaca pur
all'interno del Reich germanico[1]; in questo contesto in uno scontro a fuoco presso
Gorizia tra giovani volontari italiani della RSI e Tedeschi che volevano che si ammainasse
il tricolore, perì, tra gli altri, il diciannovenne volontario spalatino Doimo
Draghicevich[1]. Questi duri attriti tra Italiani che difendevano i
confini orientali dietro precisi ordini di Mussolini e Tedeschi favorirono gli
Slavi che, quasi increduli, ne trassero enormi vantaggi militari. In Dalmazia
Italiani, titini, Tedeschi, domobranzi sloveni, cetnici serbi, ed ustascia
sembrarono combattere sei differenti guerre, tutti contro tutti.
Si arrivò alla totale e fisica cancellazione di Zara con
la quale tutti (alleati, titini, ustascia) pensarono di risolvere
definitivamente anche il problema politico della sua sucessiva collocazione
(fondamentalmente con l'estromissione dell'Italia e con l'eliminazione fisica
degli Italiani); il capoluogo dalmata vide raso al suolo tra il 70% e l' 80%
delle proprie case (essendo stati sganciati sul centro storico oltre 60
chilogrammi di esplosivo a chilometro quadrato) con in più, anche se è crudo
dirlo, un irreparabile danno all'enorme patrimonio artistico. Nel frattempo la
città di Zara, caso unico, vedeva ben otto dei propri figli insigniti della
medaglia d'oro al valor militare, in realtà quattro di questi zaratini erano
originari di altre parti della Dalmazia (Castelnuovo di Cattaro, Selve,
Gravosa, Pago) che veniva quindi interamente rappresentata (anche se uno era
d'origine triestina ed uno barese). Essi furono: Antonio Danieli[1], Furio Lauri[1], Giuseppe Maras[1], Luigi Missoni[1], Adolfo Rebez[1], Angelo Ricapito[1], Romeo Romei[1], Antonio Vukasina[1]. Si pensi che sia Gravosa[1] sia Pago non erano nemmeno state annesse all'Italia
nel 1941 (Gravosa non era inclusa nemmeno dal patto di Londra). Sia Rebez sia
Lauri, prima della medaglia d'oro, erano già stati decorato ben quattro volte
con svariate medaglie, Romei due volte. La medaglia d'oro al valor militare
alla memoria di Romeo Romei, proveniente dalle bocche di Cattaro, dà pretesto
ad alcune recenti considerazioni fatte dal senatore Lucio Toth di Zara
presidente dell'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (associazione
che raccoglie la cosidetta diaspora adriatica), il quale, commentando la
ricorrenza del noto giuramento di Perasto, così si è espresso recentemente:
"Ma forse queste sono solo parole portate via dal vento e dal mare. Eppure
ancora cinquant'anni fa quanti marinai e quanti ufficiali, volontari dalle
bocche di Cattaro, sono caduti sulle nostre navi con la stessa devozione e con
lo stesso coraggio di due secoli fa"[1].
Ad Antonio Vukasina (zaratino e dalmata autentico con padre di Torrette,
presso Zaravecchia, e madre di Lussinpiccolo) è stata recentemente conferita la
laurea honoris causa in ingegneria mineraria [1]
dall'Università di Bologna (gli studi li aveva interrotti proprio per partire
volontario per il fronte). Per quanto riguarda Danieli, diciottenne di Pago,
zaratino d'adozione e partigiano, val la pena di leggere la motivazione della
medaglia d'oro: "Partigiano diciottenne si batteva valorosamente in
montagna e pianura senza mai risparmiarsi e sempre primo ove ferveva la lotta.
Partecipava a numerosi ed audaci colpi di mano e ad ardite azioni di
sabotaggio, di esempio ai compagni per ardore combattivo e per supremo sprezzo
del pericolo. Offertosi volontario per compiere una rischiosa missione in una zona
controllata dal nemico, veniva catturato e sottoposto ad inumane sevizie perché
denunciasse i nomi dei compagni di lotta. Le giovani carni furono dilaniate e
bruciate con tizzi ardenti, i suoi occhi furono strappati col freddo acciaio
delle baionette, ma dalla sua bocca non uscì che la sola invocazione per la
Patria amata ed al grido di viva l'Italia offrì il sacrificio della sua giovane
esistenza". Il giovane Danieli perì, sulle alture del Veneto dove si era
recato per combattere la guerriglia partigiana, per il proprio ideale di
giustizia. Su 3.700 complessivi militari Zaratini e Dalmati vi furono inoltre
115 croci militari, 52 medaglie di bronzo e 42 d'argento, mentre il governo
italiano nel dopoguerra non ha assegnato nessun riconoscimento alla città di
Zara (mentre sia la città di Trieste sia quella di Gorizia hanno, giustamente,
ottenuto la medaglia d'oro al valor militare). Altri due giovani dalmati che si
segnalarono per il loro indomito coraggio nell'esercito italiano e poi nella Repubblica
Sociale furono lo spalatino Francesco Vigjak[1] e lo zaratino Giuseppe Mazzoni, quest'ultimo morto
suicida in Valtellina il giorno dell'armistizio[1]; egli era consapevole che non aveva perso solo la
guerra, ma la sua terra. Mazzoni fu poi fraternamente ricordato sia da
Albertazzi[1], sia da Mazzantini[1], sia da Rimanelli[1]. Sulla figura di Mazzoni fu anche girato un film,
intitolato come il libro di Rimanelli: "Tiro al piccione". Così il
noto Giorgio Albertazzi parlerà davanti al Tribunale militare al quale fu
rimandato dopo la fine della guerra e della RSI citando l'amico Giuseppe
Mazzoni, per tutti Pino Mazzoni: "Io non ero stato capace di spararmi in
testa come aveva fatto il 25 aprile 1945 il mio collega tenente Giuseppe
Mazzoni, che consideravo un eroe; in quel momento avevo capito che il mio
fascismo non era il suo, che era fede e dedizione totale, mentre il mio era
solo una scelta di campo[1]".
Da questi dati si può desumere come tutte le medaglie
assegnate nell'esercito italiano dopo il settembre 1943 andassero ad esponenti
partigiani; in realtà un'altissima percentuale di giovani dalmati proseguì la
guerra nelle file della RSI e si mise in mostra in maniera non inferiore e non
meno eroica. Questa spaccatura che tagliava in due l'Italia investì
inevitabilmente anche la Dalmazia, anche se è corretto dire che i partigiani
italiani di Dalmazia erano quasi tutti monarchici, cattolici, antitedeschi ma
mai filo slavi perchè ciò avrebbe significato perdere ogni cosa, prova ne sia
Luigi Missoni (cattolico e monarchico, parente dello stilista Ottavio), uomo di
cultura e scrittore[1], che arrestato dai fascisti e condannato a morte fu
risparmiato dall'esecuzione per precedenti altissimi meriti di guerra (medaglia
d'oro e perdita di un braccio in battaglia). Luigi Missoni sarebbe morto nel
dicembre del 1944 nel carcere di Reggio Emilia sotto le bombe degli Inglesi[1]. Altri Dalmati decorati al valor militatre (molti di
loro alla memoria) con medaglie d'argento e di bronzo, escludendo i numerosi
nativi di Zara, furono: U.Bonacci, Brandiele, Savo, Liberti, Passagnoli,
Papucia, Pavissich, Seveglievich e Zolli da Spalato, De Denaro, Traini e
A.Galzigna da Sebenico, N.Lubin e Canzia da Traù, Sorich da Metcovich,
Robblegg, Bernardis e Stolfa da Veglia (due da Veglia paese ed uno da San
Martino di Veglia), Gazzari e Trevisan da Tenin, Aini da Ragusa, Arcarisi da
Scardona, Makaus da Arbe (paese), Bucci, Fabiani e Illich da Lesina (due da
Lesina paese eu uno da Cittavecchia di Lesina), Chersi, Rendi e P.Valles da
Brazza (due da San Giovanni della Brazza ed uno da San Pietro della Brazza),
Frezza e Luchich-Rocchi da Lissa (paese), Haggia da Sabbioncello (paese),
M.Bonacci da Signo, S.Galzigna da Ragusavecchia, Sabalich da Pago (paese),
Zorzenon da Cattaro, oltre a Zanninovich e Pavlicevich Dalmati il cui luogo di
nascita non è noto[1]; ancora una volta la Dalmazia era interamente
rappresentata, entroterra incluso (Scardona, Tenin, Signo, Metcovich). Ad onor
del vero molti di questri militari italiani si erano inurbati a Zara da anni,
altri a Trieste, Pola o Fiume. Gli zaratini di nascita invece furono: D.Barich,
C.Barich, Barisich, Bressi-Bellini, Carvin, Cronia, Florean, Manganelli,
Ostrowsky, Paganello, Perlini, Rossi-Sabatini, Stercal, M.Tacconi, O.Talpo,
R.Valles, Vidaich, Battesin, Gherdovic, Ghirin, Gorini, Grancich, Matulich,
Mirossevich, Pontelli, Vidoli, Dal Mas, Marsan, Perini-Bembo, Svircich, Teja
oltre Cocetti proveniente dalla frazione di Borgo Erizzo[1]; molti di essi perierono in guerra e furono decorati alla
memoria, alcuni furono addirittura pluridecorati.
Come nel secondo Ottocento ci si scontrò duramente anche
tra parenti, come testimoniato in una lettera a "Il Giornale" nel
1991[1] inviata da Ottaviano Abaza di Spalato (esule a
Firenze) che ricorda quando suo cugino, croato di Traù, cercò di assassinarlo;
Abaza vide il cruento massacro del padre e dello zio da parte dei titini ed
abbandonò repentinamente e disordinatamente tutti gli ingenti averi (casa e negozio)
sparsi tra Spalato e Traù.
Nel 1947 a Parigi l'Italia fu completamente estromessa
dalla Dalmazia[1] come dall'Istria, eccetto Muggia e San Dorligo della
Valle (con una superficie di 38 chilometri quadrati, su circa 3.600
complessivi, cioè circa l'1%, e con circa 20.000 abitanti attuali),
ufficializzando il dato di fatto già creatosi; la Venezia Giulia (alla quale
era inoltre unita la piccolissima provincia dalmata di Zara) fu ridotta al 14%
del suo territorio anteguerra, mutilando persino i comuni di Trieste e Gorizia.
Invero lo stesso abitato cittadino di Gorizia fu privato dei propri quartieri
orientali con la stazione ferroviaria, divenuti l'inedita città di
Nova Gorica, attuale capoluogo di provincia sloveno con originale sigla GO;
l'attuale sindaco di siffatta città si chiama Spazzapan (ed è pure lui di
chiara ascendenza italiana). Tra le due "Gorizia" un grigio muro di
berlinese memoria segna attuttora il confine, mentre sino a qualche anno fa la
scritta "W Tito", posta su un'altura dietro Gorizia Est (Nova
Gorica), era perfettamente visibile da Gorizia Ovest (Gorizia). Tre capoluoghi
di provincia italiani passarono così alla Iugoslavia (Pola, Fiume, Zara); tutto
ciò ovviamente senza considerare le annessioni italiane del 1941 con i
capoluoghi di provincia di Spalato e Cattaro. Oltre ciò le annessioni italiane
assurdamente arrivarono, come si è detto, a comprendere la città e la zona di
Lubiana (ribattezzata "Slovenia Italiana"), divenuta provincia
italiana ed un ampliamento a nord del capoluogo della provincia di Fiume
(ribattezzata Provincia del Quarnaro così come Pola fu ribattezzata Provincia
dell'Istria[1]); questi territori ovviamente tornarono immediatamente
alla Iugoslavia con l'arrivo (e la sucessiva "liberazione") delle
truppe comuniste di Tito invalidando tutti i trattati siglati a guerra in
corso.
Churchill, giudicando le mosse militari di Tito, aveva
sempre sostenuto che il possesso di una cosa equivalesse al novanta per cento
del diritto di averla e anche in questo caso dimostrò di avere ragione.
XI - L'esodo
Gli eventi bellici ed il sucessivo trattato di pace di
Parigi del 1947[1] portarono alla fuga la gran parte degli Italiani di
tre intere province (Pola, Fiume e Zara) e degli Italiani di due parziali
provincie (Trieste e Gorizia). In realtà nei territori delle provincie di
Gorizia e Trieste passati alla
Iugoslavia di Italiani ve ne erano pochissimi. Probabilmante l'Italia con De
Gasperi non chiese il plebiscito in Istria per non perdere l'Alto Adige
(storicamente molto lontano dalla storia d'Italia a differenza dell'Istria). La
Dalmazia invece risultava ormai persa, essendo stati invalidati tutti gli
accordi siglati a guerra in corso (con la relativa annessione all'Italia
dell'18 maggio 1941) e risultando Zara troppo isolata e sola. De Gasperi si
illuse della possibilità di dare a Zara e Fiume uno statuto di carattere
autonomo; ciò toccò (fino ad un certo punto) a Trieste ambìto sia da Tito che
dagli Anglo-americani e sospeso, in bilico tra occidente ed oriente. Fu così
provvisoriamente creato il Teritorio Libero di Trieste (714 chilometri quadrati con 362.000 abitanti; in
esso fu ufficialmente introdotto il trilinguismo italo-sloveno-croato); esso
nel 1954 fu amministrativamente diviso tra Italia (zona A con il capoluogo) e
Iugoslavia (zona B con l'aggiunta di una strategica striscia di terra della
zona A). Solo nel 1975 l'Italia rinunciò al proprio diritto sulla zona B,
ulteriormente scorporata tra Slovenia e Croazia. In realtà gia dal 1947 si era
insediata nella zona B un'amministrazione slava (che tra l'altro in quegli anni
istituì il confine croato-sloveno della Dragogna). In Europa solo alla Bulgaria
fu riconosciuta l'annessione della Dobrugia meridionale avvenuta a conflitto in
corso a danno della Romania (la regione effettivamente è etnicamente a
maggioranza bulgara).
In realtà il nuovo confine italo-iugoslavo maturò dalla
mediazione delle proposte italiane (riprendendo la linea Wilson II[1]; che ambiva cedere solo una sottile fascia orientale
della Venezia Giulia con Fiume, ed ovviamente Zara, entro la quale migliaia di
Slavi sarebbero rimasti; essa inseguiva l'ormai anacronistica idea del solido
confine militare alpino, lontanissimo da quello etnico), inglese ed americana[1] (similissime; che lasciavano all'Italia tutta
l'Istria orientale con Pola ed a settentrione, ovvero a nord di Trieste, un
confine quasi identico all'attuale), russa[1] ed iugoslava[1] (similissime; che assegnavano alla Iugoslavia
Trieste, Gorizia, Monfalcone ed il Friuli orientale), francese (assai
ingenerosa; assegnava all'Italia il confine attuale con in più la zona B e
parve a lungo poter essere il confine definitivo da realizzarsi dopo lo
scioglimento della questione circa l'assegnazione di Trieste); va segnalata
inoltre la linea proposta dal Partito Comunista Italiano (che fu quella che
avanzava più di tutte il confine italo-iugoslavo verso occidente, essa fu più
dura delle stesse richieste iugoslave): essa assegnava alla Iugoslavia, come
abbondantemente propagandato durante gli ultimi mesi di guerra, il confine al
fiume Tagliamento[1]. Da parte di Togliatti, capo del PCI, appoggiare una
simile linea era stato un chiaro gesto politico nei confronti non solo nella
Iugoslavia quanto dell'Unione Sovietica, nella quale egli vedeva un punto di
riferimento per l'Italia intera. La più "generosa" verso l'Italia di
tutte queste fredde "linee" era quella statunitense che ormai vedeva
l'Italia entrare entro la propria sfea d'influenza.
De Gasperi relativamente a Fiume invitò alla conferenza
il noto autonomista fiumano Riccardo Zanella (oramai ultrasettantenne), il
quale sostenne con fermissima decisione la legittimita del governo
autonomo nato in seguito agli accordi di Rapallo del dicembre 1920; Zanella
(che aveva passato la guerra prima in prigione e poi nelle file più miti e
democratiche della resistenza) difese le propie tesi con impegno probissimo
supportato da ampia documentazione ma il consesso parigino aveva già deciso
inappellabilmente il destino della città di San Vito e di tutta la Dalmazia.
Riccardo Zanella morirà a Roma, solo, senza sostanze e dimenticato da tutti,
pure dai suoi stessi concittadini numerosi nella capitale d'Italia, il 30 marzo
1930.
Quest'esodo frenetico si svolse in maniera disordinata,
dilazionata in base agli eventi bellici ed all'arrivo delle truppe slave,
colpendo Zara e gli altri centri dalmati (dove gli Italiani erano pochissime
migliaia) già nel settembre del 1943 (Spalato, Veglia) e poi (Zara) nel 1944,
sucessivamente colpendo Fiume, indicativamente tra il 1944 ed (in minor parte)
il 1946 e poi l'Istria tra il 1946 e (soprattutto Pola) il 1947. A Zara la
situazione per molte famiglie risultò al limite dell'incredibile dovendo
affrontare un secondo esodo a distanza di due decenni dal primo; molti zaratini
infatti erano originari di altre città dalmate e già negli anni venti avevano
affrontato un primo esodo che allora era stato sostanzialmente incruento a
differenza del secondo che si svolgeva sotto le bombe degli slavo-comunisti. Si
noti che ad esodo già abbondantemente in corso e sotto piena occupazione titina
a Fiume nel settembre 1945 si iscrissero per l'anno scolastico 1945/1946 5.844
bambini, di essi malgrado le durissime forzature degli occupanti (e prossimi
padroni anche
giuridicamente) ben 5.426 si iscrissero alle mal tollerate scuole italiane e
solo 418 a quelle croate appena inaugurate[1]. Queste classi italiane videro poi, giorno dopo
giorno, il repentino calo numerico degli studenti tosto sostituiti da Croati
provenienti da altre regioni; oggi le pochissime classi italiane di Fiume
alloggiano in un fatiscente edificio[1], già sede della civica biblioteca, senza che il
governo italiano conceda quel minimo di fondi loro necessari a sopravvivere. Il
giornale italiano di Fiume "La Voce del Popolo" (il cui attuale
direttore è Ezio Mestrovich) fu per anni l'organo di controllo di Tito sulla
comunità ma oggi sotto Tudjman esso rischia di chiudere definitivamente. A
lungo a Capoditria vi è stata una emittente televisiva in lingua italiana.
L'atto conclusivo di questo esodo, indipendentemente dalla continua lenta
emarragia, si è compiuto nell'Istria settentrionale, dove i moltissimi rimasti
nella Zona B (con capoluogo Capodistria) dopo gli accordi parigini del febbraio
1947 lasciarono le proprie case definitivamente nel 1954. Si noti che a sud di
Capodistria stavano quei 4 comuni che al censimento austriaco del 1910
risultavano italiani al 100% e cioè: Buie, Cittanova, Umago, Pirano[1] (campagne quindi incluse). Complessivamente l'esodo
istriano-dalmata ha colpito circa il 90% degli Italiani di quelle terre (dati
ottenuti dall'elaborazione dei censimenti italiani prima ed iugoslavi poi).
Ora sono stimati tra i 30.000 ed i 50.000 gli Italiani
rimasti sotto la Dragogna (discusso confine sloveno-croato) nella neonata
Repubblica Croata; solo poco più di 3.000 quelli rimasti attorno a Capodistria
nella Repubblica Slovena[1]. da ciò si desume come gli Italiani in Croazia
possano tranquillamente essere valutati attorno all'1% della popolazione totale
(solo lo 0,2% in Slovenia); la comunità croata del Molise (3.000 anime colà da
secoli, ormai) permette all'Italia di aprire con la Croazia un tavolo bilaterale
su basi di reciprocità. Reciprocità vi è pure ovviamente con la Slovenia,
essendo diverse migliaia gli Sloveni in Italia, paradossalmente molti di più di
quanti siano gli Italiani in Slovenia (attualmente). Come si è detto, l'esodo
degli Italiani fu un fenomeno principalmente istriano, più che dalmata, ma certo
non vanno ignorati gli avvenimenti accaduti nelle terre a sud dell'Istria.
Complessivamente, secondo i conteggi dal dalmata lussignano (di Neresine) don
Flaminio Rocchi (il cui cognome, prima della legge sui cognomi del 1929, era
Rochich Soccolich, probabilmente modificato una prima volta dagli Austriaci),
esso interessò 350.000-360.000 persone, alle quali vanno aggiunti 10.000 Slavi
giunti al seguito degli Italiani (si trattava di istriani, cioè tutto sommato
italo-slavi in quanto ex sudditi veneziani ed ex sudditi del Regno d'Italia).
Fu a tal punto impossibile rimanere per gli Italiani che anche gli esponenti
del clero abbandonarono le loro terre pur essendo il messaggio evangelico
tutt'altro che nazionale e tutt'altro che politico. Così 3 vescovi, seguiti da oltre 200 preti, 15 intere comunità di
frati e 20 comunità di suore fuggirono in Italia. Tra i tanti religiosi
coinvolti nell'esodo spicca il ricordo di monsignor Santin, vescovo di
Capodistria, che combattè duramente per l'italianità della sua terra; si
distinse poi a lungo nel portare ristoro agli esuli che giungevano a Trieste
spogli di ogni avere. Alcuni di questi religiosi finirono in foiba ed è in
corso la pratica di beatificazione per alcuni di loro, si ricorda, tra i tanti
preti assassinati, don Francesco Bonifacio di Pirano ucciso, come molti, a
guerra finita nel settembre del 1946 e del quale non si recuperò nemmeno la
salma. Pure don Antonio Stefani di Zara si mise in luce durante l'esodo per
coraggio ed umanità andando poi esule a
Firenze, dove si è recentemente spento, si mise in luce anche nei tragici
momenti dell'alluvione.
Il fenomeno delle foibe ebbe fu il tragico culmine per
gli Italiani di quelle terre e non lasciò possibilità di rimanere. Esso ebbe
l'apice nei giorni subito sucessivi alla calata degli slavo-comunisti in Istria
e Trieste (2 maggio 1945). A Trieste rimasero 40 lunghissimi giorni, in Istria
rimasero praticamente fino a pochi anni fa; agli occhi di molti Italiani di
quelle terre l'avvento di quelle truppe irregolari e sanguinarie aveva il
sapore antico delle popolazioni barbare stanziate oltre le famigliari Alpi (molti venivano da terre molto remote come la
Macedonia, dove i costumi ricordano quelli degli atavici nemici turchi). Quasi
sempre l'arrivo in paese di truppe tedesche, sul finire della guerra, era accolto
con un sospiro di sollievo essendo esse tutto sommato portatrici di ordine.
Queste inaudite violenze giunsero oltre che nelle città
di Gorizia e Trieste anche in provincia di Udine dove perirono così, moltissimi
nelle foibe, circa 1.000 civili. L'Istria tutta è ora disseminata di foibe
sulla sommità delle quali spesso non una croce ricorda. Solo la foiba di
Basovizza, l'unica rimasta in territorio d'Italia[1], porta una croce molte volte dimenticata dalla classe
politica italiana (l'ultimo decennio ha visto le visite dei presidenti Cossiga
e Scalfaro). La foiba di Basovizza, monumento nazionale italiano, è stata
recentemente violata e vilipesa da elementi slavi impunemente giunti da oltre
confine.
Una piccola comunità di Italiani (specialmente da
Monfalcone) credendo sinceramente nel regime comunista si recò in Iugoslavia[1] (dando vita al così detto contro-esodo) ma di loro in
breve molti tornarono delusi.
Ai comunisti italiani, per volere di Togliatti, era stato detto di
accettare "le legittime richieste iugoslave" (in termini di confini[1]); in realta molti di loro non conoscevano la
situazione istro-dalmata[1]. In realtà i rapporti tra Italiani e Slavi in quegli
anni furono condizionati da due importanti fattori, da un lato il messaggio
universale del comunismo doveva unire le due popolazioni, mentre i rancori
consolidatisi nei decenni precedenti erano invalicabili. In Dalmazia (escluse
le isole di Cherso e Lussino, aggregate alla provincia di Pola) l'esodo
cominciò dopo l'8 settembre del 1943 data alla quale cessò di esistere il
Governatorato Italiano Generale di Dalmazia. Con l'annessione italiana della
Dalmazia nel 1941 vi era inoltre stato un ulteriore ed ennesimo movimento di
persone (non moltissime in realtà) da quelle terre nuovamente escluse
dall'annessione (Ragusa, Pago, Lesina) entro i nuovi confini Italiani. Un altro
non indifferente movimento di persone aveva visto il ritorno di alcune migliaia
di dalmati Italiani dalle regioni d'Italia in cui erano fuggiti negli anni
venti (od ancora prima dell Prima Guerra Mondiale), uno di coloro che tornarono
fu proprio Giovanni Soglian di Lesina, che si recò a Spalato in qualità di
provveditore agli studi. Con immenso dolore constatò che la sua Lesina rimase
però alla Croazia; a Spalato verrà poi fucilato dagli slavo-comunisti nel
settembre del 1943. Gli Italiani di Dalmazia fuggirono sostanzialmente dai
centri di Spalato, Traù e Sebenico; salvo isolatissimi gruppi gli unici
Italiani dichiarati che rimanevano in Dalmazia nel 1944 erano a Zara, ed a Zara
rimasero complessivamente ancora per quasi tutto il 1944 (l'ultimo
bombardamento americano, il cinquantaquatresimo, fu il 31 ottobre 1944). Essi
furono accompagnati in condizioni disperate dal prefetto di Zara Serrentino e
molti di essi giunsero a Trieste dove un'altra precaria situazione li attendeva
(rischiando cioè un altro esodo, il terzo per alcuni), che tornò all'Italia
dopo la cessione di Capodistria, Buie, Pirano e Cittanova (ovvero la zona B)
alla Iugoslavia solo nel 1954. Anche una sottile fascia di territorio della pur
esiguissima zona A passò agli Iugoslavi con il paesino di San Servolo; con
detta fascia minuta di molto migliorava lo spazio marittimo iugoslavo,
soffocando quello italiano attorno a Trieste.
Gli esuli vissero a lungo (spesso per molti anni) in 129
"campi di raccolta", che spesso sembravano veri e propri campi
profughi; in molti casi come a Venezia essi furono accolti al porto dai fischi
e dagli insulti dei comunisti locali. Le isole quarnerine di Lussino e Cherso
invece seguirono le sorti dell'Istria alla quale erano legate dal 1920 (in
realtà già dal tempo degli Austriaci, insieme anche a Veglia), così come toccò
a Fiume. Salvo Zara ed il Quarnaro italiano con naturalmente Fiume, la Seconda
Guerra Mondiale in Dalmazia non ha visto l'esodo di masse enormi di persone (si
pensi ai milioni di Tedeschi che nello stesso periodo lasciavano Slesia,
Pomerania e Prussia), avendo interessato alcune migliaia di individui; però
questi individui erano quelli che aveva resistito ad un secolo di violenze
austriache e croate, al primo esodo del 1920 ed a due decenni di Iugoslavia;
essi erano cioè testimoni di un'era che stava tramontando. Inoltre con Zara
(nella quale si erano riversati molti dalmati di altra provenienza) veniva meno
la coscienza italo-dalmata colà così saldamente rappresentata. Secoli e secoli
di stratificazione umana, linguistica e culturale venivano in pochi
mesi estirpati violentemente dalla terra nella quale posavano solide ed antiche
radici. Ci fu cioè una violenta snaturazione che portò di fatto all'azzeramento
di una componente dalmata fondamentale che nei secoli non era mai venuta meno.
Anche Fiume dove una stratificazione unica ed irripetibile di genti aveva creato una
cultura ed una inedita amalgama, tutto sommato abbastanza rispettate
dall'Italia sotto il fascismo che pure in buona fede calamitò molti fiumani,
tutto fu cancellato in pochi mesi. Per molti giuliani e dalmati il fascismo fu
accettato in maniera indolore coincidendo con la loro appartenenza alla nazione
italiana (1920), ed essendo essi particolarmente sensibili alle problematiche
di carattere nazionale che avevano vissuto sulla propria pelle (tipico di ogni
regione prossima al confine).
In realtà, specialmente sulle isole ed in centri minori,
diversi Italiani non politicizzati rimangono attuttora non essendo stati essi
interessati più di tanto ai fenomeni bellici e postbellici. Le migliaia di
esuli furono umiliati dalla loro stessa patria che li relegò ed abbandonò per
anni nei campi di raccolta violontariamente disseminati per tutta la penisola
così da disperderne la memoria ed il peso politico; furono bocciate le proposte
di coloro che li volevano raccolti uniti e vicini, contigui alle aree che
lasciavano. Pure un progetto di accorparne alcune migliaia presso Brindisi fu
bocciato dalle autorità. A Trieste questi esuli (oltre 60.000 in città)
divennero un vero e proprio problema da gestire, risolto solo con il buonsenso
dei più (nella città di San Giusto i posti pubblici furono preferibilmente
assegnati agli esuli giuliano-dalmati, provocando a volte l'invidia dei
triestini stessi); Trieste aveva un passato identico in tutto e per tutto alle
terre passate dall'Italia alla Iugoslavia e questo permise un perfetto
riassorbimento del problema. D'altronde il sindaco di Trieste in quel periodo
era l'istriano Gianni Bartoli (di Parenzo).
Gli esuli si dettero ben presto un'organizzazione che li
raccoglisse, essa fu l'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia,
attualmente presieduta dal senatore zaratino Lucio Toth; oltre ad essa gli
esuli delle principali città abbandonate (i tre capoluoghi di provincia) si
organizzarono in liberi comuni in esilio (Pola, Fiume e Zara). Le terribili
vicende umane vissute da questa gente sono spesso inenarrabili e parlano di
foibe, di lutti, di esilio e dell'abbandono della propria casa, di tutti i
propri averi e delle vecchie amicizie. Con la dissoluzione della Iugoslavia è
giunta la richiesta di restituzione degli averi lasciati nell'area (con la
Iugoslavia è nel frattempo venuto meno anche il comunismo che non prevedeva la
proprietà privata) ma i governi croato e sloveno, dopo lungo ed inutile
tergiversare, non hanno restituito nemmeno quei ruderi abbandonati da mezzo
secolo e spesso ancora oggi disabitati e cadenti.
Urge inoltre ripristinare i rapporti tra chi è rimasto
(pur credendo nel comunismo) e chi è venuto via prima che la dura fugacità
della vita umana interrompa per sempre legami millenari, così da dare linfa
alle comunità superstiti e poter pensare di pianificare loro un futuro
dignitoso, accettabile e coerente con la storia delle proprie terre.
VIII - La Dalmazia oggi
Se questa trattazione subisce, per così dire, un buco di cinquant'anni,
ciò è successo in tutti i paesi dell'Europa orientale dove molte cose sono
rimaste a lungo congelate. Dopo la morte di Tito nel 1980 e soprattutto dopo la
caduta dei regimi ispirati al comunismo nel 1989, l'oppressione culturale sulle
terre che componevano la Iugoslavia sta venendo un poco meno, o comunque sta
mutando forma, con l'avvento graduale di nuove democrazie. La Dalmazia però non
riesce ancora ad essere unita (come si ha fin qui asserito non poter essere
diversamente), essendo rimasta vittima della cruenta nascita di quelle nuove
realtà succedute alle Repubbliche federate iugoslave. Il patriota italiano
Ercolano Salvi ebbe a dire nel 1919[1]: "Non si tronca la Dalmazia senza
ucciderla", aggiungendo che: "bisognava annetterla tutta
all'Italia". Tito, anni dopo la sua scomparsa, scaglia sulle sei ex
Repubbliche federate la sua dura nemesi storica, avendo mescolato il più possibile
la composizione etnica di queste terre nel tentativo di creare il "popolo
iugoslavo" (ai censimenti iugoslavi ci si poteva definire di etnia
"iugoslava" e così molti, oltre il 10%, fecero; altri invece si
definivano semplicemente dalmati).
La cecità occidentale di cui primi responsabili sono gli
Stati Uniti, completamente estranei per loro cultura a fenomeni di
rivendicazioni nazionali (ma soprattutto nazionalistiche) di tipo balcanico,
aveva portato al trattato di Helsinki, nel 1975, in cui si sancì
l'inviolabilità e la perennità delle frontiere (si sa che nella storia nulla è
mai stato più mutevole delle frontiere, avere la presunzione di renderle
perenne euivale ad avere la presunzione di fermare la storia). Così ora,
nell'ex Iugoslavia come nell'ex Unione Sovietica, sono stati supinamente
accettati i confini provinciali abilmente architettati da Tito e da Stalin per
i nuovi Stati nazionali senza metterli minimamente in discussione. Ciò ha
causato la nascita, a vario titolo, di problematiche di carattere nazionale in
Bosnia, Erzegovina, Karabach, Cecenia, Crimea, Transnistria, Abcasia,
Daghestan, Slavonia, Kossovo, Ossezia, Nahicevan; solo i più civili Cechi e
Slovacchi hanno trovato una soluzione morbida, pacifica e democratica, nello smascherare
un'altra travagliata esperienza statuale creata a Versailles: la Cecoslovacchia
(d'altronde la situazione cecoslovacca era molto meno complessa di altre,
specie dopo l'espulsione di oltre tre milioni di Tedeschi nel 1945 e dopo la cessione
della Rutenia all'Unione Sovietica). Solo censimenti e plebisciti da protrarsi
anche per anni e compiuti da istituzioni sovranazionali avrebbero forse potuto
rendere meno incandescente la situazione, ma non si sono avute né la volontà né
la pazienza necessarie.
Ora, in seguito ai confini voluti da
Tito, la Dalmazia è divisa tra Croazia (grandissima parte), Bosnia-Erzegovina
(solo il piccolo importuoso sbocco di Neum, di fatto annesso dai Croati per
collegare il territorio di Ragusa) e Montenegro (cioè la vecchia Iugoslavia o,
come taluni preferiscono, la nuova Iugoslavia) che possiede la parte
meridionale con le strategiche bocche di Cattaro. La nuova federazione
Iugoslava comprende ora: Serbia, Montenegro e naturalmente i territori di
Voivodina (d'etnia principalmente ungherese) e Kossovo (albanese); Voivodina e
Kossovo hanno recentemente perso la prerogativa di essere provincie autonome. I
Dalmati hanno di fatto interamente conservato le proprie caratteristiche
culturali di fiero popolo marinaresco, senza che l'indottrinamente coatto degli
coatto degli ultimi cinquant'anni li abbia snaturati più di tanto. Al di là
della politica le loro abitudini sono rimaste le stesse. Inoltre vi è ora un
rigetto di quel tipo di indottrinamento politico che si esprime anche con i
regionalismi e con la riscoperta delle culture locali (e delle religioni).
I due tronconi dalmati (croato e serbo) subiscono ora
trattamenti assai differenti: in Croazia, dove vi sono comunità d'Italiani ben
organizzati come in Istria ed a Fiume (con due consolati: Pola e Fiume), tutto
ciò che possa anche lontanamente sembrare italiano viene demonizzato. A Pola il
consolato italiano ritiene che essi possano essere ben il 20% nell'Istria,
molti dei quali rimasti celati per decenni. Ora i Croati vorrebbero anche
spostare il capoluogo dell'Istria da Pola a Pisino (patria di Filzi,
Dallapiccola e Quarantotti-Gambini), ritenuta più croata della città
dell'arena; fu prerogativa di tutti i dominatori aggiustare i confini
amministrativi dell'area per favorirne la gestione in chiave nazionale
(Francesi, Austriaci, Italiani, Iugoslavi, Croati) tanto è vero che sotto i
Francesi il capoluogo istriano fu Capodistria, sotto gli Austriaci fu Parenzo[1] e sotto gli Italiani fu Pola[1]. A Fiume gli Italiani hanno perso la prerogativa
giuridica di autoctonia ed in tutta la regione istro-quarnerina l'italiano non
è più obbligatorio a scuola, come pure lo era ancora sotto il maresciallo Tito;
inoltre per poter accedere alle scuole italiane bisogna compiere un complesso iter
burocratico atto a dimostrare di avere origine italiana, quando più o meno
tutti qui hanno avuto (se non hanno) parenti italiani; malgrado questi problemi
molti figli di coppie linguisticamente miste stanno scegliendo in massa le
scuole italiane.
Inoltre risulta fondamentale come, quasi paradossalmente,
l'Italia non confini con la Croazia (dove vive oltre il 90% degli Italiani
dell'ex Iugoslavia) a causa di una sottile striscia di territorio passato alla
Slovenia[1] per assicurarle uno sbocco al mare (il porto di
Capodistria su cui stanno giungendo ingenti investimenti austriaci che
potrebbero ulteriormente aggravare la gravissima crisi del porto di Trieste).
Questo confine ha così spezzato l'Istria in due (così come la comunità italiana
dell'Istria, tanto che alcuni contadini italiani coltivano un campo per metà
sloveno e per metà croato), dividendo in due addirittura il piccolo territorio
della Zona B (perso dall'Italia nel 1954 e circa il quale l'Italia ha
giuridicamente rinunciato, col trattato di Osimo, nel 1975) ed allontanando
ulteriormente gli Italiani della Repubblica Croata dall'Italia anche in
relazione del fatto che il confine croato-sloveno (su cui i due Stati balcanici
molto animatamente discutono) non è risultato così elastico come in un primo
momento fatto intendere alla Repubblica Italiana (durante la nascita delle due
nuove Repubbliche grandi assicurazioni in proposito furono infatti date). Da
molti il trattato di Osimo fu visto come una inutile e stupida rinuncia[1] da parte dell'Italia ad un negoziato nel quale la
zona B (491 chilometri quadrati con 66.000 abitanti contro i 223 chilometri
quadrati e 296.000 abitanti della zona A) risultava ancora giuridicamente
difendibile; in qualsiasi caso la cessazione della Iugoslavia avrebbe dovuto
dare seguito a più ampi e completi negoziati trilaterali
(italo-croato-sloveni), in quanto ai confini orientali dell'Italia era venuto
meno un soggetto statuale col quale l'Italia aveva stipulato precedenti
accordi. Il diritto internazionale in ciò è chiarissimo, essendosi Slovenia
prima e Croazia poi separati dalla Iugoslavia (si è trattato cioè di secessione
e non di samembramento). L'Austria ha seccamente dichiarato completamente
decaduti gli accordi con la Iugoslavia. Al contrario in Italia è venuto alla
luce, grazie a fonti giornalistiche, il progetto di un accordo italosloveno che
prevedeva la cessione da parte dell'Italia delle valli del Natisone in cambio
di inconsistenti variazioni attorno a Muggia.
Come già detto, l'impreparazione di alcuni e l'interessata fretta di altri[1] ha reso troppo veloce un processo delicato causando,
forse non in linea così diretta, gravissimi strascichi come in Bosnia ed in
Erzegovinsa.
La cultura italiana, indipendentemente da queste interpretazioni
giuridico-internazionalistiche, è ancora più diffusa grazie anche ad i nuovi
mezzi di diffusione come radio e televisione (perfettamente captate); l'Arena
di Pola nell'estate del '96 è stata teatro di una importante manifestazione
canora organizzata dalla principale rete televisiva privata italiana (Canale
5).
La Corte costituzionale croata ha dato sostegno ai portatori dei reclami
delle comunità italiane che ora risultano assai compresse entro lo Stato
nazionale croato. La Costituzione della Croazia consente il bilinguismo
nell'amministrazione (articolo 12), ma solo dove una minoranza rappresenti la
maggioranza (il 50,01%) della popolazione (articolo 7) e ciò non avviene più in
nessun Comune, nppure in Istria[1]; eppure con Tito erano comuni bilingui a tutti gli
effetti: Buie, Rovigno, Valle, Dignano, Gallesano e Sissano (tutti nell'Istria
croata occidentale). A Tito importava la fedeltà alla dottrina comunista e non
la nazionalità, essendo il comunismo un messaggio chiaramente sovranazionale.
Comunque la Costituzione riconosce (articolo 15) l'utilizzo privato alle
minoranze della propria lingua. Risulta politicamente fondamentale l'articolo
8, con il quale le amministrazioni locali possono introdurre
nell'amministrazione una lingua minoritaria ed è ciò che sta cercando di fare
la Dieta Democratica Istriana, che amministra l'Istria in seguito alla
schiacciante vittoria elettorale, in duro conflitto con il potere centrale di
Zagabria[1].
In Dalmazia la situazione è assai diversa dall'Istria
infatti gli Italiani rimasti sono pochissimi e politicamente senza alcun peso e
possono tutt'al più dare vita a organizzazioni di carattere culturale (pure
fondamentali per la sopravvivenza della loro comunità). In Croazia sono
minoranze di proporzioni analoghe a quella italiana (30.000-50.000 unità)
quella ungherese e quella slovena (analogamente avversate); i Serbi sono oltre
il mezzo milione (all'incirca l'11,6%), ma difficili da quantificare a causa
dei continui esodi ai quali sono costretti (si pensi a Tenin). Molti Dalmati a
fianco dell'ufficiale croato continuano ad usare il dialetto veneto e le
autorità fingono di non sentirlo, anche se tra i giovani ciò è sempre meno
comune ed il ricambio generazionale sembrerebbe condannarlo; tantomeno si può
apertamente parlare d'Italia. Le emittenti televisive italiane integrano quindi
molte di queste persone nel sistema culturale italiano. Come ognuno può ora
costatare anche in maniera elementare (dalle numerose guide turistiche che
illustrano le bellezze monumentali della regione), tutto è stato goffamente
croatizzato: i palazzi dei patrizi veneziani ora portano un nome croato, come
le città, come le piazze, come le chiese e i loro santi e come chi le ha
costruite (hanno inavvertitamente croatizzato, tra i tanti Dalmati, anche
l'artista toscano Niccolò Fiorentino, ora diventato Nikola Florentinac, che in
Dalmazia ebbe solo la ventura, o sventura, di lavorare). Le poche volte che
queste guide sono scritte in italiano non traducono però i nomi delle città che
compaiono solo in croato.
I Croati hanno ora "assimilato" anche
personaggi storici fondamentali nella storia d'Italia come Marco Polo e Niccolò
Tommaseo (la cui statua dello scultore siciliano Ximenes, solennemente voluta
dagli stessi Austriaci nel centro di Sebenico nel 1896, hanno però distrutto
con la dinamite nel 1946). Tra molti anche il grande matematico ed astronomo
raguseo Ruggero Giuseppe Boscovich, il quale definì la propria patria (cioè
Ragusa, detta anche l'Atene di Dalmazia) come "una perla incastonata in un
mare di barbarie", ne è stato vittima: ora Rudjer Boskovic (per di più di
madre bergamasca e milanese d'adozione) compare suo malgrado sui francobolli
del nuovo Stato croato. Sempre relativamente al Boscovich[1] una ricerca specifica sulla sua corrispondenza
privata e familiare dimostra che mai egli si espresse in lingua slava. Si
ricorda come sempre il Boscovich, docente a Pavia, andò su tutte le furie
quando vide il proprio nome esposto in bacheca sotto la forma di Boscovik (quel
giorno non si recò in aula sino a che si rimediò all'errore). Sulle banconote
croate compaiono ora Giovanni Gondola e l'Arena di Pola, l'abitato di Montona e
la cattedrale di San Vito a Fiume, nonchè la città di Ragusa.
E' pur vero che questa offensiva antiitaliana dei Croati
è coerente con quella iugoslava degli anni trenta, quando Stzigowski ebbe a
dire che: "L'arte croata ha molto influito sul Risorgimento italiano";
l'Illusrazione Italiana parlò allora di una "nuova offensiva culturale
contro la Dalmazia italiana", a firma di Giuseppe Borghetti, nel luglio
del 1930. Anche allora però furono quasi esclusivamente elementi croati a
fomentarla (nello stesso tempo però i Serbi non furono certo generosi con
Albanesi, Bulgari ed Ungheresi); in quel periodo i Croati si appropriarono
anche della poetessa dalmata, di Ragusa, Fiora Zuzzeri (divenuta Zuzeric).
Tutto sommato però queste slavizzazioni sono superficiali e spesso mutano di
poco (solamente) il nome alle cose: castel Camerlengo a Traù è ora kastel
Kamerlengo e solo il più distratto tra i turisti italiani, e non solo italiani,
non riuscirebbe ad udire un suono di ascendenza italiana, come per gli
"storici" cognomi Lucic (Lucio), Hektorovic (Ettoreo), Bunic (Bona),
Drsic (Darsa), Vetranic (Vetrani), Palmutic (Palmotta), Biankini (Bianchini),
Cipiko (Cippico), Marulic (Marulo), Kavanjin (Cavagnini), Ranjina (Ragnina),
Gundulic (Gondola), Zuzeric (Zuzzeri), Mencetic (Menze), Kasic (Cassio) e così
via.
I nazionalismi di queste nuove realtà, come la Croazia
(ed anche la Slovenia per quanto concerne l'Istria settentrionale), sono molto
più intransigenti perché non più portatori di messaggi universali
(pan-sud-slavismo, comunismo-internazionalista), ma portatatori unicamente dei
propri interessi dovendo spesso coprire lacune storiche e culturali attingendo
ad altri. Inoltre i popoli a lungo repressi una volta che arrivano a portare un
loro messaggio nazionale lo fanno in maniera dura ed a volte vendicativa. A
Spalato ed a Zara (coordinati dallo zaratino Bruno Duca) si sono recentemente
ricostituiti gruppi di Italiani (forse scampati a mille peripezie storiche),
che hanno dato vita ad un associazionismo di carattere culturale, senza alcun
peso politico. Forse ciò non è per gli Italiani così vantaggioso, perché
potrebbe far riesplodere contro loro l'odio che essi ben conoscono. Diversi
Italiani rimasero dopo il 1945 credendo nel comunismo (2.000 solo a Zara) ed
ora i di loro figli cercano una nuova identità. Altri ora tornano speranziosi
dall'Italia, anche se in piccolo numero. Importante è la sempre più forte
presenza in Dalmazia di gruppi democratici antigovernativi i quali premono per
una Dalmazia autonoma (nella quale la componente italiana poterebbe ritrovarsi
protagonista). Essi hanno dato vita al gruppo politico "Dalmatinska
Accija" (Azione Dalmatica) con il giornale "Sloboda Dalmacija"
(Dalmazia Libera)[1]; gli esponenti del gruppo sono stati incarcerati per
ordine di Tudjman ed il loro giornale è stato "acquistato" dal
governo[1]. Tudjman non è un pericolo solo per le piccole
comunità italiane ma incarna realmente lo stereotipo del dittatore balcanico,
sempre più mal visto dagli stessi Croati, specialmente dalle giovani
generazioni. Molti Dalmati ed Istriani sono fuggiti in Italia durante i forzati
arruolamenti da parte delle forze armate croate in lotte contro i Serbi di
Tenin (più nota in croato come Knin), mentre altri si sono rifugiati nei
campeggi mescolandosi ai turisti. Tutto ciò è significativo, come il fatto che
i dalmati non abbiano assolutamente accettato le bombe sulla città di Ragusa
non considerando probabilmente quella una loro guerra; molti stessi Italiani si
sono lecitamente sentiti offesi ed amareggiati per quello scempio. Inoltre i
Dalmati si sentono sempre più asfissiati dall'amministrazione centrale, nonché
dalle migliaia di profughi Croati di Erzegovina che contro voglia hanno dovuto
ospitare. Forse in questi Dalmati potrà nascere la voglia di riscoprire le non
lontane radici culturali venete[1].
La stessa Regione Veneto, senza nessuna contropartita da
parte dell'ingenerosa Croazia, sta contribuendo a proprie spese ai restauri di
molte opere d'arte veneta colà collocate, le quali artisticamente sono
inconfutabilmente parte della storia e della cultura d'Italia. Il governo
croato ha però vietato alle autorità della Regione Veneto di censire le
ricchezze artistiche veneziane a Veglia ed a Lussino. Questi interventi
rientrano in una più ampia collaborazione che è stata avallata in seguito alla
legge regionale numero 15 del 1994 e prevede una larga collaborazione culturale
ed economica; essa si inquadra nel più ampio progetto Alpe-Adria che risulta
ora però in crisi, essendo nato come collaborazione regionale sovranazionale e
muovendosi ormai Slovenia e Croazia non sono più in un'ottica regionale ma
nazionale. Slovenia e Croazia sembrano ora quasi infastidite dalla presenza di
questo ambizioso perogetto europeo (che coinvolge pure regioni di altre
nazioni), visto che il loro giovane nazionalismo lo interpreta come
un'ingerenza entro i propri affari interni. Il progetto Alpe-Adria nacque nel
1978 coinvolgendo: Italia (Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia,
Trentino-Alto adige), Germania (Baviera), Svizzera (Ticino), Austria (Carinzia,
Salisburgo, Stiria, Burgenland, Alta Austria), Iugoslavia (Slovenia, Croazia)
ed Ungheria (Gyor-Sopron, Vas, Zala, Somogy, Barania); comprendendo
complessivamente 16 regioni europee dell'area alpino-adriatica, con una
superficie complessiva di 285.000 chilometri quadrati e con una popolazione di
39.000.000 di abitanti. Centro geografico di questa vasta area è il porto di
Trieste, tradizionale sbocco dell'area mitteleuropea. Da questa esperienza si
presume di trarre una serie di dati utili alla costruzione della pacifica
Europa sovranazionale del terzo millennio; inoltre essa, dopo gli episodi del
1991, consiste in un ponte diretto tra oriente ed occidente, al di qua ed al di
là della ex cortina di ferro. Questo filo diretto, ripristinato dopo cinque
decenni di dittatura comunista che molte ferite ha lasciato, è quanto mai
necessario a ristabilire plurisecolari rapporti mai del tutto sopiti. Dopo
tutto ciò è comunque assai positivo ed incoraggiante costatare che il Veneto
voglia tornare ad essere un punto di riferimento per le terre di Istria e
Dalmazia nell'ottica di una macro-regione europea sovranazionale, continuum
storico dell'antica Repubblica di Venezia.
Un grave pericolo è che una situazione così prevista
(riscoperta della veneticità) rifaccia piombare la Dalmazia in tremende
spaccature e non più sotto il pur ingiusto governo austriaco, ma sotto la
bandiera croata agitata da personalità come il presidente croato Tudjman,
acceso nazionalista che ha in odio l'Italia. Egli, appena riconqustata dopo
lungo assedio la cittàdina di Tenin (o forse è lecito dire conquistata, essendo
essa inequivocabilmente serba), ha ivi condotto nella locale piazza la squadra
nazionale croata di pallacanestro per scattare, tra mille bandiere croate, una
serie di fotografie propagandistiche divulgate in tutto il paese. Prima che la
regione di Tenin, la Krajna cadesse in mano dei Croati il parlamentare italiano
Arduino Agnelli si era recato ospite del parlamento della Krajna serba e fu
accolto da acclamazioni commosse e sincere, guardando da sempre i Serbi con
attenzione e speranza verso l'Italia.
Per la Dalmazia, come qualcuno sta già cercando di
costruire in Istria, non si può che auspicare un periodo di tranquillo
autogoverno[1] e di reale autonomia[1]. Difatti si potrebbero rubare le parole ad uno dei
più noti Dalmati contemporanei, lo stilista Ottavio Missoni nato a Ragusa l'11
febbraio del 1921 (ma trasferitosi a Zara nel 1926, all'età di 5 anni) e
simbolico sindaco del Libero Comune di Zara in esilio, il quale in un
intervista al settimanale L'Italia (13 ottobre 1993) dice di recarsi nella sua
regione tutte le estati, di fare il bagno nel suo mare, di giocare a carte con
i suoi conterranei, di bere con loro il maraschino[1], di chiacchierare con loro sempre e solo in dialetto
veneto senza mai osare spiegare loro che potrebbero essere Italiani. Missoni
parla di coetanei, dimenticando però che fino a cinquant'anni fa un Dalmata
italiano ed uno croato tra loro parlavano in veneto, mentre oggi la scuola ha
invertito i ruoli ed i riferimenti culturali e con l'avvicendarsi generazionale
i vecchi Veneto-dalmati potrebbero scomparire. Inoltre il dialetto veneto può
sopravvivere, ovviamente, solo se chi lo sa lo può parlare con qualcuno e
questa condizione potrebbe anche venir meno.
Altre associazioni di esuli dalmati sono formate dagli
spalatini (organizzati dalla famiglia Bettiza[1] e dai baroni Majneri) ed dai vegliotti (il cui
presidente è il diplomatico Gianfranco Giorgolo). Complessivamente gli Italiani d'origine dalmata sono stimati dal
giornale "Trieste Oggi" in circa 120.000, molti dei quali tendono a
perdere il senso della propria peculiarità.
Oggi forse solo con un pacato isolamento, strumentalmente
e necessariamente un poco ipocrita, la Dalmazia potrà passare indenne questi
primi anni di governo croato, per tornare a svelarsi quando i tempi saranno
maturi per una nuova e più rispettosa civiltà. Per il momento è solo
auspicabile che non vengano commessi ulteriori danni a questo bimillenario
equilibrio, troppe volte umiliato ed offeso nei capitoli bui della storia. Nel
frattempo la famiglia Luxardo, esule a Torreglia in Veneto, ha ricominciato a
produrre il maraschino con le ciliege marasche di Dalmazia, che dopo
innumerevoli tentativi in Italia hanno perfettamente attecchito presso i colli
Euganei, vincendo una causa internazionale contro alcuni Croati che si erano
messi a produrre una certa "maraska", senza alcun diritto. Tra
l'altro recentemente i Croati hanno richiesto il ritorno dei Luxardo e della
loro ditta a Zara.
Un altro imèportante fattore nella questione dalmata è
sempre stato l'atteggiamento del clero; dopo la partenza di tre vescovi fuggiti
esuli in Italia la satruttura religiosa dell'area è stata ripristinata in senso
slavo. Oggi, come nel secolo scorso, il clero croato antepone all'universale
messaggio evangelico quello nazionale giungendo, in presenza di un papa slavo
(polacco), sino a mutare a Roma il nome della chiesa di San Gerolamo degli
Schiavoni (ora ufficialmente chiamata San Gerolamo dei Croati). Addirittura nel
1993 al concorso musicale per bambini dello "Zecchino d'oro" giunse
una bambina fiumana della minoranza italiana, Alba Nacinovic (il pur slavo
cognome Nacinovich sotto i Croati era stato privato dell'"h" finale),
che voleva cantare nella propria lingua materna ma fu obbligata a cantare in
croato dagli organizzatori vicinissimi al clero come riportato dall'avvocato
Claudio Schwarzenberg, sindaco del Libero Comune di Fiume in Esilio[1].
La mescolanza dei cognomi, come quella del "sangue" d'altronde, anche
a Fiume fu tale che alcuni Croati ebbero cognome Superina, Smaila, Vio, Sirola
e così via; in realtà taluni cognomi con certezza non potevano dirsi né croati
né italiani. Attualmente gli iscritti alla comunità italiana di Fiume sono
circa 6.000[1] (superati solo da quelli di Pola, ben 6.500[1], che in percentuale rimane molto più italiana). Va
aggiunto che le minoranze italiane vivono immerse in un contesto straniero e
nazionalista ed hanno visto il proprio primato (non tanto e non solo numerico)
scemare; esse combattono una durissima lotta quotidiana per sopravvivere. Molti
dei rimasti avevano scelto la Iugoslavia per motrivi politici ed ora non hanno
più alcun punto di riferimento ideologico, trovandosi nella Croazia
nazionalista e tanto meno ne hanno i loro figli; addirittura alcuni giunsero
nel 1947 credendo ciecamente nella forza sovranazionale del comunismo (molti da
Monfalcone). La situazione più tollerante rimane in Istria (governata dalla
DDI) dove sono ancora in buon numero e presenti anche nelle culturalmente non
asfissianti campagne, essendo la città il luogo dell'assimilazione (la
situazione si è cioè paradossalmente invertita rispetto ai secoli passati dove
in città ci si venetizzava).
In termini bilaterali la minoranza italiana in Croazia
consta circa dell'1% (quasi 50.000 su 4.800.000 abitanti, ma i madrelingua
veneto-italiani potrebbero essere ancora di più) memtre, i Croati in Italia
sono lo 0,005% (3.000, in Molise, su 57.500.000), con la differenza che quasi
tutti gli Italiani di Istria e Dalmazia fino a cinquant'anni fa avevano la
cittadinanza italiana mentre i Croati non avevano certo cittadinanza iugoslava
essendo fuggiti (anche loro dai Turchi) quando l'idea stessa di Croazia ancora
non esisteva. In Slovenia gli Italiani sono ridotti al lumicino: il rapporto è
leggermente vantaggioso per l'Italia in termini percentuali, ma negativo in
termini assoluti con 3.000-4.000 Italiani (nei Comuni istriani di Capodistria,
Isola e Pirano) su quasi 2.000.000 di abitanti nazionali (0,15%) e con circa
70.000 Sloveni in Italia (0,12%) stanziati tra Gorizia, Trieste, la val Canale
e la valle del Natisone; in realtà gli Sloveni d'Italia non hanno mai voluto
sottostare ad un censimento e ciò fa ritemere che essi possano quindi essere in
numero minore (si può stimare veritiera la cifra di 40.000-50.000).
La situazione nella parte meridionale della Dalmazia
(dipendente da ciò che resta della Iugoslavia) è totalmente differente. Qui
alle spalle dei Montenegrini comandano i Serbi (che poi sono loro strettissimi
parenti) e la loro porzione di Dalmazia è l'angusta e sottile fascia di terra
che comincia a Castelnuovo di Cattaro e termina oltre Dulcigno sul fiume
Boiana, al confine con l'Albania. Gli stessi Veneziani chiamarono
semplicisticamente questa lontana provincia "Albania Veneta"[1]; questo però fu paradossale in quanto i Bocchesi
combatterono anche contro gli Albanesi (oltreché contro Turchi e Serbi). Essa
era separata dal resto della Dalmazia dai circa cento chilometri di costa che
costituivano la Repubblica di Ragusa; non per questo non fu veneziana di fatto
e per fedeltà, avendo questa terra, specialmente i paesi delle bocche di
Cattaro, una popolazione quasi interamente veneta e cattolica (a Cattaro la
cattedrale ortodossa fu costruita solo nel 1909, mentre la cattedrale cattolica
di San Trifone era sita in un edificio d'origine romana). Cattaro mantenne il
Comune nelle mani dell'amministrazione italiana fin sul finire dell'Ottocento
ed ancora nel 1900 i dati dei censimenti austriaci stimavano gli Italiani
presenti in 16 località della zona (cioè quasi ovunque). E' molto interessante
notare come Cattaro, che ora è inglobata all'ortodosso Montenegro, ha avuto la
sua prima chiesa ortodossa ben oltre un secolo dopo la cattolicissima Zara, dove
fu voluta dal governatore napoleonico Marmont. Cattaro si era data
spontaneamente alla Serenissima mantenendo lo statuto cittadino originario,
senza pagare alcun tributo e battendo propria moneta sino al 1640; il terremoto
del 1563 fu superato con tenacia e la danneggiata cattedrale di San Trifone
ristrutturata ed abbellita con due nuove torri gotiche[1]. La perifericità di queste terre e la poca
politicizzazione delle stesse le ha rese relativamente tranquille, malgrado
l'occupazione delle bocche, base navale strategicamente fondamentale, da parte
dell'esercito italianio durante il governatorato generale di Dalmazia
(1941-1943); nel 1941 Cattaro divenne capoluogo di provincia italiano[1] (piccola ed isolata) e capo del gruppo fascista
locale, dal 1942, fu un giovanissimo Licio Gelli. Quindi furono relativamente
pochi coloro che sentendosi stranieri in quanto Italiani lasciarono le proprie
case. Il consolato qui venne aperto solo dopo la prima guerra mondiale e
l'Italia fu sempre una idea molto astratta e lontana.
A ciò va aggiunto che gli Italiani di qui convivevano con
i Serbo-montenegrini (mille volte aiutati contro i Turchi dalla Repubblica di
Venezia) e non con i Croati; i Serbi si erano sentiti vicini agli Italiani sin
da quando chiamarono Giovane Piemonte il proprio movimento risorgimentale, ed
ancora quando qui come a Ragusa, sotto gli Austriaci, Italiani e Serbi si
unirono nei municipi in coalizioni anticroate. E non va dimenticato il
prestigio italiano presso i Serbi durante il salvataggio della loro marina a
Valona durante la prima guerra mondiale. A ciò va aggiunto che la storia dei
Serbi di Dalmazia ha avuto tra il 1866 (Lissa) ed il 1908 (annessione della
Bosnia-Erzegovina all'Austria) alcune caratteristiche comuni con gli Italiani
della stessa regione, in quanto essi pure furono perseguitati dalle autorità
austriache (o meglio austrocroate) in quanto ortodossi, senza poter mai
esprimere la propria unicità (nella cultura, nella religione e nemmeno nella
propria scrittura cirillica) ed essendo continuamente accostati ai Croati in un
palese progetto di assimilazione. Come è noto fino, al 1866 essi furono
semplicemente Dalmati di rito greco, mentre dopo il 1908 la situazione mutò con
l'annessione asburgica della Bosnia-Erzegovina comprendente moltissimi Serbi,
non lasciando più i Serbi di Dalmazia in una situazione di sparuta minoranza
come gli Italiani; l'Austria sempre scelse una componente nelle proprie
composite ed assortite provincie da favorire per indebolire le altre componenti
ed in Dalmazia, come si è visto i Croati furono gli alleati ideali per
combattere gli Italiani ed in un secondo tempo i Serbi. Inoltre sia gli
Italiani sia i Serbi, da Roma e da Trieste come da Belgrado e da Saraievo[1] mossero il proprio irredentismo contro l'Austria,
idealizzandola come nemico (si pensi all'omocidio di Saraievo dell'arciduca
Francesco Ferdinando ad opetra di Gavrilo Princip, serbo di Bosnia[1]).
Ora la Iugoslavia (di fatto la Serbia) potrebbe chiedere
all'Italia una sorta di nuova alleanza contro i Croati; l'Italia non si deve
certo far coinvolgere in diatribe balcaniche (specie se sono guerre
balcaniche), ma certo potrebbe meglio gestire i propri interessi in maniera più
attenta, come fa ad esempio la Germania che in vero si è dimostrata fin troppo
pragmatica nel perseguire i propri interessi di penetrazione economica.
Addirittura i Serbi han fatto "notare" agli Italiani come nel
territorio della Dalmazia interna dove loro avevano un forte avamposto (zona di
Tenin, in serbo Krajina, cioè confine) vi fosse una minoranza di circa 150
Italiani lì da tempo immemore (infatti essendo essi cattolici di dialetto
veneto in una zona da sempre serba ed ortodossa non potevano certo essere
Croati, ma tuttalpiù Italiani). Sempre a Tenin i pur fallaci censimenti
austriaci evidenziavano la presenza di 114 Italiani ancora nel 1900[1]. I Serbi, nella loro pragmatica visuale balcanica,
non capiscono come l'esercito italiano non sia ancora accorso in loro aiuto
riunendo all'Italia la Dalmazia, tutta o quasi; d'altronde da anni molti
studiosi Serbi parlano di palesi diritti Italiani sulla Dalmazia adducendo
serie motivazioni.
A proposito della lontanissima Tenin, ancora nel 1869 140
capifamiglia su 195 chiedevano per i propri figli scuole in lingua italiana,
ovviamente negate dagli allora dominatori austriaci, malgrado molti di loro
fossero ortodossi e d'origine serba; si pensi che Tenin era stata veneziana
solo per 109 anni (fu conquistata ai Turchi nel 1688 con il doge Mocenigo e
cadde con tutta la Repubblica nel 1797). L'ultimo censimento austriaco in
Dalmazia (1910) evidenziava la presenza del 16,3% di ordodossi a fronte di un
83,3% di cattolici (ed uno 0,4% di altre religioni, ovvero ebrei e
protestanti): ciò significava che vi era circa il 16% di popolazione serba
saldamente localizzato (attorno a Tenin). I Serbi in Dalmazia erano
completamente assenti (nel 1910) solo nei capitanati di Curzola, San Pietro
della Brazza, Lesina e Macarsca, mentre essi erano in un rapporto con iCroati
l'1,3% a Spalato, il 3,1% a Metcovich, il 3,4% a Imoschi, il 5,9% a Zara, il
9,5% a Ragusa, il 14% a Sebenico, il 16,1% a Signo, il 54,1% a Tenin, il 57,8%
a Bencovazzo ed il 76,3% a Cattaro[1]. Comunque quei Serbi di Krajina sono stati
militarmente sopraffatti e le loro chiese ortodosse distrutte (verosimilmente
quei 150 dalmati cattolici di cui prima si sono fatti passare per Croati).
Il silenzio italiano sta spingendo i nazionalisti
panserbi a portare pretese addirittura su Sebenico, oltreché su Ragusa. A Cattaro capita lo stesso che a Tenin:
coloro i quali sono di religione cattolica, non potendo essere croati essendo
essi completamente estranei a questa nazionalità, non possono che finire per
essere, o tornare ad essere, Italiani. Così il governo di Belgrado ha introdotto
in questi ultimi anni nei sei Comuni costieri (Castelnuovo di Cattaro, Perasto,
Cattaro, Budua, Antivari e Santo Stefano) una sorta di bilinguismo che rende
l'Italiano obbligatorio come prima lingua "straniera" in tutte le
scuole, visti anche i caratteri cirillici della lingua serba. Alla pur numerosa
minoranza albanese della zona (stanziata soprattutto attorno a Dulcigno, non
lontano da Scutari) nulla di simile è stato concesso. Questa dei Serbi è una
mossa politica nei confronti dell'Italia che non viene assolutamente colta.
Questa mossa vuole ancor più sottolineare il legame dell'Italia con le terre
ora amministrate dai Croati (Istria e Quarnaro prima ancora che Dalmazia):
secondo la logica se la cultura italiana arriva fino alla remota Cattaro ovviamente
essa è ancor più viva nei territori che la precedono (Cattaro dista infatti
circa 550 chilometri in linea d'aria da Trieste).
Sono molti i fattori che continuamente riemergono, come
un parziale e lento ripristino della toponomastica originale, anche nella
Dalmazia croata: Calamotta ora è tornata Kalamota e non più Colocep; inoltre
molte località hanno lo stesso medesimo nome italiano scritto in maniera
differente (Makarska); molte altre, come in Istria, hanno mantenuto il nome
dialettale veneto (Ugljan). La Croazia mantiene tuttora gli antichi confini
veneti e ragusei nei confronti della Bosnia-Erzegovina per quasi 300 chilometri
in linea d'aria (da prima del monte Dinara fin subito prima delle bocche di
Cattaro): essi furono di buon grado ripristinati addirittura da Tito. Nulla in
questa terra è statico, nulla può dirsi definitivo e nella storia nulla è
assoluto. Le costanti della gente di questa regione protesa al mare ed ancorata
ai propri scogli sembrano geneticamente impresse. Difatti i Dalmati, gli stessi
che spesso si definiscono con orgoglio Croati, non accettano nella propria
regione altri Slavi e nemmeno altri Croati fuggiti dalla feroce lotta con i
Serbi, rimanendo gelosissimi della propria cultura e della propria particolarità.
La speranza di molti è che queste terre possano essere
libere dagli scontri che inevitabilmente si accompagnano ai nazionalismi, siano
essi interni od esterni, così da poter passare indenni questo delicato momento
storico ed approdare a contingenze più tranquille con le proprie
caratteristiche, provate da mille episodi, il più possibilmente intatte.
L'Italia, senza cedere alle lusinghe serbe, deve però difendere i propri
interessi in quanto la propria cultura ed il proprio prestigio si dimostrano
anche con il potere dell'economia, delle imprese e dei commerci (com'è in
quelle terre da duemila e forse più anni), oltre ovviamente dell'arte ed della
cultura; cosa che stanno facendo i Tedeschi in mezza Europa. L'Italia deve
comunque essere grata ai Serbi che son tornati a parlare di diritti italiani
fin nelle più remote zone della Dalmazia.
Ad ogni definitiva risoluzione internazionale è sempre
propedeutica la risoluzione dei conflitti nelle terre martoriate dell'ex
Iugoslavia, anche se queste lotte intestine tra gruppi slavi sono di fatto storicamente
del tutto estranee alla Dalmazia, da sempre slegata ed autonoma da essi. Forse
non è più come nel secolo scorso quando tutte le guide turistiche francesi
descrivendo la Dalmazia, molto nota ai transalpini dopo l'esperienza
napoleonica delle Provincie Illiriche, dicevano che da Zara a Cattaro si
parlasse l'italiano (come scrisse il viaggiatore Yriarte[1] nel 1878); ma è ancora vero, come sostenuto da
studiosi sempre francesi, che la cultura, la vita, l'arte e la forma mentale
delle genti di Dalmazia, prescindendo dall'idioma in uso, sono sicuramente
italiane. Sempre a proposito della complessa inscindibilità delle genti della
Dalmazia, va ricordato il proverbio locale secondo il quale ogni Croato che,
arrivando in città, si arricchiva cominciava a parlare Italiano[1], riassunto da Federzoni: "Sino al 20 luglio
1866, ogni Slavo che fosse riuscito ad arricchirsi ed istruirsi un po',
diventava italiano. Dopo la giornata di Lissa, anche coloro che erano nati
italiani, cominciarono a croatizzarsi". Lo storico slavo Pirjevic aggiunge
che da secoli in Dalmazia si parlava e si pensava in italiano mentre si
ubbidiva in slavo[1].
Ora, per l'ennesima volta ed a pochi mesi dal
duecentesimo anniversario del giuramento dei Dalmati a Perasto, alla storia
paziente spetta il compito di dare nuove risposte.
XIII - Glossario italo-slavo
Sia le versioni italiane che slave dei paesi istro-quarnero-dalmati
hanno subito innumerevoli mutazioni; Venezia non ne aveva mai coattamente
italianizzato alcuno, trascrivendo semplicemente i nomi di alcuni paesi slavi
con le già da tempo codificate regole della grammatica italiana. Molti nomi non
sono né italiani né slavi ma uno strano ibrido passato per la parlata veneta
(che come lo slavo spesso non prevede doppie consolanti). Le cartine veneziane
erano spesso in dialetto veneto, comprendendo molte oscillazioni ortografiche.
Facendo un paio di esempi, si può dire che convenzionalmente il finale slavo "ic"
veniva scritto "ich" con grafema tedesco e le parole che terminavano
con la lettera "c" finivano con la "k". Al di là di ciò è
comunque interessante notare alcune forti similitudini tra le due coste
adriatiche, in particolar modo tra Dalmazia meridionale e Puglia (Antivari e
Bari, Cannosa e Canosa, Cattaro e Noicattaro, Lesina ed ancora Lesina); pure la
Lesina di Puglia ha accentuazione sdrucciola. Altra forte parentela
topomomastica con l'Italia è Ragusa, che ha un'omonima in Sicilia capoluogo di
provincia dal 1927 (in secoli di storia però in Italia ed in Europa con Ragusa
si intese sempre e solo quella dalmata, antico e nobiliare Stato sovrano); pure
una Malta ed una Comino sono isole omonime presenti in Dalmazia. Elemento
invece di continuità tra l'italiano ed il croato è l'alta percentuale di nomi
sdruccioli (con accento sulla penultima sillaba), tipico del croato, come Unie,
Veglia, Castua, Buccari, Ossero, Dicolo, Murvizza, Spalato, Lagosta, Lesina,
Curzola, Torcola, Meleda, Pelagosa, Antivari, Cattaro, Budua; questa
caratteristica è riscontrabile anche nei cognomi dalmati, come il noto Bettiza.
Ciò è ancor più palese in quei nomi, pure ortograficamente italianizzati o
italianizzanti, che sono rimasti sostanzialmente nella versione croata come
Percovich, Metcovich, Vergoraz, Ottissich, Sussak, Smoccovich e così via (anche
Sebenìco originariamente era Sebènico, cioè con accento sdrucciolo). Anche i
nomi che cominciano per "sm" sono tipici di questa regione; lo stesso
dicasi per i cognomi (si pensi allo Smerchinich). Nei casi che seguono, alcuni
nomi di chiara origine slava sono stati semplicemente trascritti in italiano:
Dernis (Drnis), Rasuagge (Razvadje), Dugopoglie (Dugopolje), Ragosnizza
(Ragoznica), Imoschi (Imotski), Babinopoglie (Babino Polje), Pagene (Padene),
Dignisca (Dinjiska), seguiti da molti altri possibili esempi. Questo avveniva,
mancando una grammatica croata nonché per comodità, anche per borghi
dell'interno al di fuori dei confini dalmati come per Graciaz (Gracac) o
Liubuschi (Ljubuski). Le radici dei nomi dalmati sono molto varie: illiriche ed
albanesi, greco-antiche, latine e veneto-italiane, prevenete e dalmatiche,
ungheresi, slave e persino tedesche e greco-moderne. Nella maggioranza dei casi
i mutamenti ortografici pochissimo influivano sul suono reale del nome: Krk in
serbo-croato, Kerk in tedesco, mentre Veglia in italiano, Vegia in latino;
Plauno in italiano, Plavnik in serbo-croato, Plaunig in tedesco, Scherda in
italiano, Skrda in serbo-croato; Traù in italiano, Trogir in serbo-croato,
Tragorion in greco-antico, Tragurium in latino, Tragura in dialetto veneto;
Lissa in italiano, Issa in greco-antico, Vis in serbocroato. Molti nomi
d'origine slava si sono italianizzati nei secoli come Rasanze (Razanac) o
Blatta (in slavo Blato, che significa lago); inoltre molti nomi sono di remota
origine preveneta; tipica, resa poi propria dallo slavo, il finale
"in" (Skradin, Knin, Solin, Nin) o il suffisso "su" che
significa "santo" (Sumartin, Sucuraj, Sukosan, Sutivan, Supetar,
Sutomiscica), come riscontrato anche nel dalmatico. In altre parole le radici
si conservano quasi sempre e solo gli Slavi dopo il 1920 ed ancora dopo il
1947, hanno portato variazioni di rilievo fondamentale; com'è noto analogo
comportamento fu tenuto in Alto Adige ed in minor misura nella Venezia Giulia
orientale dall'Italia nel 1920. Le versioni italiane che qui seguono sono il
risultato di una lunga ricerca: alcune versioni sono poco usate e poco
conosciute e spesso non utilizzate dagli stessi dominatori veneziani; esse sono
maturate, a volte solo per comodità, in tempi diversi. Sempre a proposito di
variazioni altrove Bencovazzo spesso è Bencovaz, Tenin è Cnin, Signo è uno
stranissimo Sign che, scritto in italiano, cerca il suono slavo e così via.
Strana commistione italoslava e Novegradi, paese all'imboccature del canale
della Morlacca, il suo nome è una storpiatura in italiano di Novi Grad
(novi=nuova e grad=città) che a sua volta deriva dal latino Castrum Novum (cioè
ancora castrum=città e novum=nuovo); "nove gradi" venne
tranquillamente in uso perché, forse, ricordava il linguaggio marinaresco.
Herzegnovi (Castelnuovo di Cattaro, patria della medaglia d'oro al valor
militare alla memoria Romeo Romei) nasce invece dall'incontro di
herzeg=castello in turco e novi=nuovo in croato (chiaramente dal latino); anche
Erzegovina deriva da quest'incontro. Anche le versioni slave storicamente
oscillano: Troggir poi Trogir, Siebnic poi Sibenik. Alcuni paesi invece sono
stati coattamente mutati in base non al suono ed alla pronuncia, ma alla
grammatica, come Cittavecchia[1] che ora è Starigrad (stari= vecchio, grad= città) o
Fiume che ora è Rijeka (fiume=rijeka); altri nomi sono di fatto presi in
prestito (Zadar è tedesco, si era nel 1947 proposto di chiamarla Badar). Si
dànno quindi le versioni serbo-croate delle località dalmate che compaiono in
questo scritto, divise per città, paesi, isole ed altre entità geografiche
(fiumi, monti, golfi). I nomi slavi dei paesi montenegrini colà ovviamente
appaiono traslitterati in cirillico (di seguito omesso). In maniera molto
indicativa si legga la "c" (non preceduta da "i") come
"z", la "z" come "s", la "s" come
"sh", la "h" come "c", la "lj" come
"gl", la "nj" come "gn", "kr" come
"cher", "vr" come "ver". Sono omessi i segni in
uso nel croato. Città: Fiume=Rijeka, Ragusa=Dubrovnik, Sebenico=Sibenik,
Spalato=Split, Traù=Trogir, Zara=Zadar. Paesi: Almissa=Omis, Antivari=Bar,
Arbe=Rab, Babinopoglie=Babino Polje, Bencovazzo=Benkovac, Blatta=Blato,
Bol=Bol, Borgo Erizzo=Arbanasi, Buccari=Bakar, Budua=Budva, Carlopago=Karlobag,
Castel Cambio=Kambelovac, Castell'Abbadessa=Gomilica, Castelnuovo=Kastel Novi,
Castelnuovo di Cattaro=Herzegnovi, Castel San Giorgio=Sucurac,
Castelvecchio=Kastel Stari, Castel Veniero=Vinjerac, Castel Vitturi=Luksic,
Castua=Kastav, Cattaro=Kotor, Cherso=Cres, Chiusi Lussignano=Cunski,
Chistagne=Kistanje, Cittavecchia=Starigrad, Cittavecchia di Lesina=Starigrad,
Clissa=Klis, Comisa=Komiza, Curzola=Korcula, Dernis=Drnis, Dicolo=Diklo,
Dignisca=Dinjiska,
Dugopoglie=Dugopolje, Dulcigno=Ulcinj, Fort'Opus=Opuzen, Gese=Jesenice,
Gravosa=Gruz, Imoschi=Imotski, Isto=Ist, Lagosta=Lastovo, Lesina=Hvar,
Lissa=Vis, Lissarizza=Lisarica, Lombarda=Lumbarda, Lussingrande=Velj Losinj,
Lussinpiccolo=Malj Losinj, Macarsca=Makarska, Maon=Maun, Melada=Molat,
Metcovich=Metkovic, Mezzo=Lopud, Milnà=Milna, Morter=Murter, Murvizza=Murvica,
Neresi=Nerezi, Neresine=Nerezine, Neum=Neum, Nona=Nin, Novaglia Nuova=Novalja,
Novegradi=Novi Grad, Novi=Novi Vinodolski, Obbrovazzo=Obrovac, Oltre=Preko,
Ossero=Osor, Ottissich=Otisic, Pagene=Padene, Pago=Pag, Perasto=Perast,
Percovich=Perkovic, Plauno=Plavnik,
Ponti di Bribirio=Bribirske Mostine, Possedaria=Posedarje,
Postire=Postira, Premuda=Premuda, Porto Re=Kraljevica, Punta Amica=Borik,
Puntadura=Vir, Ragosnizza=Ragoznica, Ragusavecchia=Cavtat, Rasanze=Razanac,
Rasuagge=Radzvadje, Sabbioncello=Orebic, Salona=Solin, San Cassiano=Sukosan,
San Giacomo di Lussino=Sveti Jakov, San Giorgio=Sucuraj, San Giovanni della
Brazza=Sutivan, San Martino=Sumartin, San Pietro della Brazza=Supetar,
Sansego=Susak, Santa Eufemia=Sutomiscica, Santo Stefano=Sveti Stefan,
Scardona=Skradin, Segna=Senj, Selve=Silba, Sestrugno=Sestrunj, Signo=Sinj,
Smoccovich=Smokovic, Smoquizza=Smokviza, Spizza=Sutomore, Stagno Grande=Ston,
Stagno Piccolo=Ston Mali, Stretto=Tijesno, Sussak=Susak, Tenin=Knin,
Tersatto=Trsat, Torrette=Turan, Tribagno=Tribanj, Ugliano=Ugljan, Ulbo=Olib,
Unie=Unje, Vallegrande=Vela Luka, Veglia=Krk, Vergoraz=Vrgorac,
Verlicca=Vrlika, Vragnizza=Vranjic, Vodizze=Vodice, Vrana=Vrana,
Zaravecchia=Biograd na moru, Zemonico=Zemunik, Zernovo=Zrnovo. Isole: Arbe=Rab,
Brazza=Brac, Bua=Ciovo, Busi=Bisevo, Calamotta=Kalamota, Cazza=Susak,
Cherso=Cres, Curzola=Korcula, Giuppana=Sipan, Isto=Ist, Lagosta=Lastovo,
Lesina=Hvar, Lissa=Vis, Lussino=Losinj, Lunga=Dugi Otok, Maon=Maun,
Melada=Molat, Meleda=Mljet, Mezzo=Lopud, Morter=Murter, Pago=Pag,
Pasmano=Pasman, Pelagosa=Pelagruza, Plauno=Plavnik, Premuda=Premuda,
Puntadura=Vir, San Marco=Sveti Marko, Sansego=Susak, Sant'Andrea=Svetac,
Scherda=Skrda, Selve=Silba, Sestrugno=Sestrunj, Slarino=Zlarin, Solta=Solta,
Spalmadori=Pakleni Otoki, Torcola=Scedro, Ulbo=Olib, Ugliano=Ugljan, Unie=Unje,
Veglia=Krk, Zirona Grande=Mali Drvenik, Zirona Piccola=Veliki Drvenik. Altre
entità geografiche: Adriatico=Jadransko More, Bebie (alpi)=Velebit, Boiana
(fiume)=Bojana, Bustinizza (fiume)=Bustinica, Castelli (riviera)=Kastela,
Cattaro (bocche)=boka Kotorska, Cettina (fiume)=Cetina, Cicola (fiume)=Cikola,
Cherca (fiume)=Krka, Contado=Kotari, Dalmazia=Dalmacija, Dinariche
(alpi)=Dinara, Eneo (fiume)=Recina, Mariano (monte)=Marjan, Morlacca
(canale)=Velebitski Kanal, Narenta (fiune)=Neretva, Planca (punta)=Ploca Rt,
Quarnaro=Kvarner, Radman (punta)=Raduc, Sabbioncello (penisola)=Peljesac,
Vissevizza (monte)=Visevica, Vrata (passo)=Vrata, Zermagna (fiume)=Zrmanja.
XIV
- Fonti
Le fonti di questa ricerca sono articolate e molteplici e cercano di
inquadrare la "nuova questione dalmatica" in un contesto più ampio
sia sotto il profilo temporale dell'analisi storica sia sotto quello spaziale,
inserendo la tematica in un più ampio contesto europeo.
Oltre alle dettagliatamente documentate fonti bibliografiche di seguito
indicate (nelle quali spiccano gli scritti di studiosi d'area dalmata contemporanei
quali Virginio Gayda, Giuseppe Praga, Alessandro Dudan, Attilio Tamaro, Alberto
Consiglio, Arturo Cronia; o non dalmati, su tutti il toscano Giotto Dainelli,
ed i giuliani Matteo Giulio Bartoli ed Isaia Graziadio Ascoli) si ha fatto pure
ricorso alla preziosa raccolta di articoli di giornali degli anni trenta
conservati nella Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, a riviste
attuali, ad enciclopedie, a dati raccolti in varie conferenze (anche in loco)
ed a testimonianze dirette di coloro i quali sono stati direttamente coinvolti
e spesso travolti, dagli avvenimenti che hanno segnato la storia della Dalmazia
in questo secolo. Alcune riviste attuali fonti di dati utili, quando non
preziosi, sono state tra le altre: "L'Italia Settimanale",
"Storia Illustrata", "Panorama". Oltre a ciò, in via più
specifica, preziosissime sono state la "Rivista Dalmatica",
"Fiume" (edita a Roma dagli esuli fiumani) e "Zara"
(quest'ultima edita ad Ancona dagli esuli dalmati). In particolar modo sono
state preziose le testimonianze raccolte presso il circolo milanese
dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, l'associazione che
raccoglie gli esuli della "diaspora adriatica" e quindi anche
dalmata, dove si sono potute raccogliere testimonianze dirette, oltre che
naturalmente su Zara e su Fiume, anche relativamente a Cherso, Lussino, Veglia,
Ugliano, Sebenico, Scardona, Dernis, Traù, Spalato, Lesina, Lissa e Lagosta.
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XVI - Indice
I
Premessa - p.1
II
Introduzione - p. 2
III
La relatività dell'idea di nazione - p. 22
IV
Considerazioni teoriche - p. 26
V
L'area balcanica - p. 35
VI
La Dalmazia nella storia sino alla nascita del problema nazionale - p.
38
VII
La Dalmazia e i modelli di nazione - p. 58
VIII
Dalla prima guerra mondiale alla pace di Parigi - p. 92
IX
D'Annunzio a Fiume - p. 117
X
La Dalmazia tra le due guerre mondiali - p. 128
XI
L'esodo - p.161
XII
La Dalmazia oggi - p. 170
XIII
Glossario italo-slavo - p. 188
XVI
Fonti - p. 193
XV
Bibliografia - p. 194
XVI
Indice - p. 213
[135]Altrove compare Vojnovic, altrove Voinovitch.
131Cfr.G.Feoli, La stampa periodica in Dalmazia, Zara, in "Nuovo Convivio"
[193]Cfr.T.Francesconi, Le ban
[297]P.Cantalupi, Per l'avvenire di Zara, cit., p. 9
dell'alto Adriatico 1866-1992 Austria Croazia Italia Slovenia, cit. tavola V
[419]A.D'Alia, La Dalmazia, le regioni limitrofe e l'Adriatico, Bologna, Edizioni Ant
[515]In Dalmazia vi sono due Cittavecchia, una a Lesina (meglio nota in italiano come Cittavecchia di Lesina) ed una in Liburnia; entrambe in croato sono dette Starigrad.