UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di laurea in Lettere

 

 

 

 

POLITICA ESTERA E OPINIONE PUBBLICA

IL TRATTATO DI OSIMO

 

 

 

 

Tesi di Laurea di:

Valentina Picariello

 

 

 

Relatore: Chiar.mo Prof. Alfredo Canavero

 

 

 

Anno Accademico 1995-1996







INTRODUZIONE

 

Soltanto negli ultimi quattro anni si è verificato un maggiore interesse da parte della stampa e di conseguenza dell’opinione pubblica, per i fatti accaduti alla fine della seconda guerra mondiale sul confine orientale.

Quale che ne sia la causa: la guerra nella ex Iugoslavia, che ha riproposto il problema dei diritti degli italiani della Venezia Giulia, piuttosto che la volontà di certa parte della classe politica italiana di rivedere posizioni oramai non più giustificabili, questo ha senz’altro fatto sì che si sia creata una maggiore coscienza storica su fatti e avvenimenti troppo a lungo dimenticati da parte della storiografia italiana.

Non è certamente un caso che la più parte di saggi, volumi e libri sull’argomento siano opera di storici e studiosi dell’area interessata, quasi che per quarant’anni si fosse volutamente rinunciato a scrivere o a discutere su questioni tanto importanti per la storia del Paese quanto scomode nei loro risvolti storico - politici.

Il lavoro quivi svolto non intende affrontare la problematica dei confini orientali nella sua interezza, anche perché questo rappresenterebbe un lavoro di immani proporzioni, e comunque in gran parte già studiato e analizzato, ma incentrare la sua attenzione su di un fatto ben preciso, vale a dire l’ultimo capitolo di una storia difficile e complessa, che solo nel 1975 trovò la sua conclusione.

L’analisi che ne è scaturita riguarda principalmente le reazioni dell’opinione pubblica di fronte ad un fatto che sanciva l’irrimediabilità della perdita di una porzione di territorio nazionale che per trent’anni non si era capito bene, soprattutto per volontà della classe politica, se appartenesse all’Italia o alla Iugoslavia, che ne rivendicavano la sovranità.

La mancanza pressoché totale di una bibliografia di carattere storiografico che analizzasse gli Accordi di Osimo e al contempo un numero non irrilevante di materiale a carattere giuridico , ha portato alla conclusione che un’analisi storico - politica avrebbe comunque colmato un vuoto.

Non ritenendo quindi necessario rivisitare la storia della Venezia Giulia, essendo sufficiente per le parti riguardanti gli avvenimenti di carattere generale la bibliografia disponibile, si è giudicato interessante soffermarsi sull’avvenimento più recente.

Il Trattato di Osimo è stato dunque analizzato secondo diverse prospettive.

Partendo da uno studio approfondito degli accordi, teso ad illustrare con chiarezza la natura degli stessi, ci si è valsi principalmente delle opinioni di giuristi apparse sia in opere a stampa sia in periodici specializzati, e anche in questo caso non si può non rilevare l’assoluta preponderanza di studiosi locali.

Tale analisi di carattere prevalentemente giuridico, e che per questo potrebbe in parte esulare da un lavoro di carattere storico, si è resa necessaria per una precisa comprensione della portata di un accordo di carattere internazionale non sufficientemente studiato in ambito storico.

Ecco quindi che valutazioni giuridiche sul perdurare della sovranità italiana sulla zona B - dal momento che questo rappresentava il punto di maggiore scontro tra chi sosteneva la validità del trattato e chi invece la negava - diventano un’ottima fonte di carattere storico.

Partendo inoltre dal presupposto che una ricerca approfondita delle motivazioni politiche che portarono il governo italiano alla decisione di chiudere l’ultima questione ancora aperta con la vicina Repubblica Federativa di Iugoslavia, avrebbe necessitato di fonti non facilmente reperibili, si è preferito incentrare lo studio sulle reazioni da parte dell’opinione pubblica.

Esse sono state analizzate attraverso una suddivisione sia di carattere spaziale che temporale; e utilizzando come fonti soprattutto quotidiani e periodici coevi.

In primo luogo si è scelta la prospettiva locale, essendo quella più direttamente coinvolta e dalla quale sono derivate le conseguenze più rilevanti. La formazione infatti di un movimento di opinione e di protesta cui ha fatto seguito la nascita di una lista politica hanno dimostrato l’enorme capacità reattiva della città di Trieste di fronte ad una soluzione che nessuno aveva chiesto né tanto meno auspicato.

Dato non meno significativo si è dimostrato essere il ruolo sostenuto dal quotidiano locale Il Piccolo che per oltre tre anni ha appoggiato e soprattutto dato voce alla protesta.

Quanto emerso in sede locale ha rilevato quindi la possibilità di opporsi ad un trattato internazionale; e se anche non si arrivò all’obiettivo estremo, rappresentato dall’ottenimento della mancata ratifica del trattato, si riuscì in ogni caso ad impedire l’attuazione degli accordi riguardanti la parte economica.

Questo è indicativo anche del fatto che la protesta si indirizzò principalmente nei confronti dell’accordo economico che prevedeva la costituzione di una zona franca industriale sul Carso, mettendo invece in secondo piano la definitiva perdita della zona B, cioè dell’ultimo lembo di terra istriana, per trent’anni in bilico non solo tra due diverse nazioni, ma soprattutto tra due sistemi politico - economici opposti; dimostrando in tal modo come fosse stata accettata ormai quasi da tutti (se si eccettuano le organizzazioni di profughi istriani) la impossibilità di mutare la soluzione dei confini, con tutta l’amarezza che questo comunque comportava.

Se pure la risposta di Trieste fu così ampia e, in ogni caso, non fine a se stessa, date le conseguenze politiche che ne derivarono, la reazione del Paese si dimostrò invece abbastanza tiepida.

Analizzata attraverso le più importanti testate nazionali, in un arco di tempo di tre anni, cioè dalle prime indiscrezioni su un accordo che avrebbe chiuso la vertenza sui confini orientali, fino alla incredibile vittoria della Lista per Trieste alle elezioni amministrative del 1978; ha mostrato una certa unanimità di giudizio sia storico che politico nei confronti della vicenda.

Palesando in ogni caso uno scarso interesse per quanto si stava verificando, dimostrabile anche dalla ridotta capacità di catalizzare l’attenzione della gente, essa si adeguò sostanzialmente alle posizioni della classe politica, definendo ineluttabile la perdita della zona B, e di grande interesse per il futuro di Trieste la realizzazione della zona franca industriale.

Ancorata ancora a vecchi stereotipi di stampo postbellico, la “stampa di regime” trovò la giustificazione dell’operato del governo sia nell’eredità fascista, sia nella necessità di farsi garanti della salvaguardia della Iugoslavia, come se ancora nel ’75 la rottura della Federazione Comunista con Mosca rappresentasse un’importante occasione per l’occidente di contrastare il comunismo sovietico; quando semmai si trattava più semplicemente di favorire l’inserimento della Iugoslavia di Tito, in vista anche della sua prossima dipartita, nel circolo di relazioni politico - economiche europee ed occidentali.

I ripensamenti, o meglio una parziale revisione di quanto affermato e sostenuto davanti all’opinione pubblica per circa due anni, seguirono, anche in questo caso, l’andamento della politica. Nel momento in cui a Trieste si formò e poi vinse le elezioni una nuova forza politica nata dal nulla, con il solo scopo di contrastare gli Accordi di Osimo; sia le vecchie formazioni politiche, sia di conseguenza quella che venne definita dai Radicali “stampa di regime”, giudicarono opportuno riconsiderare le loro posizioni in merito alla zona franca, da un lato mostrandosi più possibilisti sulla non fattibilità della stessa, dall’altro criticando e contrastando la Lista per Trieste, la quale in ogni caso dimostrò una notevole forza e solidità, imponendosi come primo partito politico a Trieste anche negli anni seguenti.

La conclusione dello studio non poteva d’altra parte non prendere in considerazione gli ultimi risvolti in merito agli Accordi di Osimo, ridivenuti di attualità in seguito alla dissoluzione della ex Iugoslavia e alla secessione delle due Repubbliche di Slovenia e Croazia.

Nel 1992 si riaccese infatti la polemica riguardante il trattato con la ex Repubblica Federativa di Iugoslavia. La disgregazione dello Stato comunista sembrò essere una buona occasione per rivedere alcune clausole del trattato che erano parse, negli anni, particolarmente inique. Tra esse prime fra tutte la questione dei beni abbandonati dagli esuli, e l’esplicita loro richiesta di riottenerne la proprietà.

Le trattative tra Italia e Slovenia durate circa quattro anni, tra momenti di avvicinamento e altri di distacco, si sono concluse con l’ottenimento di un parziale diritto di prelazione per gli esuli nel riacquisto delle proprietà, ma senza alcuna restituzione.

Interessante notare come sulla questione dei beni abbandonati la polemica sia esplosa soltanto dopo la disgregazione jugoslava. E’ stato infatti soltanto allora che si è aperta per gli esuli la possibilità di rivedere quegli aspetti degli accordi che al momento della firma e della ratifica non erano apparsi nella loro globalità[1].

 


 

 

 

 

 

 

CAPITOLO I :

 

ANALISI DEGLI ACCORDI ITALO-IUGOSLAVI DEL 10/11/1975


Il 10 novembre del 1975 con la firma degli Accordi di Osimo la Repubblica Italiana e la Repubblica Socialista Federativa di Iugoslavia chiusero definitivamente il lungo e difficile contenzioso riguardante il confine.

Veniva in tal modo archiviata la cosiddetta “questione di Trieste”, quell’insieme di fatti, controversie, accordi che dalla fine della seconda guerra mondiale avevano condizionato i rapporti internazionali e bilaterali dell’Italia per circa un trentennio.

L’aspetto territoriale era relativo alla porzione di territorio della Venezia Giulia, comprendente Trieste, il suo entroterra e la parte settentrionale della penisola istriana, conteso tra Italia e Iugoslavia, che le potenze vincitrici avevano deciso, con il Trattato di pace del 1947, di internazionalizzare, denominandolo Territorio Libero di Trieste.

L’impossibilità di nominare un Governatore accettato dalle parti in causa, impedì l’istituzionalizzazione del TLT che restò una sorta di territorio nullius[2], sottoposto all’occupazione militare alleata nella zona A, estesa fino al golfo di San Bartolomeo, e a quella militare jugoslava nella zona B, in base alla delimitazione fra le due zone, decisa da precedenti accordi intercorsi nel 1945  tra i comandi alleato e jugoslavo.

Credo si possa affermare che gli Accordi di Osimo rappresentino la logica e inevitabile conclusione di un lungo processo di avvicinamento tra i due Paesi, che, nonostante le numerose e varie battute d’arresto, si era decisamente intensificato negli ultimi vent’anni attraverso accordi economici e visite di stato.

Una parziale soluzione della controversia si era avuta infatti nel 1954, quando con la stipula degli Accordi di Londra si stabilì la cessazione del governo militare nelle zone A e B del mai istituito TLT, e il passaggio della prima all’amministrazione italiana e della seconda all’amministrazione civile jugoslava. Soluzione parziale perché una espressa richiesta del governo italiano - per ragioni di politica interna -, aveva fatto sì che il Memorandum avesse carattere di provvisorietà contro le intenzioni sia della Iugoslavia che di Stati Uniti e Gran Bretagna.

Quando, nel 1975, l’Italia ritenne opportuno chiudere la controversia con lo Stato confinante, approfittò sia di una più favorevole situazione interna, con un’opinione pubblica meno attenta e di conseguenza più disposta ad accettare ciò che veniva presentato come inevitabile[3]; sia del nuovo clima internazionale scaturito dalla Conferenza di Helsinki dell’agosto 1975, che sanciva l’intangibilità delle frontiere uscite dalla seconda guerra mondiale e promuoveva la cooperazione in Europa; quasi che Italia e Iugoslavia avessero dovuto portare un contributo alla politica di Helsinki con l’apertura di una nuova fase nei loro rapporti bilaterali.

Il preambolo del Trattato appare infatti come una sintesi dei principi della Conferenza. In esso le parti contraenti si dichiarano “convinte che la eguaglianza fra Stati, la rinuncia dell’impiego della forza ed il rispetto conseguente della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’inviolabilità delle frontiere, [...] la non ingerenza negli affari interni degli altri Stati [...] unitamente all’applicazione in buona fede di ogni obbligo internazionale”, rappresentino “la base della salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale e dello sviluppo delle relazioni amichevoli e della cooperazione fra gli Stati”[4].

Non mancò comunque chi lesse il contenuto degli Accordi di Helsinki con l’ottica di chi spera in una soluzione diversa: “Per ultimo sia l’Italia che la Iugoslavia firmando l’accordo finale della Conferenza per la Sicurezza Europea ad Helsinki si sono reciprocamente impegnate al rispetto degli accordi territoriali esistenti e quindi anche quelli fissati dal Trattato di Pace e dal Memorandum”[5]. Ma aldilà di ogni opinione, “è sotto il profilo della logica e non sotto la spinta del sentimento che va esaminato il Trattato di Osimo” [6].

Essi risultano composti da:

n  un Trattato politico

n  un Accordo sulla cooperazione economica

n  un Atto finale”[7]

n  e uno scambio di lettere in materia di cittadinanza.


I.1. IL TRATTATO POLITICO

 

Poiché si può affermare che gli accordi furono stipulati essenzialmente per chiudere la vertenza confinaria e non per creare nuove occasioni di cooperazione economica, ne consegue che il trattato politico è da considerarsi la parte fondamentale degli stessi.

Dei nove articoli da cui è costituito, i primi due riguardano la definizione del confine terrestre e di quello marittimo, il terzo, il quarto e il quinto si occupano di regolamentare le questioni legate ai cambiamenti territoriali - appartenenza delle persone fisiche e dei beni, diritti ed interessi di esse e delle persone giuridiche -; il sesto anticipa l’accordo sulla cooperazione economica, rendendo in tal modo inderogabilmente legati i due accordi; seguono il settimo che dichiara decaduto il Memorandum di Londra all’entrata in vigore del trattato di Osimo, e l’ottavo che si preoccupa di definire la questione delle minoranze, dal momento che insieme al Memorandum decadde anche lo Statuto Speciale relativo alla tutela delle rispettive minoranze nelle due zone; conclude il nono che rimanda allo scambio degli strumenti di ratifica, il giorno dell’entrata in vigore del Trattato.

 

I.1.1. IL CONFINE TERRESTRE

La frontiera, cui si riferisce l’articolo 1, e che viene descritta minuziosamente nei primi allegati, legittimò in pratica una situazione di fatto, ricalcando per un tratto il confine già esistente tra i due Stati, stabilito dal Trattato di Pace del ’47; e per il successivo la linea di demarcazione tra zona A e zona B, vale a dire da Monte Goli all’insenatura di san Bartolomeo.

Tale delimitazione non comportò quindi nessuna nuova cessione di territorio alla Iugoslavia, rispetto a quanto stabilito sia dal Trattato di pace che dal Memorandum d’Intesa; seppure si fece strada una tesi dottrinale, che, teorizzata dal Cammarata[8] già negli anni ’50, e sostenuta in seguito sia da certa parte della nostra giurisprudenza, sia dall’opinione pubblica istriana, si riferiva alla permanenza della sovranità italiana sulla ex - zona B.

Al riguardo può risultare interessante quanto asserito dall’Avv. Lino Sardos Albertini, Presidente dell’Unione degli Istriani, il quale, in un opuscolo pubblicato nel 1976 con lo scopo di chiedere al capo dello Stato di negare la ratifica degli Accordi di Osimo, affermava che i confini italo - jugoslavi “erano già certi, in quanto il confine jugoslavo in questione era stato fissato in maniera precisa, dettagliata ed esplicita dall’art. 22 del trattato di Pace ed era anche garantito dalle altre 21 potenze firmatarie del detto Trattato e perfino, ai sensi dell’art. 21, dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU”[9], e, in una precedente pubblicazione, teorizzava che “il Trattato di Pace disponeva la cessazione sia della sovranità italiana che della cittadinanza italiana, ma ciò non come precetto autonomo ed immediato bensì in funzione dell’istituendo nuovo stato del territorio Libero di Trieste; che esse non sono venute meno per il mancato realizzarsi delle condizioni cui la loro cessazione era soggetta; che nel periodo successivo non è intervenuta modifica alcuna; che il Memorandum ha lasciato invariata [la situazione], giacché nessuna norma vi risulta al riguardo”[10] Tale posizione restò comunque quasi del tutto isolata tra gli studiosi del diritto internazionale, nonostante negli anni ’50 e ’60, venisse fatta propria da parte della giurisprudenza italiana: ne sono prova le  molte sentenze che dichiarano la validità della sovranità italiana sulla zona B.

Il Ministro degli esteri Rumor, rapportandosi invece alla dottrina secondo la quale l’Italia con il Memorandum aveva perso ogni diritto di sovranità sulla zona B, nella sua relazione alla Camera il 1° ottobre 1975, a proposito del processo di riordinamento di alcuni tratti del confine stabilito dal Trattato di pace del 1947, sottolineò come notevole conquista della diplomazia italiana il fatto che: “si provvederà allo sgombero di sacche e a taluni aggiustamenti [e che] ritornerà all’Italia la vetta del monte Sabotino che era stata assegnata alla Iugoslavia a seguito del Trattato di pace”[11].

Questa asserzione rese nel contempo evidente che con il Trattato non ci si preoccupava soltanto di rendere definitiva la linea di demarcazione voluta nel 1954, ma si provvedeva anche, seppure in modo implicito, a eliminare le ultime contese territoriali rimaste insolute dalla fine della guerra.

Esse riguardavano l’occupazione abusiva da parte di entrambi gli Stati, ma in misura nettamente preponderante da parte della Iugoslavia, di alcune sacche di territorio, avvenuta all’indomani del Trattato di pace.

Causa di tale illecita occupazione si dimostrò essere un articolo del Trattato che autorizzava le commissioni incaricate di delimitare il terreno, a scostarsi di mezzo chilometro dalla linea di confine fissata, per adeguare la frontiera alle condizioni geografiche ed economiche locali. Questa clausola consentì infatti ai due Stati a sentirsi autorizzati ad occupare abusivamente alcune sacche, nonostante venisse nel contempo specificato che lo spostamento della linea di confine, non avrebbe dovuto comprendere in una nazione né villaggi con più di 500 abitanti, né linee ferroviarie, strade importanti, sorgenti di energia elettrica ed acqua, che erano stati sottoposti alla sovranità dell’altra.

Il problema delle sacche, per quanto non venga esplicitamente trattato negli accordi, venne risolto attraverso una sorta di “gentlement’s agreement”[12] in base al quale la Commissione italo - jugoslava per la demarcazione del confine fu incaricata di provvedere anche all’eliminazione delle suddette sacche.

In riferimento invece alle due sacche più importanti, del Sabotino e del Colovrat, così intese sia per estensione territoriale che per importanza strategica, la loro eliminazione risultò indirettamente dall’accordo economico, come verrà esaminato in seguito.

 

I.1.2. IL CONFINE MARITTIMO

 

L’articolo 2 con gli allegati III, IV e V definisce il confine marittimo tra le due nazioni.

Anche in questo caso venne praticamente legittimata una situazione di fatto; accogliendo, salvo lievi miglioramenti, il tracciato fissato unilateralmente dalla Iugoslavia.

Essa infatti, alla fine degli anni ‘50, aveva provveduto a tracciare le linee rette di base previste dalla Convenzione di Ginevra del 1958[13], e in relazione a queste a stabilire la linea mediana tra le due coste; l’Italia invece, non è chiaro “se per trascuratezza o per la preoccupazione che potesse risultarne avvalorato il carattere definitivo della ripartizione territoriale della zona”[14], non fece altrettanto riguardo alle proprie acque territoriali; il Governo italiano si limitò a non considerare giuridicamente valido il confine tracciato dalla Iugoslavia e da essa presidiato con motovedette armate, pur accettandolo, a suo dire, “temporaneamente”. In realtà il temporaneamente valido si è poi trasformato, con il Trattato di Osimo, in definitivamente valido, e ingiustificata e soprattutto fuori luogo è apparsa la volontà del Governo di provvedere, a ratifica ormai avvenuta degli Accordi, alla applicazione delle linee rette di base nel Golfo di Trieste; se infatti ciò fosse avvenuto in precedenza, sarebbe stato possibile spostare la frontiera un po’ più a oriente, permettendo realmente l’accesso al porto di Trieste a navi di grosso tonnellaggio attraverso acque territoriali italiane.

La grave conseguenza infatti di tale delimitazione risiede nel fatto che le navi di grosso tonnellaggio sono obbligate, nella stessa misura di prima, al transito in acque territoriali jugoslave, smentendo quanto era stato affermato dal ministro Rumor nella sua presentazione degli accordi alla Camera: “La frontiera marittima tra l’Italia e la Iugoslavia sarà delimitata nel golfo di Trieste attribuendosi all’Italia fondali adeguati al transito di navi di grosso tonnellaggio, in modo da garantire ad esse l’accesso al porto anche attraverso acque territoriali italiane, correggendo l’attuale necessità di attraversare le acque territoriali jugoslave.”[15] Infatti, se è vero che la linea di confine corre su fondali di 19-24 m., sufficienti a consentire il transito a navi di grossa stazza, è altrettanto vero che a partire dalla suddetta linea verso il litorale, i fondali degradano notevolmente rendendo pericoloso un traffico navale di tal genere.

Oltre a questo, è da sottolineare il fatto che, per quanto concerne l’articolo 2 con i relativi allegati, il Trattato non pare indirizzato verso quella volontà di cooperazione e di collaborazione cui gli accordi sembrano invece ispirarsi, e senz’altro si sarebbe dimostrata assai più consona ai presupposti degli stessi “l’adozione d’un regime di comunione d’uso delle acque del Golfo”[16], o perlomeno “l’aver tenuto conto nella loro delimitazione anche di titoli storici e delle circostanze speciali che nel caso presente non mancano davvero”[17], elementi che, sempre in base alla Convenzione di Ginevra, esplicitamente richiamata nell’Allegato V, possono essere presi in considerazione ai fini di una delimitazione fra Stati opposti o contigui.

Inoltre sia il carattere prioritario assegnato alla conservazione dell’ambiente nell’incremento delle zone litoranee, diretta conseguenza di una nuova politica che vide, nei primi anni ’70, la necessità e l’urgenza di adeguati piani di sviluppo nelle zone costiere, e che si esplicitò nella Conferenza di Stoccolma del 1972; sia l’esigenza di una pianificazione integrale dello sviluppo di due Stati confinanti, porta a domandarsi se abbia senso una linea di demarcazione territoriale nelle acque di un golfo, “la cui sopravvivenza dipende dall’azione combinata di ambedue gli Stati costieri interessati”[18].

 

I.1.3. CITTADINANZA ED INDENNIZZI

 

Gli articoli 3, 4 e 5 del Trattato politico si occupano di risolvere le questioni riguardanti l’appartenenza fisica e giuridica delle persone, dei beni e degli interessi di esse nelle due zone coinvolte dall’accordo confinario.

Più precisamente, l’articolo 3 riguarda la definizione della cittadinanza della popolazione residente sulle ex zone A e B.[19]

In misura ancora maggiore rispetto alla vertenza confinaria, la questione della cittadinanza riportò alla ribalta la controversia incentrata sulla conservazione o meno da parte dell’Italia della sovranità sul Territorio Libero di Trieste, e quindi sulla perdita o sul mantenimento della cittadinanza italiana da parte degli abitanti delle due zone.

Tra gli studiosi del diritto, come già osservato precedentemente, sono state avanzate diverse tesi circa la qualificazione delle condizione giuridica del territorio triestino. Esse si basano principalmente sull’analisi dell’art. 21, comma 2, del Trattato di pace con l’Italia del 10 febbraio 1947, il quale dichiara che “la sovranità italiana sulla zona costituente il TLT cesserà con l’entrata in vigore del presente trattato”[20]; e sull‘analisi  dell’art. 6 dello Statuto permanente del Territorio Libero di Trieste, secondo il quale, i cittadini italiani che, al 10 giugno 1940 (anno di entrata in guerra dell’Italia) erano domiciliati nelle frontiere del TLT ed i loro figli, nati dopo quella data, sarebbero diventati cittadini del Territorio Libero, con pieni diritti civili e politici; cui si aggiungeva l’ulteriore precisazione che, solo nel momento in cui fossero diventati cittadini della nuova compagine statale, essi avrebbero perso la cittadinanza italiana.

Le varie interpretazioni si attestarono sostanzialmente su due differenti  posizioni. Da un lato chi sosteneva che la cessazione della sovranità italiana sulla zona in questione, era subordinata alla effettiva costituzione del TLT; quindi nel momento in cui, questa si era dimostrata irrealizzabile, l’Italia aveva mantenuto la propria sovranità; e tra essi citiamo: Cammarata, Sardos Albertini e Sinagra.

Dall’altro si ritrovarono invece coloro (Udina, lo stesso Governo italiano) che affermavano che l’Italia, con l’entrata in vigore del Trattato di pace, aveva perso la sovranità, e di conseguenza la zona costituente il TLT era diventata una sorta di territorio di nessuno.

E’ necessario però sottolineare che, nonostante i contrasti dottrinali e giurisprudenziali circa la condizione giuridica del territorio triestino, gli studiosi più attenti si sono sempre attestati sulla medesima posizione al riguardo del perdurare della cittadinanza italiana per gli abitanti del mai costituito TLT.

Se infatti le persone residenti nelle due zone avessero perso la cittadinanza italiana prima di acquisire quella del Territorio Libero ( in realtà mai acquisita), quale sarebbe stata la loro condizione giuridica? Si sarebbe andati incontro ad un caso di apolidia generalizzato, ipotesi certamente non auspicabile dalla diplomazia internazionale, la quale provvide infatti ad evitare tale possibilità legando la perdita di una cittadinanza all’acquisizione dell’altra.

La posizione forse più obiettiva si può attribuire ad Antonio Panzera, che afferma: “Quale che sia la posizione che si intenda accogliere in ordine alla condizione giuridica del territorio triestino dopo l’entrata in vigore del Trattato di pace, sembra potersi affermare che gli abitanti dell’allora costituendo Territorio libero di Trieste non perdettero la cittadinanza italiana”[21].

Un’attenzione particolare va riservata al saggio di Augusto Sinagra pubblicato sulla Rivista di diritto internazionale[22] .

In esso lo studioso, a proposito del perdurare della sovranità italiana sull’intero TLT, asserisce che la svolta decisiva si ebbe con il Memorandum d’Intesa, il quale, pur non potendo influire sulle determinazioni finali per il suo carattere di provvisorietà; attraverso la concessione dell’amministrazione civile italiana sulla zona A e il contemporaneo ritiro delle forze militari alleate, sembrò “avere il senso di una restituzione della zona A alla piena sovranità italiana, comprensiva anche delle sue prerogative formali; laddove, viceversa, la corrispondente attribuzione in amministrazione civile della zona B alle autorità jugoslave conserva il carattere di provvisorietà e di effettiva limitatezza che ci sembra congeniale al contenuto stesso di meri poteri di amministrazione civile”[23] .

Partendo da tale considerazione, Sinagra può poi affermare che si sarebbe dovuto formulare in maniera differente il Trattato di Osimo, dal momento che “l’oggetto [...] avrebbe dovuto essere solo e soltanto la zona B del mancato TLT senza alcuna corrispondenza di trattamento, come viceversa fa l’art.3 “[24].

Ciò che Sinagra contesta è il fatto che l’art. 3 consideri sul medesimo piano di valutazione la zona A e la zona B, in modo da definire le questioni di cittadinanza in relazione agli abitanti dell’una e dell’altra zona; opinione dello studioso è invece che il trattato avrebbe dovuto disciplinare la definizione giuridica della sola zona B, “nel senso di riconoscerne l’appartenenza alla piena sovranità anche formale dello Stato jugoslavo”[25].

Tale posizione viene però contestata da Panzera il quale sostiene che una simile constatazione: “[...] non tiene adeguatamente conto del fatto che qualsiasi trattato rappresenta il punto d’incontro delle volontà di due (o più) soggetti internazionali sicché il suo testo... necessariamente rispecchia differenti posizioni negoziali !”[26].

Nel procedere ora ad un’analisi del contestato articolo 3 del Trattato, unitamente al suo Allegato VI, riguardanti appunto la regolamentazione della cittadinanza degli abitanti delle due zone, non si può prescindere da un raffronto con i due atti precedenti, vale a dire l’articolo 19 del Trattato di pace del 1947, e il paragrafo 8 del Memorandum di Londra.

La distinzione più significativa tra il Trattato di pace e quello di Osimo risiede nel fatto che, mentre l’articolo 19 si occupò di stabilire le clausole, in materia di cittadinanza, di un territorio che l’Italia, avendo perduto la guerra, cedeva ad un altro Stato, l’articolo 3 invece non fa mai riferimento alla zona B come territorio ceduto.

Tale differenza è da imputare probabilmente da un lato alla formulazione del comma 4 dell’articolo 21 del Trattato di pace del 1947 il quale dichiarava esplicitamente che il TLT non doveva essere considerato come territorio ceduto dall’Italia; dall’altro perché “tale fatto, come è evidente, avrebbe confermato la tesi di una sovranità italiana su quel territorio mantenutasi oltre il Trattato di pace ed oltre - a maggior ragione - il Memorandum di intesa del 1954”[27].

Ancora Sinagra prosegue sostenendo l’evidenza dello “[...] sforzo diplomatico diretto a redigere il Trattato, anche per quel che riguarda le implicazioni di cittadinanza, in modo tale da non ammettere neppure per implicito una sussistenza di sovranità italiana sulla ex zona B oltre l’entrata in vigore del Trattato di pace” [28].

Lo stesso Udina, pur essendo uno dei più convinti fautori della perdita, da parte dell’Italia, della sovranità sul TLT, sottolinea come sia stato interesse di entrambe le parti non evidenziare troppo le precedenti posizioni sulla natura giuridica del TLT.[29]

L’art. 3 non attribuisce infatti direttamente la cittadinanza dello Stato jugoslavo alle persone che erano cittadini italiani ed erano residenti sul territorio in questione alla data dell’entrata in guerra dell’Italia, come invece aveva stabilito l’art. 19 del Trattato di pace, ma rinvia tale compito alla legislazione dei due Paesi, in materia di cittadinanza. Non vi è infatti, nel Trattato di Osimo, e non avrebbe potuto esservi, alcuna menzione di diritti di opzione; non essendo considerata la zona B come territorio ceduto.

Il problema per l’attribuzione della cittadinanza fu risolto con il dare rilevanza alla residenza come “elemento rivelatore di un legame effettivo”[30].

Il presupposto di questa norma si ritrova nel paragrafo 8 del Memorandum d’Intesa; in esso infatti si prevedeva che: “[...] Per un periodo di due anni dalla parafatura del presente Memorandum d’Intesa le persone già residenti nell’una o nell’altra delle predette zone e che non intendono ritornarvi, e le persone ivi attualmente residenti le quali decidano, entro un anno [...], di abbandonare tale residenza, avranno la facoltà di trasferire i loro beni mobili ed i loro fondi, [...] o di alienare i loro beni mobili ed immobili”.

Il testo del paragrafo, come sottolinea Panzera, sembra ricalcare strettamente le norme che disciplinano le conseguenze della domanda di opzione della cittadinanza (in materia di trasferimento di residenza, facoltà di trasferimento dei beni o di vendita e alienazione degli stessi). Quasi che, non potendo disciplinare la cittadinanza per il carattere provvisorio dell’accordo, si fosse voluto dare legittimità a tali possibilità, attraverso “quel collegamento de facto fra l’individuo e lo Stato costituto dalla residenza”[31].

L’aspetto forse più interessante del Trattato di Osimo in materia di cittadinanza, è da ricercarsi nell’Allegato VI piuttosto che nell’articolo 3.

Esso infatti, costituto dallo scambio di lettere tra i rappresentanti dei due governi, reca l’unica traccia della controversia sulla qualificazione giuridica della zona B.

La differenza sostanziale tra le due missive verte sul fatto che nella lettera indirizzata al Ministro degli Esteri italiano Rumor, si fa riferimento ad uno svincolo della cittadinanza jugoslava per i membri del gruppo etnico italiano che esprimeranno la loro intenzione di trasferirsi in Italia; mentre in quella indirizzata al Segretario degli Affari Esteri jugoslavo, Minic, si parla di riconosciuto acquisto della cittadinanza jugoslava per i membri del gruppo etnico jugoslavo.

Questo potrebbe, sia voler dimostrare che in precedenza non sarebbe stata possibile la concessione, unilateralmente da parte italiana, della cittadinanza jugoslava per coloro che, pur appartenendo al gruppo etnico jugoslavo, erano a tutti gli effetti cittadini italiani; sia palesare, attraverso il riconoscimento della cittadinanza italiana per gli appartenenti alla minoranza italiana, una mai avvenuta accettazione da parte dello Stato italiano, della cittadinanza jugoslava per gli italiani residenti nella zona B.

Ulteriore conferma di tale posizione si ritrova nello Scambio di Lettere tra i due Ministri rimasto fuori dall’Atto finale del Trattato, secondo il quale: “Le persone che, in base allo scambio di lettere in materia di cittadinanza, ricevono il congedo dalla cittadinanza jugoslava e si trasferiscono in Italia, sono considerate, nei confronti della legislazione italiana, come se non avessero perduto la cittadinanza italiana”. Infatti oltre a non esistere un corrispettivo da parte jugoslava, la risposta del Ministro degli Esteri jugoslavo, nella lettera di rimando, è assai eloquente: “Ho l’onore di comunicarLe che il mio Governo non ha obiezioni da formulare a quanto precede”.[32]

Resta solo da aggiungere che tutte le norme del Trattato di Osimo in materia di cittadinanza restarono in gran parte sulla carta; sia perché ormai la situazione si era a tal punto stabilizzata in entrambe le zone da far ritenere assai improbabile un ulteriore spostamento di popolazione, sia perché, da parte jugoslava, non sussisteva alcun reale motivo per favorire il trasferimento della minoranza slovena in Iugoslavia, né si aveva interesse a lasciar diminuire ulteriormente l’esigua minoranza italiana.[33]

L’articolo 4 del Trattato riguarda invece le intese italo - jugoslave in materia di indennizzi[34]

La novità più importante, rispetto al Trattato di pace, risiede nell’esplicita menzione riguardo la possibilità di ricevere un indennizzo per il danno subito; si tratta in realtà di una novità più formale che sostanziale: dal momento che, se pure l’art. 76 dichiarava esplicitamente che l’Italia avrebbe dovuto rinunciare a qualsiasi richiesta di risarcimento, a tale rinuncia venivano d’altra parte poste delle limitazioni nell’Allegato XVIII.[35]

Altra novità di un certo rilievo è la possibilità, già annunciata dal Ministro degli Esteri Rumor, durante la presentazione degli Accordi al Parlamento, di lasciare agli aventi diritto che ne avessero fatto domanda, la disponibilità di alcuni beni immobili, con la clausola però che fossero dati in uso o in amministrazione a parenti o vicini dei titolari.

Nello Scambio di Lettere, contenuto nell’Allegato VIII, si precisa poi, che tale facoltà si riferisce soltanto alle proprietà immobiliari di coloro che, dal territorio jugoslavo, avessero inteso trasferirsi in quello italiano. Specificazione resasi necessaria per la diversità del regime giuridico dei beni immobili fra Italia e Iugoslavia; tale concessione risultava infatti in deroga all’atteggiamento jugoslavo, contrario in linea di principio alle proprietà immobiliari straniere sul proprio territorio.

Bisogna comunque rimarcare che tanto l’intero articolo 4 quanto i suoi allegati si limitano a dare delle indicazioni di massima su quello che dovrà poi essere l’atteggiamento dei due governi nei successivi negoziati. In tal modo non ci fu la possibilità di comprendere l’effettiva portata sia dell’entità degli indennizzi, dal momento che nel Trattato si parla di “indennizzo globale e forfettario, equo ed accettabile dalle due parti”, ma non si specificano i termini; sia di quanto accennato a proposito dell’eventualità di lasciare agli aventi diritto la disponibilità di alcuni beni immobili.

La questione dei beni mobili ed immobili situati nella zona B subì chiaramente un iter diverso rispetto ai beni abbandonati nei territori ceduti. Essa vide una parziale risoluzione nel 1958, vale a dire quattro anni dopo il Memorandum di Londra, con la concessione da parte del Governo italiano di un indennizzo per i beni immobili abbandonati, a favore di coloro che avevano deciso di trasferirsi in Italia.

La legge del 1958 oltre a stabilire alcuni presupposti di non facile attuazione da parte dei diretti interessati, quali la necessità che avessero presentato prima del 5 gennaio 1956 una dichiarazione di rinuncia, e che tale domanda fosse stata presentata nei termini stabiliti; divise tali beni in due categorie diverse: a) i beni che erano stati sottoposti a misure di nazionalizzazione, di esproprio, di confisca da parte dell’autorità jugoslava; b) quelli che invece non erano stati sottoposti a misure limitative della libertà.

Per i primi era previsto un indennizzo, eccetto il caso in cui i proprietari avessero ricevuto qualsiasi forma di liquidazione da parte del Governo jugoslavo; con riguardo ai secondi invece, l’indennizzo poteva venire corrisposto solo se si fosse dimostrata l’impossibilità da parte dei proprietari di esercitare i loro diritti, in aggiunta alla stesura di una dichiarazione con la quale cedevano allo Stato italiano i loro diritti.

Nel contempo il Ministero del Tesoro provvide a costituire un ente per la gestione di tali beni.

Essi furono comunque liquidati in base ad una stima del 1938 (e questo si era verificato anche per i beni dei territori ceduti), cui seguirono varie maggiorazioni dei coefficienti di valutazione.

Da parte della comunità istriana ci fu il tentativo, negli anni immediatamente seguenti il Memorandum, di impedire l’approvazione di una legge, riguardante i beni immobili della zona B, che prevedesse la concessione di indennizzi.

Questa presa di posizione, per alcuni versi discutibile e magari non condivisibile, trova la sua spiegazione in un opuscolo pubblicato dall’Unione degli Istriani nel 1956, dove si sottolineava il fatto che essendo la zona B sempre sotto la sovranità italiana, per quanto sottoposta momentaneamente all’amministrazione jugoslava, non poteva essere concepibile la cessione alla Iugoslavia di proprietà immobiliari di un territorio italiano; in esso si legge: “I beni della zona B devono, quindi, assolutamente rimanere di proprietà italiana, né devono essere da noi riconosciuti come legittimi e validi i vari provvedimenti jugoslavi limitativi o modificativi del diritto di proprietà in quella zona.”[36]

Quella che l’Unione degli Istriani auspicava come soluzione al problema dei beni situati nella zona B, si esplicò in varie proposte di legge (tra l’altro non tutte condivise dalla totalità della comunità giuliana), che prevedevano che “lo Stato italiano, lasciando la proprietà ai rispettivi titolari di immobili, concedesse loro una sovvenzione senza interessi, a suo tempo rimborsabile, pari al valore dei beni stessi, però entro un limite massimo per ciascun titolare”[37].

Come dimostrato dall’emanazione della legge del 1958, la protesta della comunità istriana non trovò risposta in ambito governativo. Le successive leggi emanate tra il ’58 e il ’75 ebbero soltanto il significato di rideterminare i coefficienti di maggiorazione, non certo di modificare la linea del Governo.

A differenza dei precedenti accordi il Trattato di Osimo si preoccupa invece di definire la sorte soltanto di quei beni che sono stati oggetto di misure di nazionalizzazione, espropriazione, eccetera da parte delle autorità jugoslave; per quanto riguarda invece i cosiddetti beni liberi[38], non viene fatta alcuna menzione.

Bisogna comunque sottolineare che i beni abbandonati (sia quelli facenti parte dei territori ceduti, sia quelli della zona B) vennero sempre valutati in base al valore che essi avevano nel 1938; mentre, secondo quanto riporta Udina[39], per i beni italiani liquidati in Tunisia, fu disposto un indennizzo integrale secondo il valore venale dei beni alla data del gennaio 1948; e, ancora, i connazionali profughi dalla Libia, ottennero che i loro beni, diritti ed interessi venissero liquidati al valore reale che avevano al momento in cui ebbe luogo l’esproprio (luglio 1970).

Al riguardo è interessante quanto sottolineato dall’avv. Sardos Albertini, in un opuscolo pubblicato prima ancora della firma degli Accordi di Osimo, il quale ricorda che la legge Bartole - Salizzoni per la corresponsione degli indennizzi, dovendo ripartire tra i proprietari di beni nei territori ceduti i 45 miliardi concordati con la Iugoslavia nel dicembre 1954, quando il valore effettivo di tali beni si aggirava invece intorno ai 130 miliardi, fu costretta a trovare dei coefficienti di rivalutazione sufficientemente bassi, per poter far rientrare tutti gli aventi diritto entro la cifra disponibile.[40]

Inoltre in base a quanto affermato dai relatori di minoranza nella seduta alla Camera dei deputati del 29 novembre 1976, la Iugoslavia avrebbe dovuto corrispondere all’Italia, secondo quanto stabilito dal Trattato di pace, 125 miliardi di lire del1947, ma “con il successivo accordo del 18 dicembre 1954 l’indennizzo dei beni italiani venne ridotto forfettariamente a 45 miliardi, trovando la rinuncia italiana all’integrale pretesa di risarcimento la sua giustificazione nella necessità di ottenere la adesione della Iugoslavia al riacquisto del territorio di Trieste ed al cosiddetto Memorandum di Londra”[41]; scopo dei relatori di minoranza fu in pratica dimostrare che nel 1954, il Governo, corrispondendo agli jugoslavi l’importo di 85 miliardi, si assicurò in contropartita la città di Trieste.

Alla condizione delle persone fisiche si riallacciano l’articolo 5 e l’Allegato IX del Trattato.[42]

Essi si riferiscono alla regolamentazione di quelle questioni, rimaste irrisolte dal precedente Accordo intercorso tra i due Stati nel novembre 1957, in materia di assicurazioni sociali e di pensioni di vecchiaia delle persone che, alla data del 10 giugno 1940, erano cittadini italiani ed avevano la loro residenza permanente sul territorio denominato zona B.

Anche in questo caso la soluzione viene demandata a successivi negoziati che dovranno iniziare entro un termine di due mesi dall’entrata in vigore del Trattato.

Nel frattempo, come viene definito dall’Allegato, verrà assicurata la continuità del pagamento sia delle pensioni che delle assicurazioni, in base ad una tripartizione delle categorie di persone:

a) per le persone che si trasferiranno sul territorio dell’altra parte, il pagamento sarà effettuato a titolo d’anticipo dall’Istituto dell’Assicurazione Sociale della parte sul territorio della quale si saranno trasferite.

b) per le persone che si trovano entro la parte jugoslava dell’ex TLT, e verso le quali le istituzioni italiane di assicurazioni sociali hanno degli obblighi, tali istituzioni trasferiranno l’ammontare corrispettivo di tali obblighi alle istituzioni jugoslave, ed esse lo verseranno ai beneficiari.

c) per le persone che si trovano entro i confini italiani, e verso le quali le istituzioni jugoslave hanno degli obblighi, esse si comporteranno come le corrispondenti istituzioni italiane del punto b).

 

 

I.1.4 TUTELA DELLE MINORANZE

 

L’art. 8 del Trattato intende specificare quanto già dichiarato nell’art. 7, vale a dire la cessazione degli effetti del Memorandum di Londra del 1954 nei rapporti italo - jugoslavi, all’entrata in vigore del Trattato di Osimo.

La specificazione si rende necessaria dal momento che, allegato al Memorandum, era uno Statuto Speciale riguardante la tutela delle minoranze. L’art. 8 dichiara infatti decaduto il suddetto Statuto Speciale, sottolineando però che ciascuna Parte dovrà mantenere in vigore le misure interne già adottate in applicazione del menzionato Statuto, e che dovrà assicurare nell’ambito del suo diritto interno il mantenimento del livello di protezione dei membri dei due gruppi etnici rispettivi previsto dalle norme dello Statuto Speciale decaduto.

E’ noto però che tanto il Memorandum quanto lo Statuto Speciale non solo non furono sottoposti a ratifica dai due Parlamenti, ma in Italia nemmeno pubblicati, a differenza di quanto avvenuto in Iugoslavia.

Nel nostro ordinamento la conseguenza di questa forma semplificata di accordi - attuata per esplicita richiesta italiana - è stata la mancanza di una legislazione organica nei confronti della minoranza slovena residente nel territorio dell’ex zona A.

A tale mancanza si è sopperito per mezzo di provvedimenti normativi di carattere legislativo, o in via amministrativa, dando luogo ad un complesso di atti inorganico e derivante da una molteplicità di fonti ordinatrici.

E’ convinzione però di alcuni giuristi italiani che, nonostante l’assenza di una normativa unitaria, esista una legislazione adeguata nei confronti della minoranza slovena.[43]

Problemi di interpretazione possono però nascere dai continui riferimenti, nell’articolo 8, allo Statuto Speciale.

Se da un lato appare lecito interpretare tali rimandi come indicazione di conservazione delle misure già adottate, e come mantenimento del livello di protezione previsto dallo Statuto medesimo; dall’altro può essere inteso come “l’esplicitazione della opportunità di dare corso ad un più compiuto adeguamento della situazione interna agli accordi del 1954”, viste anche le dichiarazioni di esponenti della minoranza, secondo le quali non vi è mai stata adeguata attuazione, da parte del Governo italiano, dello Statuto.

In tale modo si introduce una delle questioni più spinose, subentrate con il Trattato di Osimo, riguardo alla tutela della minoranza slovena.[44]

Si intende riferirsi al concetto di tutela globale della suddetta minoranza. Concetto che può, in ogni caso, essere interpretato secondo due direttive differenti:

a) globalità intesa in senso “personale - spaziale (cioè con riguardo al complesso dei gruppi di lingua slovena stanziati sul territorio nazionale)”[45],

b) globalità concepita in “termini materiali”[46], vale a dire con riguardo alla totalità di situazioni nelle quali si possa esigere una tutela.

Le richieste della minoranza slovena si inquadrano nella volontà di ricevere una tutela globale, intesa sia in senso spaziale che materiale. Essa si rifà alle misure in vigore in Alto Adige nei confronti della minoranza tedesca, ed a queste aspira, ponendo in primo luogo la richiesta di un bilinguismo generalizzato che si esplicherebbe in:

n  uso della lingua minoritaria su di un piano di perfetta parità;

n  parità totale di tutti i toponimi;

n  istruzione nella lingua minoritaria nelle scuole pubbliche;

n  sovvenzioni alla stampa slovena;

n  rifiuto di qualunque delimitazione territoriale alle tutele richieste.

La questione della tutela globale si è così imposta all’attenzione di molti studiosi e soprattutto di alcuni giuristi.

Da un lato abbiamo chi, come Bevilacqua, ritiene assolutamente ingiustificate le richieste della minoranza. Egli asserisce che la suddetta non raggiunge una tale entità numerica da poterla paragonare a quella linguistica tedesca dell’Alto Adige.

Secondo Bevilacqua, infatti, la consistenza numerica della minoranza rappresenta uno dei presupposti necessari per avere diritto ad una tutela globale; limite che, per lo studioso, non deve essere interpretato nel senso di discriminazione numerica, ma nella necessità di sapere distinguere tra diritti dell’individuo e diritti di un gruppo; “secondo l’ottica errata d’una uguale normativa per qualunque minoranza, non si giungerebbe al risultato di parificare solamente la disciplina del gruppo di lingua tedesca dell’Alto Adige alla minoranza slovena di Trieste, ma ovviamente si estenderebbe tale disciplina alla comunità catalana di Alghero...”[47].

L’analisi di Bevilacqua si incentra quindi sulla normativa a tutela del gruppo sloveno, sulle ulteriori richieste di questo, e sul concetto di minoranza per il diritto italiano; sostenendo la necessità, per qualsiasi gruppo minoritario, di essere sottoposto ad un censimento, quale unico strumento idoneo a garantire sia la tutela della minoranza stessa, sia i diritti - doveri dello Stato che la ospita.

Il problema nasce proprio dal rifiuto del gruppo sloveno ad essere censito.

Per Bevilacqua questo rifiuto si trova in chiara contraddizione con la richiesta di ottenere la normativa vigente in Alto Adige: “La legislazione statutaria del Trentino Alto Adige è rigorosamente incernierata sulla norma della proporzione, [...] le facoltà spettanti alle minoranze vengono attribuite in rapporto alla rispettiva consistenza, quale risulta dal censimento ufficiale della popolazione[48].

L’analisi attuata da Bartole è, d’altra parte, di stampo prettamente giuridico, e come tale, lascia meno spazio a polemiche sui diritti da concedere o meno al gruppo sloveno.

La sua attenzione si incentra soprattutto sulla divisione di poteri e ruoli, nella gestione della tutela della minoranza, tra Stato e Regione, dal momento che, alla tutela della suddetta, si è proceduto - oltre che con atti dello Stato - anche con atti, e con leggi della Regione.

La preoccupazione nasce dal fatto che l’ipotesi di una normativa globale di tutela minoritaria, potrebbe implicare il ritorno ad un disegno di restrizione della competenza regionale. Questo potrebbe verificarsi poiché la gestione degli obblighi internazionali - e il Trattato di Osimo ne fa parte - spetta al legislatore statale anche nelle materie di competenza regionale.

Nella sua analisi il Bartole, non intende quindi verificare se sia giusto parlare in termini di tutela globale nei confronti del gruppo minoritario sloveno, quanto affrontare la problematica delle competenze della Regione Friuli - Venezia Giulia in materia di tutela delle minoranze: “La legislazione di tutela globale che dovrà essere emanata è vincolata, dunque, in ogni caso a tenere conto della struttura regionale del nostro ordinamento, o meglio della esistenza e delle competenze della Regione Friuli - Venezia Giulia, giacché è appunto nel territorio di questa Regione che è stanziata la minoranza slovena.”[49]

Secondo Udina invece i presupposti di tutela globale esistono già. Egli si riferisce infatti sia ai principi enunciati nel Preambolo del Trattato, sia agli articoli 3 e 6 della Costituzione - “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, e “la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche” -.

Ciò che Udina contesta è: sia che da un’interpretazione superficiale dell’articolo 8, possa derivare un calo del livello di protezione della minoranza slovena, rispetto a quanto previsto dallo Statuto Speciale; sia che, viceversa, il concetto di tutela venga esteso a tutta la Regione e non solo all’ex zona A, data la presenza di gruppi di popolazione di lingua e cultura slovena. Tale protezione “risulterebbe [infatti] sproporzionata alla consistenza effettiva e alla dislocazione non sempre continua di questi gruppi, sì da dar luogo a difficoltà, anche d’ordine pratico, difficilmente superabili”[50].

Egli incentra dunque la sua analisi sul concetto di globalità della tutela, inteso in senso spaziale più che in quello materiale; sostenendo appunto che una maggiore tutela della minoranza slovena può essere ammessa ma solo con riguardo alla parte italiana dell’ex TLT.

Ma, aldilà delle varie ipotesi a proposito della attuabilità o meno della tutela globale, è interessante notare, come d’altronde sottolinea lo stesso Udina, che i due Stati hanno preferito continuare a dare applicazione, nell’ambito delle due ex zone, a disposizioni dell’abrogato Statuto Speciale, seguendo il criterio che è meglio non turbare situazioni distensive di interesse reciproco.


I.2. ACCORDO SULLA PROMOZIONE DELLA COOPERAZIONE ECONOMICA

 

L’accordo sulla promozione della cooperazione economica tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Socialista Federativa di Iugoslavia, pur costituendo un atto separato dal Trattato politico, viene anticipato nell’articolo 6 di quest’ultimo: “Le due parti confermano la loro volontà di sviluppare ulteriormente la loro cooperazione economica con l’obiettivo, in particolare, del miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni di frontiera dei due Paesi. A questo fine, esse hanno simultaneamente stipulato un Accordo sullo sviluppo della cooperazione economica”[51].

In tal modo, e per mezzo, sia delle formule conclusive dei due Atti, che dell’enunciazione dell’Atto Finale riguardo alle modalità della loro ratifica ed entrata in vigore, essi risultano strettamente connessi tra loro.[52]

L’Accordo consta, in pratica, di due parti, per quanto unite tra loro. Da un lato abbiamo l’Accordo stesso, riguardante appunto l’intento di sviluppare una cooperazione di tipo economico tra i due Stati, e di migliorare la vita delle popolazioni di frontiera, come viene enunciato nel Preambolo; dall’altro troviamo un Protocollo, costituente l’Allegato I all’articolo 1, che invece inerisce alla creazione di una Zona Franca Industriale a cavallo del confine.


I.2.1 COOPERAZIONE ECONOMICA

 

Costituito da 11 articoli, dei quali il primo rimanda semplicemente all’Allegato I, si sviluppa secondo due direttive:

a) impegno dei due Governi per migliorare le condizioni di vita della popolazione della zona

b) interesse per la cooperazione economica tra i due Paesi

E’ da rimarcare, in ogni caso, il carattere complessivamente programmatico dell’Accordo, dove sono preponderanti gli obblighi a negoziare piuttosto che quelli a fare.

Nell’ambito dei rapporti di vicinato, con riguardo cioè alla popolazione di frontiera, vengono previsti successivi negoziati presieduti da apposite commissioni miste italo - jugoslave, sia per promuovere una utilizzazione coordinata delle risorse idriche comuni, sia per apportare decisi miglioramenti alle reti di comunicazione stradale.

L’articolo 2 prevede infatti l’istituzione di una Commissione mista permanente per l’idroeconomia, incaricata di studiare i problemi idrologici di interesse comune e di proporre soluzioni idonee, con particolare attenzione alla regolarizzazione delle acque del Timavo, dello Judrio, dell’Isonzo e della Rosandra (art. 3), e al loro sfruttamento a fini di agricoli, industriali, civili e di produzione di energia idroelettrica; la Commissione avrà anche il compito di controllo sull’adempimento dei futuri accordi che i due Governi prenderanno in materia.

Ad altra Commissione verrà invece affidato l’incarico di studiare e valutare l’opportunità tecnica ed economica e la possibilità di costruire una via navigabile Monfalcone - Gorizia - Lubiana, e di collegarla alla rete navigabile dell’Europa centrale ed al Mar Nero (art. 4).

Tale ambizioso progetto si inquadrerebbe sia nella prospettiva di un miglioramento della vita della popolazione di frontiera, sia in quella più ampia di uno sviluppo della collaborazione tra i due Stati, e di una loro apertura con i paesi dell’Europa centro - orientale.[53]

Per restare ancora nell’ambito dei rapporti di vicinato, particolare importanza vengono ad assumere gli accordi in materia di collegamenti stradali, i quali, tra l’altro, presentano, rispetto ai precedenti, decisamente maggior precisione e concretezza.

Ci si riferisce agli articoli 5 e 6, dei quali il 5 prevede il collegamento dell’autostrada Venezia - Trieste - Gorizia - Tarvisio, con le strade Nuova Gorizia - Postumia - Lubiana, Fernetti - Postumia e Erpelle - Cosina - Fiume; mentre l’articolo 6 comporta la costruzione di una strada, che abbia lo scopo di creare un collegamento stradale diretto tra le regioni del Collio e di Salcano, il cui tracciato viene descritto nell’Allegato II. Esso prevede inoltre  che tale strada, pur trovandosi in territorio italiano, sia aperta al libero transito civile jugoslavo, purché senza sosta, e che il controllo della circolazione sulla suddetta sia affidato alle Autorità jugoslave.

Anche in questo caso il progetto tecnico e il controllo di questi impegni, viene affidato ad una Commissione mista italo - jugoslava, la quale avrà pure l’incarico di esaminare un ulteriore progetto relativo alla costruzione di una strada per collegare i villaggi di Raune di Luico e di Cambresco, entrambi in territorio jugoslavo; tale Commissione non avrà peraltro carattere permanente, ma esaurendo il suo compito cesserà la sua esistenza.

Venne in tal modo risolta la questione delle sacche del Sabotino e del Colovrat abusivamente occupate, all’indomani del Trattato di pace. Il riacquisto della vetta del monte Sabotino[54] unitamente alla “sistemazione a nostro favore della divergenza del Colovrat”[55], comportò quindi, per il Governo italiano, l’onere degli aggiustamenti stradali, in conseguenza del fatto che la strada che collegava Nuova Gorizia al Collio si trovò ad essere sul territorio italiano.

Non mancarono le polemiche in relazione alle ingenti spese che il Governo italiano avrebbe dovuto sostenere per la costruzione e il finanziamento delle sopracitate strade[56], nonostante sia opinione di Conetti che “gli oneri gravanti sull’Italia in materia di comunicazioni stradali trovano corrispettivo in quelli assunti dalla Iugoslavia quanto al regime e allo sfruttamento delle acque”[57]

Quanto invece allo sviluppo della cooperazione economica, l’articolo 9 dichiara che le due Parti procederanno di comune accordo agli studi necessari; mentre lo Scambio di Lettere all’Allegato IV, notifica che i due Governi decidono di mantenere in vigore per l’avvenire sia gli Accordi di Roma del 1955 sugli scambi locali del piccolo traffico di frontiera, sia l’Accordo di Udine del 1962 sulla circolazione delle persone e sul traffico stradale e marittimo tra le zone limitrofe.

Si differenzia l’articolo 10, nel senso che non si limita a far riferimento a precedenti accordi, ma sottolinea l’interesse delle Parti ad accelerare lo sviluppo delle loro relazioni economiche, attraverso la cooperazione industriale di lungo periodo. A questo fine sono ammesse le forme più disparate di cooperazione, comprese le joint ventures.

Con riguardo a tali forme di cooperazione, può risultare interessate quanto sostenuto nella Relazione di minoranza: “Per effetto del diritto interno jugoslavo, le imprese straniere non possono insediarsi in Iugoslavia. Sono ammesse invece dalla legislazione jugoslava forme di compartecipazione straniera minoritaria che offrono, comunque, serie difficoltà ai soci stranieri nell’esercizio della loro attività imprenditoriale, in quanto:

n  nessuna ditta può possedere i mezzi di produzione che adopera

n  si possono impiegare solo lavoratori jugoslavi

n  ogni facoltà decisionale nell’amministrazione dell’azienda è riservata agli organi dell’autogestione

n  la facoltà di disinvestimento e di trasferimento all’estero degli utili può avvenire solo nelle forme e nelle misure stabilite dalla legge sugli investimenti di capitali stranieri, che risultano severamente limitative.”[58]

Appare chiaro che investimenti di questo tipo non si presentano come particolarmente vantaggiosi, eccetto che in condizioni particolari, riguardo per esempio a “[...] prodotti che all’importazione risultino meno costosi di quelli realizzati in Italia, [e allo] sfruttamento dei canali commerciali dell’uno o dell’altro partner”[59].

In ogni caso la cooperazione tra le organizzazioni italiane e jugoslave, viene indirizzata dall’articolo 10 soprattutto verso i settori: dell’energia elettrica, del petrolio e dei gas naturali, dei minerali metallici, e del legno e della cellulosa.

Non poteva mancare nell’ambito di un accordo sullo sviluppo della cooperazione economica, un riferimento alla cooperazione tra i porti dell’Adriatico del Nord; al fine di promuovere un miglioramento delle installazioni e degli impianti dei porti, l’incremento delle loro capacità, la riduzione dei costi di gestione e l’ampliamento armonizzato della loro capacità concorrenziale.

La promozione della cooperazione tra i porti dell’Adriatico settentrionale, con il conseguente logico incremento dell’attività industriale degli stessi, necessitava di un riferimento alla salvaguardia di un prezioso bene naturale quale il mar Adriatico.

Infatti, l’articolo 8 prevede la collaborazione dei due Stati anche in materia di protezione delle acque marittime, contro l’inquinamento e nel campo dei problemi ecologici.

Pare lecito affermare che l’articolo in questione non si preoccupa di prevenire disastri di natura ecologica, ma soltanto di garantire una non ben specificata collaborazione tra i due Paesi. Infatti il precedente accordo, firmato a Belgrado il 14 febbraio 1974, sulla collaborazione per la salvaguardia  dagli inquinamenti delle acque dal Mare Adriatico e delle zone costiere, non ha avuto l’esito auspicato.[60]

Dimostrazione stessa della non precisa volontà dei due Governi di salvaguardare l’ambiente, in deroga, tra l’altro, alla nuova politica, scaturita negli anni ’70, di conservazione dello stesso, è la decisione di costituire una zona franca industriale sul Carso, a cavallo del confine.

Infatti, per quanto riguarda le acque marine, è scontata una interdipendenza fisica con le acque superficiali e sotterranee dell’entroterra.[61]

 

I.2.2 LA ZONA FRANCA INDUSTRIALE

 

L’interesse maggiore dell’Accordo economico di Osimo si accentra però senza dubbio sul progetto di istituire una zona franca a cavallo della frontiera tra i due Stati.

L’articolo 1 dell’Accordo dispone che “Ognuna delle Parti attribuirà sul proprio territorio i terreni indicati nel Protocollo allegato (Allegato I), ad una zona franca alla quale sarà esteso il regime delle merci dei “Punti Franchi di Trieste”, conformemente alle modalità previste dal citato Protocollo”.

Costituito da 14 articoli, il Protocollo, come enunciato nel Preambolo, ha come scopo lo sviluppo industriale della città di Trieste e delle regioni di frontiera dei due Paesi, e l’incremento dell’occupazione delle popolazioni di queste regioni.

Si tratterà in sostanza di una zona destinata ad attività industriali, costituita, in misura uguale, da parte del territorio italiano e da parte di quello jugoslavo, adiacenti il confine, e che diverranno territori extradoganali rispetto al proprio Stato, e sottoposta ad un regime doganale unico, comparabile a quello vigente nei “Punti Franchi di Trieste”.

Bisogna innanzitutto precisare che per zona franca si intende, generalmente, una porzione del territorio nazionale sottoposta ad un regime doganale speciale e non ricompresa nel confine doganale dello Stato; e sottolineare che zona franca non è sinonimo di completa libertà di circolazione delle merci, dal momento che la sua creazione risponde sempre al conseguimento di determinate finalità, “sì da permanere in vigore limiti e restrizioni”[62]; la finalità in questione è appunto l’incremento dello sviluppo di Trieste e delle regioni di confine.

La delimitazione territoriale della zona viene definita nell’articolo 1 del Protocollo, che però rimanda per una configurazione più precisa dei terreni da attribuire alla zona, al lavoro di una apposita Commissione italo - jugoslava, che sarà nominata entro due mesi dall’entrata in vigore del Protocollo. Compito della Commissione mista sarà anche quello di indicare le merci ammissibili, e le lavorazioni consentite (art. 3).

L’attenzione dei giuristi si sofferma in particolare, sulla scelta, abbastanza inconsueta, di creare una zona franca estesa su un territorio appartenente a due Stati diversi.

Sia Conetti che Udina sottolineano l’anomalia di tale soluzione, in previsione soprattutto dei vari problemi di carattere giuridico che potrebbero presentarsi[63].

Il regime doganale della zona franca, descritto minuziosamente nel Protocollo, è articolato a seconda dell’origine e della destinazione delle merci sottoposte nella zona a operazioni di deposito, manipolazione e trasformazione.

Il trattamento doganale delle merci si differenzia a seconda della loro destinazione (art. 4):

n  se destinate alla Comunità Economica Europea (di cui l’Italia fa parte) o alla Iugoslavia, saranno sottoposte ad un controllo doganale e fiscale permanente uguale a quello dei Punti Franchi triestini, o a quello jugoslavo.

n  se, invece, destinate a paesi terzi verranno sottoposte al regime doganale dello Stato entro cui si trova lo stabilimento ove sono introdotte.

Seppure le due aree siano sottoposte ad un regime doganale unico, e facciano appunto parte di un’unica zona extradoganale, la legislazione di entrambi i Paesi rimane in vigore, nelle rispettive zone, in determinati casi:

n  in materia di rapporti di lavoro e di questioni fiscali relativi agli stabilimenti situati nella Zona (art. 5);

n  riguardo ai diritti sui beni immobili e mobili (art. 6);

n  riguardo a ogni questione che non sia regolata dal Protocollo o dalle sue disposizioni aggiuntive (art. 13).

Il Protocollo prevede poi, all’art. 7, l’istituzione di un Comitato misto italo - jugoslavo per provvedere all’amministrazione della Zona.

A tale Comitato, composto da tre rappresentanti dell’ ”Ente Zona Industriale di Trieste”, e da un numero uguale di rappresentanti del corrispondente organismo jugoslavo, risultano però conferite limitate funzioni esecutive e di controllo, per quanto sia precisato nel suddetto articolo, che la competenza del Comitato dovrà essere specificata in momenti successivi.

I restanti articoli del Protocollo dichiarano la parità di diritto all’impiego negli stabilimenti della zona per i cittadini delle due Parti (art. 9); l’uguaglianza delle lingue italiana e slovena all’interno della Zona (art. 12); la libera circolazione delle persone all’interno della Zona (art. 10); l’impegno dei due stati nella realizzazione della suddetta (art. 8); e in fine la validità di trent’anni del Protocollo a partire dalla sua entrata in vigore, cui seguirà un tacito rinnovamento ogni 5 anni, a meno che non sia presentata denuncia da una delle due Parti, con un preavviso di tre anni allo scadere del primo periodo, e di un anno per i successivi periodi.

Il Protocollo, oltre ad essere la parte di maggior interesse dell’Accordo economico, è anche quella che ha suscitato le più vive reazioni da parte dell’opinione pubblica italiana, sia nell’ambiente locale che in sede parlamentare; come verrà esaminato in seguito.

 


 

 

 

 

 

 

CAPITOLO II :

 

IMPATTO DEGLI ACCORDI DI OSIMO SULL’OPINIONE PUBBLICA DELL’AREA INTERESSATA

 


La notizia di un possibile accordo tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Federativa di Iugoslavia in merito alla vertenza confinaria, si impose all’attenzione dell’opinione pubblica alla fine del settembre 1975, in seguito alla pubblicazione, su un quotidiano romano - Il Giornale d’Italia -, di un servizio nel quale veniva dato per certo il definitivo passaggio della zona B alla Iugoslavia.

La notizia rimbalzata immediatamente sulle colonne dei più autorevoli giornali nazionali, provocò sconcerto e allarme soprattutto a Trieste.

Il 24 settembre Il Piccolo, quotidiano triestino, aprì la prima pagina riportando per intero l’articolo del giornale romano. In esso non si riferiva soltanto una vaga notizia riguardo ad una possibile cessione della zona B, ma veniva disegnato un quadro abbastanza chiaro ed eloquente delle trattative tra i due Paesi.

L’anomalia della situazione nasceva sia dal riserbo con il quale erano stati portate avanti queste trattative, sia dal fatto che non avevano seguito i normali canali diplomatici tra due Stati, ma si erano attuate per mezzo della collaborazione di alcuni ministeri italiani, quale ad esempio il ministero dell’industria e del commercio, e con l’intervento di altri organismi non dipendenti dal nostro governo, lasciando intendere un ruolo rilevante della Santa Sede; confermato anche - sempre secondo Il Giornale d’Italia - dalle dimissioni dell’Arcivescovo di Trieste, Mons. Santin, e dalla sua sostituzione con Mons. Cocolin, “[...] molto ben visto negli ambienti jugoslavi per le sue posizioni aperte”[64].

Ciò che provocò la più viva preoccupazione nel capoluogo giuliano fu soprattutto la precisione con cui veniva data la notizia, correlata pure da numeri di riferimento dei documenti; alla quale si aggiungeva la mancanza di smentite e di precisazioni da parte della Farnesina.

“Imbarazzato silenzio”[65], titolò infatti Il Piccolo un articolo nel quale si rilevava che la decisione del ministero degli esteri di rimandare qualsiasi chiarimento ad un dibattito parlamentare, rispondeva sì al diritto di informazione e di rispetto del Parlamento, ma contrastava con l’altrettanto valido diritto all’immediata informazione dell’opinione pubblica.

L’atteso dibattito parlamentare venne fissato il 1°ottobre, il tempo necessario per permettere al ministro degli esteri Rumor di rientrare dagli Stati Uniti e di concordare, con il Presidente del Consiglio Moro e con gli altri esponenti del governo, il contenuto della risposta da dare sia alle interpellanze parlamentari presentate dagli onorevoli Barbi e Bologna già nel luglio precedente[66], sia alle più recenti interrogazioni presentate dal MSI.

Nel frattempo l’opinione pubblica si interrogava sui contenuti di questo accordo, e sulle motivazioni che avevano spinto il governo italiano a chiudere una questione così spinosa.

Roberto Perugini, dalla redazione romana de Il Piccolo, individuava le varie tappe dell’intesa tra Roma e Belgrado. Prima fra tutte la conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, svoltasi nel luglio dello stesso anno a Helsinki, durante la quale, secondo indiscrezioni, sarebbero state allegate alla “dichiarazione di intenzioni” - documento conclusivo della conferenza, sottoscritto da tutti i partecipanti - delle carte geografiche d’Europa, e in una di esse la linea di demarcazione tra zona A e zona B appariva tratteggiata come linea di confine. In secondo luogo, individuava come fatto anomalo le dimissioni dalla commissione paritetica italo - jugoslava, dell’ambasciatore Giuriati; infine la notizia di un accordo commerciale tra i due Paesi che avrebbe sanzionato, con l’approvazione del Parlamento, anche la divisione territoriale delle due zone.


II.1. IL PICCOLO, ESPRESSIONE DEL MALCONTENTO CITTADINO

 

Lo sgomento iniziale di Trieste unitamente all’incapacità dei suoi cittadini, ancora confusi per la mancanza di notizie certe, di esprimere prontamente uno stato d’animo di rabbia e delusione; venne raccolto dal quotidiano cittadino Il Piccolo, che dal settembre 1975 per i successivi due anni, si fece interprete del malessere e della collera della città.

Fu soprattutto per mano del suo direttore, Chino Alessi, che Il Piccolo assunse una decisa posizione anti - Osimo.

Già il 26 settembre Alessi intitolò il suo editoriale: “Una rinuncia che umilia”, esplicitando fin dal titolo la sua contrarietà a quanto stava verificandosi. Nell’articolo il direttore criticava senza mezzi termini la classe politica italiana, “imbelle e incapace”, che non solo aveva portato il paese a una conclusione che nessuno aveva chiesto, ma l’aveva anche presentata come un buon affare, come un motivo di rilancio dell’economia di Trieste e del suo porto; “[...] Sicché siamo arrivati ad uno dei vertici allucinanti di questa escalation dell’autolesionismo più stolto, quando abbiamo dovuto sentirci spiegare che rinunciando ai diritti sulla zona B acquisteremo quasi certamente quelli definitivi su Trieste”[67].

Tutti gli editoriali di Alessi, riguardo agli Accordi di Osimo, furono sempre caratterizzati da un tono partecipe ed appassionato, riscuotendo così il favore di gran parte dell’opinione pubblica triestina; perché non bisogna dimenticare che su una popolazione di 250.000 abitanti, un terzo di essi era di origine istriana.

 


II.1.1. SEGNALAZIONI

 

Uno dei maggiori meriti di Alessi fu l’aver trasformato la consueta rubrica di lettere al giornale, in una tribuna aperta della città, dove i triestini potevano interrogarsi o semplicemente esprimere la propria opinione riguardo agli accordi italo - jugoslavi.

Fu così che la quinta pagina del giornale divenne, nei due anni che seguirono la firma del Trattato di Osimo, fino cioè alla ratifica dell’accordo, il naturale luogo d’incontro delle opinioni più disparate.

La pagina delle Segnalazioni - questo il nome dato alla rubrica - si distinse anche per la democraticità delle scelte: alle lettere del semplice cittadino si affiancarono quelle di studiosi, di operatori economici e di uomini politici, non mancarono nemmeno comunicazioni ai cittadini e appelli alla cittadinanza da parte di una nuova forza politica nascente.

Importante si rivelò la scelta di pubblicare diversi studi tecnici sulla fattibilità della zona franca industriale, in quanto si consentì ai cittadini di formarsi un’opinione fondata su dati specifici e non su semplici illazioni.

Tra essi è lecito rimarcare lo studio dell’ingegnere Deo Rossi, triestino di nascita e milanese d’adozione, in quanto fu poi usato dai relatori di minoranza nella discussione sulla ratifica al Senato, come materiale documentale. Egli impostò la sua ricerca secondo due direttive:

a) un’analisi di quanto già conosciuto, quindi leggi, disposizioni, dati statistici e di esperienza acquisita,

b) una valutazione di tipo previsionale, intesa come previsione di una realtà futura, fondata su un esame dei dati coevi e della loro interazione[68].

La parte più interessante dello studio era rappresentata dall’analisi previsionale. Essa prevedeva delle situazioni tipo nel caso di istituzione della zona franca, riguardo a: attività economiche, possibilità di impiego per lavoratori italiani, evoluzione della popolazione di Trieste, affluenza di popolazione, conseguenze socio - politiche, conseguenze ecologiche.

Dallo studio condotto risultava così decisamente sconveniente alle imprese italiane intraprendere attività industriali, economiche o commerciali nella ZFIC dato l’alto costo d’investimento, assolutamente sproporzionato se paragonato a quello di imprese jugoslave; unica possibilità vantaggiosa era rappresentata da combinazioni italo - jugoslave con sede in Iugoslavia, dato il basso costo della manodopera locale. Il secondo aspetto svantaggioso era costituito dalla quasi certezza dell’impossibilità per i lavoratori italiani di trovare un impiego nella ZFIC, per il costo più elevato della loro manodopera rispetto a quella jugoslava. L’ing. Rossi prevedeva poi un enorme afflusso di popolazione jugoslava che avrebbe gravitato su Trieste, snaturando la popolazione della città, e creando un insediamento suburbano di notevoli dimensioni; infine venivano valutate le gravi conseguenze ecologiche.

La rubrica Segnalazioni pubblicò anche uno studio elaborato dalla commissione ecologica universitaria della facoltà di Scienze, che pur usando un linguaggio decisamente tecnico, esplicitava i danni ambientali che la ZFIC avrebbe prodotto. Lo studio illustrava da un lato gli ingenti costi di edificazione della ZFIC data la natura del terreno carsico; dall’altro i problemi inerenti allo smaltimento dei rifiuti, dal momento che risultava inaccettabile il versamento di rifiuti nel terreno per la scarso potere di autodepurazione delle acque carsiche, e quelli inerenti all’inquinamento atmosferico. In aggiunta venivano anche valutati i danni che avrebbe subito l’osservatorio astronomico per la presenza di luci, fumi e rumori, fattori assolutamente negativi per le osservazioni ottiche e radioastronomiche.

Non mancò su Segnalazioni la posizione di associazioni per la tutela dell’ambiente, quali il WWF e Italia Nostra. La rubrica pubblicò, per esempio, il testo integrale della nota illustrata alla Commissione esteri del Senato dall’ing. Paolo Pellis, a nome di Italia Nostra.

Accanto alla voci autorevoli e competenti, ci  furono anche, come accennato prima, quelle, e sicuramente più numerose, dei semplici cittadini. I quali, scrivendo al giornale, dimostravano il loro timore, e, nella maggior parte dei casi, il loro giudizio negativo sulla costituzione di una zona franca a cavallo del confine[69].

Le lettere arrivate in redazione seguirono un iter abbastanza preciso in questo lasso di tempo. A un iniziale sgomento davanti alla notizia della perdita della zona B, che durò circa fino alla firma degli accordi, per riprendere ancora alla ratifica degli stessi; seguì un’attenzione molto maggiore per la istituzione della zona franca.

L’interesse dimostrato dai triestini nei confronti della propria città superò qualsiasi aspettativa, provocando la più viva preoccupazione sia negli ambienti politici locali che nazionali, come verrà esaminato in seguito.

 

II.1.2. IL DIBATTITO PARLAMENTARE

 

Alla vigilia del dibattito parlamentare, Alessi riprese il suo attacco contro il malgoverno italiano, ”[...] Decenni di scandali, di frodi di ogni tipo avrebbero dovuto abituarci ad attendere il peggio; nessuno poteva però immaginare che ci saremmo trovati ancora una volta di fronte al ridicolo del solito segretissimo di Stato che sfugge alla Farnesina. [...] A ciò fa poi riscontro l’incredibile imbonimento dell’opinione pubblica da parte di tutte le trombe di regime protese in trionfanti squilli per spiegare agli italiani ignari la bontà dell’affare concluso.”

Quello che soprattutto rimproverava aspramente al governo italiano erano la falsità e l’ipocrisia con le quali si presentava davanti al popolo che avrebbe dovuto rappresentare, “[...]e quante speranze sono state fraudolentemente alimentate in passato e come solo poco tempo fa Roma considerò addirittura intollerabile persino la presenza di cartelli che indicavano la zona B come territorio jugoslavo”.[70]

Quasi una premonizione la conclusione dell’editoriale, con il suo aperto atto d’accusa contro la Democrazia Cristiana e gli altri partiti al potere, che “si giocano dissennatamente i favori e le simpatie degli italiani”[71].

Il dibattito parlamentare fu preceduto da consultazioni tra il Presidente del Consiglio e i segretari e i capigruppo della maggioranza, per permettere al governo di conoscere preventivamente l’opinione dei leader delle forze della maggioranza, e di essere così sicuro sull’esito della votazione del Parlamento.

La risposta dei capigruppo, fu di piena solidarietà all’operato del governo: il segretario repubblicano Biasini affermò: “[...] Non riteniamo che ci siano soluzioni diverse da quelle proposte dal governo, riteniamo che si tratti della sistemazione giuridica di un problema che ormai aveva avuto una sua soluzione di fatto”; l’on. socialista Signorile sottolineò che i socialisti “non [avrebbero frapposto] ostacoli all’azione intrapresa dal governo Moro, [ritenendo] giusta l’iniziativa d’investire il Parlamento della questione, e [auspicando] ampie convergenze delle forze democratiche  costituzionali [per isolare] i fascisti”; non da meno fu la risposta dei capigruppo democristiani, Piccoli e Bartolomei, “ [...] possiamo fin d’ora dire che ci troviamo concordi nel ritenere utile l’azione del governo per chiudere con la Iugoslavia un problema certamente importante per l’amicizia tra i due popoli e quindi per la pace”[72].

Il discorso pronunciato il 1°ottobre dal Ministro degli esteri Rumor alla Camera, seguito da quello più conciso del Presidente del Consiglio Moro, non poté che creare ancor maggior sconcerto a Trieste, dal momento che veniva finalmente tolta la cortina fumosa che, nei giorni precedenti, aveva coperto la notizia di un accordo commerciale tra i due Paesi quale ricompensa alla “dolorosa rinuncia” richiesta alla popolazione giuliana.

Se infatti l’accordo commerciale era stato voluto dal governo italiano con l’intenzione di indorare la pillola della cessione della zona B, l’effetto ottenuto fu l’esatto opposto.

“[...] Oggi però abbiamo anche il topolino, che la montagna ha partorito, di quella che viene chiamata contropartita “, scrive Alessi il 2 ottobre, e continua “[...] Ma dubitiamo fortemente che [i triestini] si possano intenerire di fronte alla promessa di una un po’ fantascientifica zona a cavallo della frontiera. [...] E che dire dell’idrovia? Di questa idrovia ne sentiamo parlare da quando portavamo i calzoni corti”[73].

A parte il tono ironico, traspare immediatamente il senso di profondo stupore e di incertezza davanti alle dichiarazioni del governo, unito alla consapevolezza dell’impossibilità di mutare quanto era già stato deciso.

Ma se la battaglia di Trieste contro il governo di Roma si concentrò in seguito solo sulla ferma volontà di impedire la realizzazione della zona franca industriale carsica; ad accordo non ancora firmato la protesta della popolazione giuliana si esprimeva nella non accettazione della perdita della zona B, “[...] A trent’anni dalla fine della guerra non si è saputo o non si è potuto mitigare nemmeno di un poco la durezza del Diktat che scese allora sull’Italia e su queste terre e popolazioni che pagarono per tutti”[74].

Quello che triestini ma soprattutto istriani e giuliani avevano sperato in trent’anni, veniva ora a cessare; la convinzione di poter tornare un giorno nella propria terra svaniva insieme alla fiducia nella capacità del governo di mantenere lo status quo: “Rumor ha detto che non vi è spazio in Europa per modificazioni territoriali che non siano frutto di accordi e di mutuo consenso, ed ha ragione. Nessuno ha mai pensato che le cose non dovessero essere così. Solo che nella ricerca di questo spazio la diplomazia jugoslava è stata brava: quella nostra, no”[75].

Ad una situazione già difficile di per sé da comprendere ed accettare, si aggiunse la frustrazione di constatare un totale disinteresse per il problema da parte della classe politica rappresentativa dell’interesse della nazione, quella classe politica che comunque anche Trieste con i suoi voti aveva contribuito ad eleggere.

Il giorno della discussione, a Montecitorio non si registrarono più di 30 - 40 parlamentari; e il dibattito confermò quanto già annunciato nelle sporadiche interviste dei capigruppo dei partiti: favorevoli alle trattative tutti i partiti della maggioranza e dell’opposizione, contrari il Movimento Sociale Italiano, e alcuni deputati democristiani, intervenuti però nel dibattito solo a titolo personale.

Qualche giorno dopo, Il Piccolo - per esplicita richiesta di alcuni lettori - riportò gli interventi di due parlamentari istriani, on. Belci e on. Bologna, entrambi democristiani, come esemplificazione delle due opposte posizioni.

L’on. Bologna, contrario all’accordo in questione, ne contestò in particolare modo la presunta necessità: “[...] E allora, perché il nuovo accordo, specie se si sostiene che, in pratica, le cose non muteranno - se, cioè, la Iugoslavia continuerà a governare la zona B come l’ha governata finora, e l’Italia la zona A?”, decisamente a favore del mantenimento dello status quo, egli rispose alle affermazioni del governo, smentendo quanto da esso asserito, sostenendo che “questo estremo sacrificio” non avrebbe certamente contribuito al rafforzamento interno e internazionale della Iugoslavia.

Non bisogna comunque sottovalutare il costo morale della posizione dell’onorevole Bologna, e di quanti come lui si trovarono costretti, per ragioni personali e di intima convinzione, a contrastare la linea di partito. E se a livello nazionale, vale a dire parlamentare, questo si esplicò in un’aperta ma pur sempre personale sconfessione della linea concordata dal partito, e successivamente al momento del voto, in un’astensione; a livello locale ebbe conseguenze assai più gravi e drastiche, come avremo modo di esaminare più avanti.

L’on. Belci invece non si discostò dalla posizione della Democrazia Cristiana, aprendo anche la discussione alla Camera.

Il suo intervento non riscosse chiaramente il favore di Trieste, sia per l’accondiscendenza dimostrata verso la decisione di rinunciare definitivamente alla zona B, sia per il suo giudizio positivo verso la prospettiva di creare una zona franca sul Carso.

Egli infatti sostenne la necessità di un simile accordo, come unica via possibile per la risoluzione di un contenzioso rimasto aperto per troppo tempo, “[...] si può scegliere la strada di un dibattito storico - politico, di un sereno approfondimento dei problemi [...] oppure si possono affondare le radici nelle spirale delle polemiche da percorrersi a ritroso”. Cosciente del dolore della popolazione istriana di fronte a questa ennesima richiesta di sacrificio, affermò che il vero rispetto dei sentimenti di chi soffre, si attua con l’abbandono delle speculazioni.

Quello che forse lo rese maggiormente inviso ai suoi concittadini fu il suo appoggio incondizionato alla realizzazione della zona franca, anche quando ormai i partiti cominciavano a rivedere le loro iniziali posizioni, “ [...] Questa prospettiva è la più persuasiva garanzia di integrazione e di interdipendenza dell’area economica alle spalle del confine. [...] Io so bene che nessun dispositivo specifico, anche il più favorevole, può attenuare l’amarezza di chi sente, sopra ogni cosa, una ferita morale. Ma appunto per questo rimane la nostra responsabilità di operare per una grande prospettiva, quella di allargare lo spazio di collaborazione in un punto vitale dell’Europa, quella di assicurare un futuro di comune sviluppo e di pace a popolazioni troppo provate dalla storia”[76].

La votazione alla Camera sull’approvazione della linea del governo, confermò quanto era già stato annunciato nei giorni precedenti; non ci fu solo il voto scontato, che tra l’altro trovò sulla medesima posizione maggioranza e opposizione di sinistra, tanto da far affermare al segretario del PCI, Berlinguer che “[aveva] grande significato nazionale che la definitiva regolamentazione delle relazioni con la Iugoslavia [fosse] sostenuta e approvata da uno schieramento che ha riunito tutte le forze democratiche e antifasciste”[77], ma anche un tale assenteismo, soprattutto nelle file della DC da far intitolare l’editoriale di Montanelli, direttore de Il Giornale Nuovo,  “I disertori della zona B”.

In effetti solo consultando le cifre ci si può rendere conto dell’alta percentuale di assenze tra le file di Montecitorio: DC, presenti centosedici su duecentosessantacinque, PSI, trentasei presenze su sessanta, PSDI, venti su ventinove, PRI, sette su quindici, l’unico partito a registrare una partecipazione quasi totale, il PCI con centoquarantasei su centosessantacinque deputati.

Approvata la mozione dalla Camera dei deputati, la discussione passò al Senato della Repubblica, ricalcando quanto si era già verificato nell’altro ramo del Parlamento, “ [...] E’ comunque facile pensare che anche al Senato il dissenso sarà tacito, [traducendosi] nell’assenza dall’aula al momento della votazione”[78].

Le previsioni si dimostrarono fondate, con una presenza di 30 senatori su 322 durante la discussione.

Giustamente il quotidiano triestino si interrogò sulla vera motivazione di questo assenteismo: “[...] il tacito dissenso è stato espresso con l’assenza dall’aula fin dall’apertura del dibattito, [resta da capire] se bisogna individuare in questo modo e non nell’ambito della più assoluta indifferenza, la pressoché totale defezione di esponenti della DC al Senato”[79]

Chiaramente anche il Senato votò la fiducia al governo, anche se tra i senatori si registrò una maggiore partecipazione alla questione. Non ci furono gli auspicati interventi di Saragat e di Nenni, i quali in qualità di Presidente della Repubblica e di Ministro degli Esteri, negli anni precedenti, avrebbero potuto chiarire meglio i retroscena dell’accordo che il governo si apprestava a firmare; ma importanti furono quelli dei senatori Pella, ministro degli esteri nel 1954, e di Brosio, ambasciatore e firmatario per l’Italia del Memorandum: Pella chiese “se la soluzione proposta [rappresentasse] il massimo che si potava ottenere, e se [fosse] opportuno che a tale soluzione si [addivenisse] in un momento della situazione nazionale così pieno di turbamenti”; Brosio, dal canto suo, ripercorrendo lo svolgersi dei fatti del 1954, specificò: “[...] se è vero che l’Italia non ha mai rinunciato alla sovranità sulla zona B, è altrettanto vero che gli alleati non hanno mai esplicitamente riconosciuto la sovranità italiana e il governo jugoslavo considerò, nella sostanza, definitivo l’accordo di Londra”, quindi pur considerando inevitabile l’accordo, Brosio, al pari del sen. Pella, mostrò perplessità sull’opportunità del momento politico e sul merito dell’accordo stesso: “Non si riescono a vedere i vantaggi che ne potranno derivare”[80].

Se dunque a livello nazionale non si registrarono particolari problemi, lo stesso non si può dire per la politica locale.

II.2. FAVOREVOLI AGLI ACCORDI

 

Accanto agli oppositori di Osimo, ci fu però, anche a Trieste, chi non si dimostrò aprioristicamente contrario agli accordi.

Pur con l’appoggio della classe politica locale, essi incontrarono maggiori difficoltà nel diffondere e difendere la loro opinione.

Questo avvenne innanzitutto perché non ci fu un equivalente appoggio da parte di un organo di stampa, quale invece diede Il Piccolo agli oppositori del trattato.

Ad ogni modo sarebbe errato ritenere che tutta Trieste fosse compattamente schierata nella difesa sia dell’ultimo lembo di terra istriana sia dell’ambiente carsico.

Una posizione decisamente opposta da quella de Il Piccolo, fu assunta dal settimanale Il Meridiano, che ospitò nelle sue pagine il parere di chi vedeva come ineluttabile la perdita della zona B, e come positivo per l’economia di Trieste la creazione della zona franca industriale sul Carso.

Interessante fu la pubblicazione di un carteggio tra il direttore de Il Piccolo, Alessi, e l’amministratore delegato della Zonca Vernici, Anzellotti.

Entrambi soci del Rotary Club, rappresentavano però la sintesi delle due posizioni differenti nei confronti degli accordi.

Quello che più volte viene sottolineato da Anzellotti, e in questo è implicita un certa accusa, è sia la mancanza da parte dagli oppositori di Osimo di una buona dose di Real Politik che permettesse loro di vedere come la zona B fosse già perduta da trent’anni, e che quindi gli accordi si limitavano a sanzionare una situazione di fatto; sia l’incapacità di valutare anche gli aspetti positivi dell’accordo economico, soffermandosi solo e unicamente sui presunti danni che la ZFIC avrebbe arrecato al Carso e conseguentemente alla città[81].

Di toni notevolmente più aspri fu invece la lettera di Mons. Tomizza, pubblicata sul settimanale della diocesi di Trieste, Vita Nuova. In essa il prelato accusava quei triestini che si erano scandalizzati di fronte alle trattative italo - jugoslave, come se non fosse stato sotto gli occhi di tutti, per oltre trent’anni, l’epilogo della questione dei confini: ”Sembra incredibile quanto sia grande il numero delle persone distratte, di quelli cioè che si accorgono di quanto succede intorno a loro e non prendono nota di fatti ed avvenimenti”. Anche riguardo alla ZFIC Mons. Tomizza dimostrava di accettare pienamente gli accordi, considerandola come un’ottima occasione per Trieste di uscire dal suo isolamento: ”E’ una proposta ed è un tentativo, è una vita nuova per Trieste, è un invito”.

Le risposte a Mons. Tomizza non si fecero attendere sia sulle pagine de Il Piccolo, sia su quelle di Vita Nuova, sicuramente non solo per il contenuto non condivisibile da una buona parte dei triestini, ma soprattutto per il tono con cui si rivolgeva ai lettori: “No le 65000 firme non hanno niente di eroico o di nobile, e hanno fatto la fine che si meritavano. C’è da scommettere che se oltre alla zona franca si fosse promesso anche l’esenzione dalle tasse, esse sarebbero state il doppio”.[82].

Ancora Il Meridiano, nel suo difficile ruolo di difensore degli accordi, pubblicò nel maggio del ’77, un’intervista di Bettiza, giornalista di livello internazionale e numero due del Giornale di Montanelli. Nulla di strano se non il fatto che l’intervista non era stata fatta dal settimanale triestino, ma da Il Piccolo, ed era uscita solo nell’edizione di Gorizia; “La risposta sulla mancata pubblicazione in quinta pagina dell’edizione triestina (da mesi dedicata agli sproloqui di Osimo) sta nel contenuto di delle risposte che Enzo Bettiza ha dato nell’intervista e che noi riproduciamo volentieri, perché è giusto che i triestini e non solo i goriziani, sappiano cosa ne pensa”[83]. Seguiva poi il testo dell’intervista al giornalista triestino, di origine dalmata.

L’opinione di Bettiza in merito alla ZFIC si riassumeva in un giudizio comunque positivo, sia per la possibilità per le imprese italiane di intraprendere attività nella zona, sia per l’opportunità concessa alla Iugoslavia di agganciarsi in qualche modo all’area della CEE. Riguardo ai problemi di carattere ecologico, la risposta non fu invece per niente esauriente, e anche abbastanza superficiale, “[...] mi pare che parecchi triestini difendano soltanto vecchi e nostalgici equilibri edonistici e letterari”[84]; concludeva infine sostenendo che la presunta immigrazione di slavi meridionali nella zona, si inseriva perfettamente nel flusso di lavoratori che, ormai da parecchi anni, dal sud Europa si spostavano verso il Nord più industrializzato, “Sarebbe assurdo chiedere un’apartheid del Carso, facendone una specie di parco ecologico - etnico fra giuliani e sloveni”.

Anche l’edizione locale de L’Unità diede il suo assenso agli accordi, o per lo meno alla parte politica di essi. Riguardo invece all’istituzione della zona franca, nel gennaio e febbraio del ’77 ospitò sulle proprie pagine il parere di vari esperti. Tra essi anche quello di Margherita Hack, che già aveva sottoscritto un documento della facoltà di Scienze, pubblicato da Il Piccolo, nel quale si affermava la non fattibilità della ZFIC sul Carso. Opinione infatti della direttrice dell’Osservatorio astronomico era che la zona franca industriale si dovesse fare, ma assolutamente non dove era stata prevista, sia per problemi di natura ecologica, sia per la sorte dello stesso Osservatorio: “Industrie situate a poche centinaia di metri in linea d’aria vogliono dire inagibilità dell’Osservatorio”[85].

Contro lo studio della facoltà di Scienze si schierò invece il direttore dell’Istituto di botanica, prof. Cristofolini; il quale sempre dalle pagine de L’Unità accusò la ricerca di non avere indicato aree più adatte per l’insediamento industriale, e di non avere dato indicazioni su quali studi compiere per minimizzare i rischi di inquinamento, ma di avere in sostanza avallato “[...] una conclusione di ben altra portata, e cioè che nella provincia di Trieste lo sviluppo industriale non s’ha da fare. [...] Si è quindi presentata come conclusione scientifica una conclusione che non derivava direttamente da un’analisi scientifica ma da una valutazione politica”[86]. Cristofolini continuava poi spostando la sua polemica contro gli oppositori di Osimo, e più in particolare contro quei gruppi di potere locale che “trovano la loro forza nel parassitismo (e la zona franca integrale era proprio la proposta dell’assistenzialismo e del parassitismo), nella rete del piccolo traffico, di bazar, di decadenza. Un eventuale sviluppo industriale sarebbe un duro colpo per quei gruppi di potere, e per certi politici che devono la loro ascesa al tran-tran e al piccolo clientelismo”[87]

In ogni caso al di là dell’asprezza di certe opinioni è innegabile che solo un terzo dell’elettorato di Trieste si espresse con decisione contro gli accordi con la Iugoslavia, e che quindi dei rimanenti due terzi, una parte fu sicuramente favorevole alla stipulazione degli accordi, l’altra non ritenne comunque necessario prendere una posizione o esprimere la propria opinione.

 


II.3. LA CRISI DEGLI ORGANI LOCALI

 

Il consiglio regionale, già il 7 ottobre, votò una mozione che approvava l’operato del governo, con ben 46 sì e soltanto 4 no: in pratica solo il MSI si trovò all’opposizione: “Non ci venga propinato come vantaggioso un punto franco in più, più favorevole agli jugoslavi che agli italiani, anziché una zona franca integrale, che rappresenterebbe, quella sì, una manifestazione di volontà politica per il risollevamento della città”[88]. Anche il democristiano Del Conte espresse la propria contrarietà alla mozione della giunta, dichiarando, in qualità di presidente locale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, che ci si trovava di fronte ad “ un accordo ingiustificabile sia dal punto di vista ideale che pratico, in quanto contrario ai nostri interessi”, ma preferì astenersi dal voto, concludendo il suo intervento respingendo “ogni combutta con la destra, [essendo ad essa imputabile] la guerra da cui è disceso il dramma degli istriani”[89].

La riunione del consiglio provinciale si svolse senza particolare rumore. Anche qui ci fu il solito voto contrario del MSI, isolato da tutte le altre forze politiche; unica nota furono le dimissioni del democristiano Vinciguerra, e le posizioni contrarie dei DC Passagnoli e Pagliaro i quali però dichiararono che si sarebbero attenuti, in fase di votazione, alla disciplina di partito.

Le cose non si svolsero con altrettanta facilità al Comune.

La riunione del consiglio comunale, indetta per l’8 ottobre, con l’intenzione di discutere sull’accordo italo - jugoslavo, si protrasse per quasi tutta la notte, rendendo il giorno successivo palesi le enormi lacerazioni nella maggioranza e soprattutto all’interno dei partiti.

Già il 29 settembre Il Piccolo[90] parlava di rottura all’interno dei due partiti di maggioranza, per l’aperto distacco di alcuni membri, e non solo di origine istriana - come sarebbe stato più facile aspettarsi -, dalla linea ufficiale.

La riunione del Consiglio comunale si aprì con la presentazione di quattro mozioni:

La prima, presentata dalla giunta municipale, si dichiarava favorevole all’accordo, nonostante fosse “consapevole e partecipe dell’amarezza profonda e dei sentimenti di dolore degli istriani“, e impegnava anche gli organi elettivi regionali e locali, affinché intervenissero “sulla migliore attuazione dei vari punti previsti per gli aspetti di carattere economico particolarmente importanti per la città e per la regione”[91].

La seconda, presentata dal gruppo missino, ribadiva la sovranità italiana sulla zona B, per la mai avvenuta nascita del TLT, affermando che “quand’anche fosse nato la schiacciante maggioranza italiana di queste terre ne avrebbe determinato il ritorno all’Italia con un plebiscito”[92], e concludeva chiedendo al Parlamento italiano di non votare la legge di autorizzazione per la cessione della zona B alla Iugoslavia.

Seguivano le altre due: una presentata dall’indipendente Marchesich che raccomandava la giunta di sollecitare il governo affinché considerasse la possibilità di effettuare un plebiscito in entrambe le zone, unico modo per dare alla popolazione ivi residente l’opportunità di decidere del proprio destino; l’altra esposta dai liberali Zimolo, Morpurgo e Varini, che, pur concordando sulla parte politica dell’accordo, esprimeva riserve su quella economica, richiedendo al contempo una consultazione della città da parte del governo - per tramite delle sue rappresentanze politiche, economiche e sindacali - prima di addivenire alla firma dell’accordo. Il quarto consigliere liberale, Franzutti, non si unì alla mozione dei colleghi di partito, in quanto contrario all’accordo in ogni sua parte.

La votazione delle mozioni sembrò ricalcare quella del Parlamento: la mozione della giunta venne approvata con 41 voti favorevoli, 10 contrari, 7 astenuti; le altre mozioni furono respinte.

Quanto avvenuto non fu però senza conseguenze.

Il prosindaco socialista, Giuricin, dopo aver espresso il proprio dissenso in ambito consigliare[93], presentò, pochi giorni dopo, le dimissioni da prosindaco e da assessore, cui seguirono, in dicembre, quelle dal Partito Socialista Italiano.

L’assessore Gargano del PRI, dopo essersi rifiutato di votare la mozione della giunta, pur precisando al sindaco Spaccini le motivazioni personali e politiche che lo avevano indotto a compiere un simile atto, presentò le proprie dimissioni sia dal suo partito, sia dalla carica di assessore, continuando a conservare quella di consigliere.

Un cenno in più merita la linea seguita dal Partito Repubblicano. Esso fu infatti l’unico partito che ritenne opportuno indire un‘assemblea per concordare preventivamente una linea da seguire durante il consiglio comunale; fatto rilevante fu che l’assemblea straordinaria indetta sconfessò la linea della segreteria, e sotto la guida di Fabricci promise un voto d’astensione. Il tentativo di ribellione venne subito tarpato da Roma con l’invio di Di Re, mandato dal segretario Biasini a sistemare la situazione.

Si spiega quindi meglio la posizione assunta dall’assessore Gargano. Egli comunque non conserverà ancora per molto nemmeno la carica di consigliere, rimettendo il suo mandato alla fine di ottobre.

 Davanti alle accuse di chi gli rimproverava di aver rinnegato il suo partito e di aver fatto così il gioco dell’opposizione, Gargano replicò, in una lettera al sindaco, che era stato per lui impossibile seguire gli ordini ricevuti da Roma: “[...] Mi era stato chiesto di compiere un gesto per me fisicamente impossibile: disattendere l’obbligo dell’adempimento di un mandato popolare conferitomi poche ore prima.[...] Sento anche il dovere di respingere la ventilata insinuazione di un intendimento di fare il gioco delle parti avverse non dimettendomi da consigliere, [perché lo ritengo] offensivo. Le dimissioni dal PRI non hanno certo avuto il significato di un allontanamento ideologico, ma sono state l’espressione, da parte mia, di una volontà di correttezza formale per consentire al partito la possibilità di definire la questione insorta nei miei confronti senza alcuno ostacolo”[94].

Infine anche tra le fila della Democrazia Cristiana si registrarono delle defezioni, espresse attraverso il voto di astensione dei consiglieri Sauli e Ponis[95].

Il Piccolo, fedele alla sua posizione, commentò così la votazione del Consiglio comunale: “C’è il dramma di chi ha dovuto operare una scelta, comunque dolorosa, fra la disciplina di partito e il proprio personale convincimento; c’è comunque la consapevolezza di uno schieramento favorevole al sì ottenuto a patto di una serie di gravi coartazioni, alle quali hanno sentito di sottrarsi solo pochi singoli”[96].

Il 10 ottobre si riunì anche la direzione provinciale della DC per esaminare le varie posizioni dei dissidenti (Del Conte alla regione, Vinciguerra alla provincia, Ponis e Sauli al comune). Decisamente dura la posizione di Vinciguerra, il quale dimissionario dalla carica di assessore, poté esprimersi con maggiore libertà nello spiegare la propria dissociazione dalla decisione maggioritaria del consiglio. La sua divenne una critica al sistema elettivo che non permette alla popolazione di decidere o perlomeno esprimersi chiaramente in merito a fatti di notevole rilevanza per la vita cittadina, “[...] rappresenta certamente atto politicamente inopportuno quello di pretendere di interpretare il pensiero dei triestini attraverso l’adozione, da parte delle assemblee locali, di strumenti sui quali l’intera popolazione della provincia non è mai stata chiamata a pronunciarsi”[97].

La direzione provinciale della DC concluse la riunione denunciando e respingendo le strumentalizzazioni “del MSI e dell’Unione degli Istriani, le quali puntando sull’esasperazione degli animi muovono assurde e spesso risibili accuse al Governo e al Parlamento, mostrandosi al di fuori della realtà e della razionalità politica.” Espresse infine “ pur nella considerazione della posizione umana degli interessati, la sua deplorazione verso quei rappresentanti DC nelle assemblee elettive, che hanno svolto considerazioni ed espresso voti in difformità alla linea ufficiale del partito”[98].

Decisamente più dura la reazione del PSI, che attraverso il direttivo provinciale, richiese a Giuricin le dimissioni dalle cariche sostenute: “[...] preso atto del difforme atteggiamento assunto da Gianni Giuricin, che lo ha posto al di fuori della linea di partito, e constatato che tale atteggiamento, comunque motivato, ha consentito speculazioni antisocialiste da vario segno, lo invita a dimettersi dagli incarichi ricoperti”[99].

E’ interessante valutare la posizione del PSI, dal momento che, dalle iniziali spaccature interne, che seguivano le divisioni di correnti tra manciniani e demartiniani, si arrivò alle dimissioni di sei membri del consiglio direttivo provinciale e alla costituzione della “Unione dei socialisti autonomi della Venezia Giulia”, i cui aderenti si proponevano di continuare un’attività politica di difesa degli interessi di Trieste.

La crisi delle giunte locali, iniziata a causa degli accordi italo - jugoslavi, si protrasse nei mesi seguenti fino ad arrivare alla caduta prima della giunta regionale, seguita  a brave distanza da quella comunale. E’ opportuno comunque sottolineare che fu abilità dei partiti dell’arco costituzionale, far apparire la crisi politica come indipendente dalla causa contingente[100]. L’impegno maggiore fu messo in atto soprattutto dal PSI che cercò di riportare la politica locale sui binari di quella nazionale, facendo cadere le giunte di centro - sinistra di cui faceva parte (quella regionale e quella comunale, essendo invece la giunta provinciale un monocolore democristiano), per il rifiuto della DC ad aprire un dialogo con il PCI attraverso riunioni collegiali. La volontà del PSI di portare l’amministrazione locale ad una crisi, si vide anche nell’intenzione del partito a non sostituire il prosindaco Giuricin, lasciando in tal modo vacante la carica, e accettando che fosse un democristiano a prendere il posto di Giuricin come consigliere.

E infatti la crisi fu alla fine inevitabile, con le dimissioni prima della giunta regionale, poi di quella comunale, cui seguirono i soliti tentativi di rimpasto.

Intanto la macchina burocratica procedeva, e il 10 novembre con la firma di Rumor e Minic si chiudeva il contenzioso dei confini e si apriva una nuova fase di collaborazione tra i due paesi.

La firma degli accordi riacutizzò la polemica, ma questa volta indirizzandosi soprattutto verso la costituzione della zona franca, della quale si continuava ad avere una idea vaga, per la mancanza di precisazioni da parte delle autorità competenti. E’ indicativo della situazione il comunicato che la segreteria della Camera dei Lavoratori della UIL pubblicò su Il Piccolo del 18 novembre: “[...] sorprende poi il fatto che gli ambienti economici sloveni di Trieste abbiano cognizione della situazione mentre le nostre autorità regionali, provinciali, comunali non sappiano alcunché”[101].

Nemmeno la visita a Trieste del Presidente della Commissione della CEE, Ortoli, portò i chiarimenti sperati dal cuore imprenditoriale della città. La CEE aveva sì permesso l’istituzione della zona franca industriale, ma non era in grado o, semplicemente non voleva, fornire ragguagli sulla concreta realizzazione della stessa; l’unico punto sul quale il Presidente Ortoli, rispose con sufficiente chiarezza fu la mancanza di interventi attivi da parte della comunità per il sostentamento della regione.[102]

La richiesta di ulteriori chiarimenti sul Protocollo - nonostante Il Piccolo avesse provveduto il 14 novembre a pubblicare l’intero testo dell’accordo italo - jugoslavo -, nasceva dal carattere decisamente programmatico di quest’ultimo, e dal continuo silenzio che circondava l’accordo.

Numerose furono le lettere arrivate alla direzione de Il Piccolo che sollecitavano le autorità a dare risposte concrete in merito: “[...] le categorie economiche chiedono e pretendono di poter conoscere e valutare immediatamente questi particolari, per prendere posizione e per dare un giudizio sulla bontà e sulla effettiva portata del progetto”[103].

Una delle domande più ricorrenti dei lettori riguardava la definizione di zona franca: “[...] il primo equivoco da chiarire una volta per tutte è quello della dubbia terminologia con cui il progetto stesso è stato presentato”[104], il lettore proseguiva la sua lettera specificando la differenza sostanziale tra zona franca e punti franchi, consistente nel permesso concesso al pubblico di entrare e acquistare i prodotti in franchigia doganale nella prima, e nello stesso accesso vietato nei secondi. La precisazione in merito non arrivò, come sarebbe stato lecito aspettarsi, dalle autorità competenti, ma da un altro lettore, il quale si premurò di spiegare ai propri concittadini che la legislazione della CEE aveva da tempo unificato la materia doganale adottando la dizione “zone franche” per tutti i territori extradoganali, e che tale terminologia era stata adottata anche dalla normativa nazionale, e quindi “il termine zona franca [risultava] usato in modo corretto e pertinente”[105].

Verso la fine di novembre, ad accordi oramai firmati, la polemica tra PSI e Giuricin, spalleggiato da altri socialisti, si fece sempre più rovente, trovando nel quotidiano cittadino, il luogo più idoneo ad un fitto scambio di battute e posizioni, che, come abbiamo detto, vedrà la sua conclusione nella fuoriuscita dal partito dei contestatori.

Il 30 novembre viene pubblicata una lettera - dal tono decisamente polemico[106] - dell’ufficio stampa del PSI, nella quale si ribadisce la posizione del partito, e soprattutto vengono smentite posizioni differenti da quella ufficiale da parte di Mancini, Landolfi e Balsamo, (come asserito invece da Giuricin).

La risposta dell’ormai ex prosindaco si esplicò in una difesa delle proprie posizioni davanti all’opinione pubblica, e in un’ulteriore atto d’accusa nei confronti della Federazione Socialista di Trieste: “Inizio col dire che se intendo, come fermamente intendo, continuare ad essere un socialista ed un cittadino democratico, tale mio intendimento non può conciliarsi con l’appartenenza un giorno di più alla Federazione di Trieste”[107].

E, infatti, il 3 dicembre, Giuricin restituì la tessera della Federazione, ed uscì dal PSI insieme ad altri sei membri del consiglio direttivo provinciale del partito, per costituire l’” Unione dei socialisti autonomi della Venezia Giulia”, che si proponeva di continuare un’attività politica di difesa degli interessi di Trieste.

A sostegno del compagno Giuricin si levarono le voci di altri socialisti (ma non solo), scontenti della linea seguita dal loro partito: “[...] ho avuto per trent’anni in tasca la tessera del partito socialista, ma ora, a Trieste, nel PSI, socialismo non vuol dire democrazia, libertà, giustizia sociale. Alcuni personaggi gli hanno cambiato volto, e d’ora in poi glielo cambieranno senza difficoltà, senza la resistenza di Giuricin e di chi, come me, si trova sulle medesime posizioni politiche”[108]. E ancora: “[...] Tutta la mia stima, ammirazione e simpatia vanno a Giuricin che all’atto di una votazione di enorme importanza per il Paese, ha avuto il coraggio di ignorare gli ordini di scuderia e votare secondo la propria coscienza”[109].

Si concludeva così la prima parte della protesta contro gli Accordi di Osimo, sostenuta da una esigua minoranza di persone, per la maggior parte uomini politici, che aveva rifiutato la logica di partito ad ogni costo; contemporaneamente si apriva la fase concreta della protesta, che vide la popolazione triestina impegnata attivamente nel rifiuto di quegli accordi che nessuno aveva chiesto.


II.4. COMITATO DEI DIECI - IDEA DELLE FIRME

 

Dall’incontro avvenuto nel gennaio 1976 tra Aurelia Gruber Benco, donna di cultura e di esperienza politica maturata tra le fila socialiste, e Gianni Giuricin per discutere dei problemi di Trieste, primo fra tutti la costituzione della zona franca, nacque l’idea di un’azione comune tesa a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su quanto stava accadendo a Trieste.

Azione che si decise di incentrare sulla proposta di una zona franca integrale, come emblema delle rivendicazioni della città che vantava un passato emporiale, e che a causa della guerra aveva perduto tutto il suo retroterra. L’idea della zona franca integrale non era quindi nuova a Trieste, e fino agli anni ’60 era stata la bandiera del PCI e della DC locali[110].

Unitosi anche l’avv. Gargano, dimissionario dal PRI, si considerò l’opportunità di presentare al Parlamento una proposta di legge d’iniziativa popolare[111].

All’idea di un coinvolgimento attivo della popolazione, che soprattutto uscisse dai soliti binari della politica, si arrivò dopo le delusioni offerte dai partiti tradizionali, nella loro incapacità di valutare e risolvere i problemi della città; e nell’immediata contrarietà espressa sia dai partiti che dai sindacati, alla sola idea di una proposta di legge a favore della zona franca integrale.

Fu così che, su iniziativa della Gruber, di Giuricin, e di Letizia Fonda Savio, venne costituito il Comitato per la Zona Franca Integrale, con lo scopo di dare un’organizzazione a un’idea che già dimostrava di ottenere il favore dei triestini. E, dal momento che, per legge, era necessario che una proposta d’iniziativa popolare, avesse dieci promotori, si unirono ai primi fautori altri concittadini, dando così vita a quello che verrà chiamato il Comitato dei Dieci. Esso presentò a Roma il 13 aprile dello stesso anno, la proposta di legge; in tal modo veniva formalmente autorizzata la raccolta delle firme.

Il Piccolo, per l’esplicita richiesta di appoggio da parte dei promotori al direttore Alessi, divenne il principale veicolo di informazione dell’attività e delle iniziative del Comitato; appoggio che si rivelò essenziale e determinante[112].

Il 6 febbraio pubblicò infatti un articolo della Gruber, nel quale si spiegavano le ragioni della volontà di riproporre la soluzione della zona franca integrale (ZFI) quale unica chiave di volta per l’economia stagnante di Trieste. E subito vi furono le prime risposte entusiaste dei triestini.[113]

Nei giorni, e nei mesi seguenti fece da portavoce a qualsiasi chiarimento in merito alla ZFI. In particolare il Comitato ritenne necessario chiarire ai cittadini che non esisteva alcun ostacolo comunitario alla ZFI, contraddicendo quanto aveva invece sostenuto l’on. Belci[114].

Tra l’appoggio di gran parte della cittadinanza, e invece l’ostilità dei partiti, la raccolta delle firme iniziò il 6 maggio 1976, nel medesimo giorno del terremoto che sconvolse il Friuli.

Quali che fossero le cause, chi disse il disastro ambientale, chi le elezioni politiche del 20 giugno, chi ancora le vacanze, si arrivò a fine agosto con soltanto 10000 firme, e il tempo di sei mesi, concesso per legge, stava per scadere.

Si decise allora di rinunciare alle firme raccolte nel primo mese, per prolungare la raccolta ancora di trenta giorni, impegnando tutte le forze al massimo.

Lo sforzo del Comitato promotore e di quanti lo sostennero in quei mesi sortì lo scopo desiderato, e il 30 novembre 1976 Giuricin, Gruber Benco, e de Rota, depositarono a Roma circa 65000 firme.

L’enorme sostegno dato dalla popolazione triestina all’iniziativa del Comitato dei Dieci, trova la sua ragione soprattutto nel significato che il Carso ha per la città di Trieste, quale unico polmone verde per 350000 abitanti, probabilmente se non vi fosse stata la spinta ecologica, non si sarebbe verificata una simile partecipazione.

In ogni caso le firme furono depositate, in attesa che il Parlamento le prendesse in considerazione.

 

II.4.1. IL SOSTEGNO DEI RADICALI

 

All’interno del blocco compatto costituito dai partiti nel loro totale sostegno agli Accordi di Osimo, si distinse, oltre al MSI, ma per ragioni diverse, il Partito Radicale. Partito, che, nato negli anni ’70 per essere contro un certo sistema di regime, si distinse negli anni sia per le grandi battaglie in favore di importanti temi sociali: dall’aborto, al divorzio, all’obiezione di coscienza, sia per il metodo con cui furono condotte: il referendum.

La posizioni dei radicali cominciò a delinearsi nel momento in cui il disegno di legge degli Accordi veniva esaminato dalle varie commissioni parlamentari prima di essere discusso per la ratifica.

In un certo senso, non sarebbe potuto mancare a Trieste l’appoggio di un partito che aveva fatto, e continuerà a fare anche in futuro, dell’iniziativa popolare il suo cavallo di battaglia.

Il sostegno dei radicali si rivelò prezioso per Trieste per la loro capacità di concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica su di un fatto, grazie soprattutto al carisma del leader Marco Pannella[115].

Ma per radicali non si deve intendere solo Pannella. Infatti il lavoro di sostegno dei radicali triestini al Comitato dei Dieci fu fondamentale soprattutto nella raccolta delle firme. Tra essi bisogna senz’altro ricordare Giulio Ercolessi, che attraverso la pagina delle Segnalazioni fece sempre sentire la sua voce, spesso in viva polemica con i socialisti.

L’obiettivo dei radicali si concentrò sul rinvio della ratifica degli Accordi, sebbene si rendessero conto della difficoltà di raggiungerlo, vista la velocità con cui le varie commissioni stavano approvando gli accordi prima di presentarli davanti al Parlamento[116]. Essi comunque annunciarono che avrebbero votato contro l’approvazione del trattato, perché contrari alla parte dell’accordo concernente la zona franca industriale sul Carso, definito un “progetto approvato da parte italiana con criminale leggerezza e insipienza”.

Il gruppo radicale chiese infatti una sospensiva della discussione nella commissione esteri per consentire un’audizione delle associazioni sindacali, imprenditoriali e di esperti in grado di portare un reale approfondimento alle riserve della maggioranza dei triestini all’istituzione della zona franca sul Carso, ma non venne concessa.

La posizione dei radicali infastidì soprattutto i comunisti, preoccupati che il “qualunquismo di sinistra” gestito dai radicali potesse rodere un certo elettorato comunista piccolo borghese. Ciò che più agitava il PCI era l’attacco diretto che Pannella aveva loro indirizzato durante la discussione alla commissione esteri, accusandoli di aver fatto un patto di ferro con la DC, con l’appoggio alla linea politica di Andreotti, e di aver voluto offrire alla Nato un’immagine perfettamente in linea con la diplomazia atlantica. Accuse dure per un partito comunista, che infatti non tardò a replicare, accusando a sua volta i radicali di essere “avvoltoi che si aggirano su Trieste per bassi motivi di parte, demagoghi con i fascisti di ieri e di oggi”. Restava in ogni caso il timore comunista per la campagna sviluppata dai radicali, che tendeva a far apparire il PCI come il soffocatore delle aspirazioni delle popolazioni e dei lavoratori della provincia.

La protesta dei radicali si indirizzò anche in un’aperta campagna contro la stampa di regime per la disinformazione messa in atto, nella sua collusione con il potere politico: “Non a caso la radio e la televisione hanno accuratamente evitato di svolgere la doverosa informazione su questo argomento, e nessun dibattito è stato consentito alle forze politiche e parlamentari”[117].

Un’ondata di protesta, e non solo da parte dei radicali, si sollevò infatti in seguito alla mandata in onda, nel febbraio del ’77, di un dossier del TG2 sugli accordi di Osimo, e sulla zona franca in particolare. Nonostante il comunicato dei giornalisti della RAI di Trieste, nel quale veniva respinta la calunniosa valutazione espressa da Il Piccolo in merito all’attività informativa della RAI, e soprattutto si ribadiva che nel prodotto giornalistico realizzato nella sede regionale si era operato facendo costante riferimento al principio della completezza dell’informazione e dando spazio a tutte le forze politiche, sociali e culturali; le lettere di protesta arrivate alla direzione de Il Piccolo furono numerose.

Il Partito Radicale anche in quell’occasione non mancò di far sentire la propria voce, per mezzo di un comunicato, indirizzato alla redazione del giornale di Alessi. Dura la critica contro il sistema informativo di regime: “La radiotelevisione di stato, prima e dopo la riforma, non ha mai smesso di svolgere in questi anni il ruolo che svolgeva l’agenzia Stefani durante il ventennio fascista. Evidentemente lo stile non può essere quello di allora; deve essere fornito ai telespettatori il simulacro di un dibattito teleguidato e telemontato, al termine del quale lo spettatore ignaro dei problemi dibattuti debba essere posto nella condizione di dover accettare l’opinione del regime”[118]; In particolare si accusava il dossier di non aver distribuito equamente il tempo tra le diverse posizioni, e di aver dato di Trieste un’immagine totalmente fuorviante.

Con l’approvazione da parte di tutte le commissioni, il disegno di legge si avviava ad essere ratificato dal Parlamento, portandosi però dietro tutte le perplessità e le riserve che le discussioni avevano fatto emergere.


II.5. IL DIBATTITO E LA RATIFICA DEGLI ACCORDI

 

Il Piccolo nei giorni immediatamente precedenti il dibattito parlamentare sulla ratifica, sottopose i parlamentari a un sondaggio, chiedendo loro se avvertissero la necessità di più ampi tempi di riflessione e di riconsiderazione del problema, fino a giungere eventualmente a una rinegoziazione con la Iugoslavia degli aspetti economici del Trattato.

La risposta da parte dei parlamentari fu monocorde nell’affermare che prima bisognava ratificare il Trattato, poi, in fase di attuazione, svolgere un’indagine conoscitiva[119].

Nonostante le ulteriori condanne alla ZFIC da parte dell’opinione pubblica, anche se sempre in prevalenza triestina, il disegno di legge arrivò ugualmente in Parlamento l’8 dicembre per essere discusso e approvato.

Dopo una lunga giornata di discussioni, durante la quale ogni partito non fece altro che ribadire quanto già sostenuto nei giorni precedenti, il dibattito slittò di una settimana per permettere al Parlamento di discutere sia sulla scala mobile che sull’aborto; non rimase comunque senza eco a Trieste la dichiarazione dell’on. socialista Lombardi: “Si tratta di fare affidamento sulla capacità di integrazione, e soprattutto di integrazione culturale, da parte della popolazione locale, la quale, se si sente così asfittica, così priva di motivazioni, così scarsa di cultura e di civiltà da non potere tentare almeno di stabilire un rapporto di integrazione con la nuova popolazione che si insedia, allora veramente è priva della stessa motivazione di esistere e, se è sommersa, è giusto che sia sommersa”, e per quanto in seguito l’onorevole precisò il senso delle sue affermazioni, i triestini videro confermato il vuoto che si stava formando tra loro e la classe politica.

La discussione riprese il 16, e il giorno dopo la Camera dei deputati votò l’approvazione del Trattato di Osimo.

Tra il generale sollievo dei partiti per una votazione nemmeno troppo sofferta, lo scrutinio dimostrò però anche alcune lacerazioni all’interno della maggioranza, con oltre cento assenze tra le fila della DC.

Molto critico il giudizio dell’on. democristiano e triestino Tombesi: “Non posso che esprimere il rammarico che, nonostante l’opposizione di Trieste espressa in maniera civile e democratica, sia prevalso l’orientamento del governo e delle segreterie di partito.”; e altrettanto duro quello di Pannella: ”Apparentemente stasera stravincete. In realtà la lotta democratica dei triestini e la nostra di radicali hanno fatto divenire la vostra bandiera sul Carso poco meno che uno straccio. Vi diciamo [...] che la zona franca industriale sul Carso molto probabilmente non la farete, non ve la faremo fare.”[120]

Alessi nel suo editoriale confermò la linea del giornale e la delusione verso un governo, una classe dirigente che si professava democratica ma che in realtà non lo era, sempre che per governo democratico - come Jefferson sosteneva - si intendesse “governo di popolo, dal popolo, per il popolo”[121]. Dalle sue parole traspariva però anche una nuova fiducia nella città di Trieste, nei suoi abitanti, e nella loro forza e capacità di battersi per qualcosa per cui ne valesse la pena.[122]

Prima che gli accordi passassero al Senato per ottenere la seconda autorizzazione alla ratifica, il Presidente del Senato Fanfani ricevette i delegati delle 65000 firme, Letizia Fonda Savio, Aurelia Gruber Benco e Gianni Giuricin, per poter conoscere più approfonditamente le ragioni della protesta e della proposta triestina.

Delegazioni di Trieste e Gorizia furono poi invitate dal Presidente della commissione esteri del Senato per fare il punto sul problema dell’installazione della zona franca industriale, una sorta di indagine conoscitiva, uguale a quella tanto invocata e non concessa nel dibattito alla Camera, decisa per un opportuno approfondimento delle istanze locali. Ciò permise al Comitato dei Dieci, rappresentato dalla Gruber Benco di esporre le proprie motivazioni, e di contestare anche agli organi locali la capacità di rappresentanza degli interessi della città[123].

Ma nemmeno la ulteriore raccolta di 18000 firme per una petizione che chiedeva al Senato di svolgere un’indagine tecnico - scientifica di fattibilità della industrializzazione del Carso, riuscì a infrangere il muro degli osimanti; e questo nonostante il barlume di speranza che il ministro degli esteri Forlani aveva acceso nei triestini, con la sua posizione meno rigida nei confronti di una seria valutazione della parte economica degli accordi, e nella dimostrazione di sensibilità di fronte alle istanze locali.

Il 23 febbraio iniziò quindi il dibattito a Palazzo Madama per la ratifica. E per quanto le discussioni all’interno delle varie commissioni, avessero lasciato intravedere un’apertura maggiore alle richieste triestine, sia attraverso l’audizione conoscitiva della commissione esteri, sia nella costituzione di una speciale commissione ecologica; l’esito del dibattito e della votazione era a Trieste, già dato per scontato, per la volontà delle maggiori forze politiche di fare quadrato - sia pure con divergenze, sfumature, valutazioni differenziate - attorno all’accordo italo - jugoslavo.

Infatti il 24 febbraio anche il Senato diede al governo l’autorizzazione a procedere alla ratifica del trattato.

La votazione vide la DC, il PSI, il PCI, il PSDI, il PRI votare compatti (eccetto il senatore. democristiano Barbi) a favore degli accordi, per poi presentare e approvare un ordine del giorno che invitava il governo, tra le altre cose, ad un esame delle modalità d’attuazione della zona franca, “in rapporto alle conseguenze ecologiche, ai problemi economici, sociali e di tutela del lavoro italiano”[124]; astenersi il PLI, e votare contro i gruppi di destra.

L’approvazione del Senato rendeva ormai imminente la ratifica degli accordi, che infatti avvenne a Belgrado il 3 aprile dello stesso anno, e chiudeva così un doloroso capitolo della storia italiana.

 


II.5. LA LISTA CIVICA

 

Già alla fine del 1976, quando ancora non era stata votata dal Senato l’autorizzazione alla ratifica degli accordi, a Trieste si cominciò a parlare di lista civica, come atto finale di una protesta contro un sistema partitico rivelatosi incapace di salvaguardare i veri interessi della città.

Il dibattito sulla necessità o meno di costituire una lista, di scegliere cioè di diventare una forza politica, di sfruttare l’incredibile adesione dei triestini, conseguenza della raccolta delle firme, accese le pagine de Il Piccolo.

Uno dei maggiori e senz’altro più attivi propugnatori di questa idea fu Manlio Cecovini, liberale, uomo di cultura; che vide nell’azione del Comitato dei Dieci, culminata appunto nella raccolta di 65000 firme, un ottimo trampolino di lancio per mutare la situazione di Trieste, togliendola a quella classe politica che non si era dimostrata in grado di difenderla.

Ancora una volta Il Piccolo divenne il luogo naturale dove esprimere idee e cercare consensi.

La prima risposta della città si rivelò abbastanza tiepida; l’iter parlamentare della ratifica non era terminato, e l’attenzione dei triestini era ancora concentrata sugli accordi italo - jugoslavi, e sull’iniziativa della proposta di legge che li aveva coinvolti attivamente. Non ci fu quindi quell’entusiasmo immediato che forse Cecovini si era aspettato; per di più le prime critiche al progetto di una lista civica arrivarono proprio dalla Gruber Benco, promotrice della campagna a favore della Zona Franca Integrale, che in una lettera, pubblicata il 30 dicembre 1976, espresse i suoi dubbi in merito, sostenendo che fosse prematuro parlare di lista civica quando ancora la legge proposta dalle 65000 firme non aveva nemmeno iniziato il suo iter parlamentare[125].

Le motivazioni di chi invece premeva affinché ci si organizzasse nella direzione di una lista, risiedevano soprattutto nell’esigenza di sfruttare il momento politico per cambiare radicalmente la fisionomia politica della città: “E’ necessario che alle prossime elezioni amministrative, in contrapposizione alle solite e screditate liste che saranno presentate dai partiti, i triestini si presentino con una lista propria, la “lista civica per la difesa di Trieste”, queste le parole di Cecovini, in una lettera a Il Piccolo, del 15 gennaio 1977. In essa delineava già il carattere che avrebbe dovuto avere la lista. “la lista deve prescindere da colorazioni politiche individuali, in un momento d’emergenza quegli ideali devono essere accantonati per consentire di servire necessità più immediate e impellenti”; e anche il programma che ne sarebbe stato alla base: “l’autonomia legislativa provinciale in seno alla Regione, e la zona franca integrale”.

Nei mesi seguenti Cecovini, aiutato e sostenuto dall’avv. Tiberini, non si stancò mai di ripetere quanto fosse importante per la città seguire questa iniziativa; sebbene la sua posizione sulla zona franca integrale si discostasse notevolmente da quella del Comitato, al quale peraltro chiedeva un impegno attivo e concreto[126]. Egli infatti, forse con un maggiore acume politico, comprese che la proposta di legge sulla zona franca integrale era ormai nelle mani del Parlamento, e che quindi assai probabilmente il suo cammino burocratico e politico sarebbe stato lungo e difficile; con il senno di poi e con l’affossamento in commissione della proposta di legge, si dovette riconoscere a Cecovini una notevole lungimiranza.

La proposta di Cecovini finì comunque per ottenere il consenso da parte del Comitato dei Dieci, nonostante le iniziali perplessità della Gruber Benco. Infatti il 25 marzo fu pubblicato su Il Piccolo un comunicato del Comitato nel quale si affermava la volontà di non lasciare che la mobilitazione dei cittadini finisse nel nulla, ma di impegnarsi affinché la città fosse governata da veri rappresentanti del popolo. Seguiva la proposta di riunire in una lista cittadini onesti, capaci di restituire la città alla tradizione di Libero Comune. Il programma enunciato ricalcava quanto suggerito da Cecovini:

proclamazione di tutta Trieste e dell’intera provincia in zona franca integrale,

difesa ad oltranza del Carso,

autonomia provinciale in seno alla regione Friuli Venezia - Giulia per restituire a Trieste facoltà legislative primarie e l’utilizzo del proprio bilancio.

Venivano così subito individuati quelli che diverranno poi i tre punti fondamentali della politica del Melone.

Il Piccolo raccolse subito le voci entusiaste dei triestini sulla possibilità di veder nascere nella propria città una lista che uscisse dalla solita logica partitica[127].

Il lavoro dei promotori della lista civica iniziò quindi con il consenso di parte della cittadinanza, e con il solito aiuto del quotidiano locale, anche se questo non doveva durare ancora per molto, infatti nei primi mesi del 1978 Il Piccolo fu acquistato dal gruppo Rizzoli che nominò come direttore Ferruccio Borio; mentre Alessi passò a dirigere la televisione locale Telequattro[128].

Se la campagna alla ricerca di adesioni veniva da un lato portata avanti dal comitato dei Dieci con appelli ai cittadini pubblicati sul giornale, quale ad esempio l’invito ai concittadini a proporre candidati per la lista civica, ancora denominata “lista comunale della zona franca integrale”[129]; dall’altro, su iniziativa di Cecovini e Tiberini, veniva costituita una Fondazione per il benessere e la difesa di Trieste e del Carso, con lo scopo di promuovere e sostenere tutte le iniziative in quell’ambito. Scopo di questo nuovo istituto era anche dare una veste giuridica al movimento, in modo da consentire sia una raccolta di fondi necessari alla causa, sia attuare gli atti formali connessi con la presentazione di liste elettorali.

Una delle prime e importanti iniziative messe in atto dalla Fondazione fu la creazione di un organo di stampa, “La Voce Libera” - avendo ottenuto la cessione della testata del vecchio quotidiano del CNL che aveva interrotto le pubblicazioni da parecchi anni - che rappresentasse la voce del movimento, e soprattutto la diffondesse tra la gente.

Inoltre, in seguito alla pubblicazione su Il Piccolo di un annuncio, nel quale una non bene specificata “Democrazia nazionale - Costituente di destra” si presentava come propugnatrice di una lista civica; fu deciso di dare un nome alla lista per non rischiare che l’iniziativa fosse strumentalizzata da qualsiasi gruppo politico (in questo caso si trattava di un gruppo di neofascisti che si era staccato dal MSI), tra le varie proposte, piacque subito quella di Leonori: Lista per Trieste.

Una delle caratteristiche principali della Lista risiedeva nella eterogeneità dei componenti, necessaria per non discriminare alcuna posizione ideologica, e riconoscere a tutti gli elettori la facoltà di ritrovarsi nel programma del Melone.[130] Il punto di unione delle posizioni e delle ideologie più disparate degli aderenti alla Lista doveva risiedere nella accettazione dei tre punti base, poi per il resto ognuno era libero di pensare e fare quello che riteneva più giusto. Esemplificazione massima di questa libertà era la possibilità di essere inscritti anche ad un altro partito; noto il caso del sindaco Cecovini che, all’epoca delle prime elezioni europee, prese la tessera liberale per poter essere eletto, non presentandosi la Lista per Trieste alle elezioni.

La Lista quindi si organizzava in vista delle elezioni amministrative che si sarebbero dovute tenere in novembre, cercando e di mantenere una difficile unità interna e di arginare i tentativi dei vari partiti di ricatalizzare su se stessi l’attenzione dell’elettorato. Infatti a ormai due anni di distanza dalla firma degli accordi, i partiti dell’arco costituzionale cominciavano a rivedere la loro posizione sulla parte economica del trattato[131].

Il rinvio delle elezioni per il giugno dell’anno seguente non cambiò molto la situazione a Trieste, e se magari i partiti avevano visto in un rinvio la possibilità di riemergere sulla scena politica, con in più la considerazione che gli accordi iniziavano a essere lontani nel tempo, in realtà i triestini con il loro voto dimostrarono di non aver dimenticato Osimo e soprattutto di non avere più fiducia nel sistema partitico.

Le elezioni tenutesi il 25 giugno del 1978 sancirono infatti la vittoria politica della Lista per Trieste al comune, con la conquista della maggioranza relativa con ben 18 seggi.

Come primo eletto Cecovini divenne il candidato sindaco della Lista, ma soltanto dopo varie votazioni fu eletto sindaco.

L’impossibilità però di formare una giunta che includesse quasi tutto l’arco partitico, per il rifiuto del PCI di affiancarsi alla DC, portò il neosindaco ad optare per una giunta monocolore. Nasceva così la prima giunta della Lista per Trieste, formazione politica che tra assensi e dissensi avrebbe fatto sentire la propria voce per parecchi anni.

Gli accordi di Osimo avevano portato la città a ribellarsi a un sistema di logiche di partito e di governo alle quali il cittadino si sentiva estraneo, e la lista civica era stata in grado di cogliere questo malessere e di tradurlo in una nuova forza per la città.

II.7.LA STAMPA ESULE

 

Un accenno deve senz’altro essere fatto a quei giornali e periodici che gli esuli giuliani, organizzati in varie associazioni, iniziarono a pubblicare nel dopoguerra. Pur sapendo che una breve menzione non può rendere conto della totalità delle opinioni, si è comunque ritenuto indispensabile, in un’analisi della situazione locale, citare alcune testate periodiche.

Nella loro varietà si è preferito prestare maggiore attenzione a quelle pubblicazioni ritenute “ufficiali”, in quanto edite dalle due associazioni più importanti: da un lato l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, con “Difesa Adriatica”, dall’altro l’Unione degli Istriani con il suo omonimo giornale, riguardante soprattutto le informazioni della collettività istriana in esilio[132].

La prima constatazione che viene da fare, è che esiste una certa prevedibilità nelle reazioni delle associazioni degli esuli ai contenuti del Trattato di Osimo: d’altra parte non sarebbe stato logico aspettarsi che, davanti all’ennesima richiesta di sacrificio da parte dello Stato, e soprattutto di fronte ad un’altra e mal celata menzogna, esse non avrebbero reagito con stupore, indignazione e con una certa asprezza di toni; duri sono infatti i titoli: “Rinuncia alla zona B? Umiliante e disastrosa”[133], “La resa in zona B: peggio del Diktat”[134], e altrettanto pieni di amarezza e condanna i contenuti.[135]

Tale prevedibilità trova le sue radici in una storia lunga e dolorosa, che soltanto chi ha vissuto sulla propria pelle, e chi ha pagato con il sacrificio della rinuncia a tutto quello che aveva, può comprendere.

Le angolazioni attraverso le quali vengono affrontati gli argomenti del trattato, sono le medesime di certa stampa locale o di destra: numerosi sono i richiami alle violazioni al trattato di pace, alla dichiarazione dei diritti dell’uomo, alla Costituzione italiana: ”[...] esso costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale, e non avrebbe quindi nessun valore giuridico in quanto rappresenterebbe una unilaterale modifica del trattato di pace, [...] inoltre costituirebbe un atto incostituzionale per lo Stato italiano in quanto rappresenterebbe un impegno per la cessione di una parte del territorio nazionale, per cui è competente solo il Parlamento”[136]; e soprattutto non viene accettato, come giustificazione dell’operato del governo, il richiamo alla guerra perduta dal fascismo: “[...] Ma non mi sembra, però, giusto continuare a trascinare per oltre trent’anni la pietra di una doverosa e triste espiazione della guerra fascista. [...] I nostri debiti di guerra nei confronti della Iugoslavia li abbiamo pagati: cessione di tutta la Venezia Giulia, pagamento di 125 milioni di $, arretramento delle fortificazioni militari di 15 Km dal confine, consegna dei criminali di guerra italiani e restituzione di quelli slavi...[...]”[137], unitamente alla incomprensione verso una giustizia storica che chiedeva soltanto ai giuliani di pagare le sorti di una guerra persa.

La rinuncia alla zona B tanto invocata dal governo e soprattutto dai suoi più alti rappresentanti, quali il Presidente del Consiglio Moro, e il Ministro degli esteri Rumor, non poteva quindi essere accettata dagli esuli, sia da chi aveva già perso tutto nel ’47, sia da chi aveva ancora sperato di poter tornare un giorno nella sua terra[138].

Alcune differenze esistono invece sia nei confronti della “stampa di parte” - intendendo quella di destra - sia all’interno delle due pubblicazioni.

Innanzitutto, maggiore è il richiamo alla necessità di una azione comune da svolgere per cercare di contrastare quanto il governo era intenzionato a concludere.

E’ soprattutto l’ ”Unione degli Istriani” a promuovere azioni in grado di mobilitare l’opinione pubblica, sia per mezzo di appelli al governo, ai parlamentari, ai giornali; e di sollecitazioni “agli amici, dovunque residenti nel mondo, per chiarire in tutti gli ambienti che, in Italia e all’estero, potranno avere influenza sulle definitive decisioni per la zona B”[139]; sia attraverso la creazione di comitati per la difesa di Trieste e della zona B, in sostituzione ai già esistenti “comitati per la difesa della zona B e dell’Istria”.

Diversa è invece l’impostazione di “Difesa Adriatica”.

Maggiore è l’attenzione per le questioni giuridiche: la sovranità italiana della zona B viene sottolineata di continuo; e soprattutto poco è l’interesse verso una concreta azione, se paragonato alla ricerca di motivazioni, colpevolizzazioni e cause per quanto accaduto. Si sprecano così le accuse al governo: “ E’ mai possibile che il governo italiano, che fin dal dopoguerra e fino allo scorso anno aveva sempre dichiarato l’italianità della zona B e la provvisorietà del Memorandum, si sia lasciato strappare da Tito e dal comunismo rampante anche questo ultimo lembo d’Italia?”[140], e all’informazione: “La stampa quotidiana tratta l’argomento solo occasionalmente, quale uno dei tanti problemi che affliggono il Paese, ma esso sembra considerarlo marginale, e non lo valuta affatto come questione vitale anche per la nazione, quale esso è per Trieste e per i giuliani”[141]; un notevole margine di fiducia viene invece, almeno prima dell’approvazione del Trattato, riservato al Parlamento, nel quale vengono riposte le ultime speranze di un dietro front del governo.

In un secondo momento, coincidente con l’avvicinarsi della ratifica, anche “Difesa Adriatica” si fece promotrice di una serie di azioni concrete atte a impedire la ratifica del trattato: “Ciò che preoccupa anzitutto è il creare dei ponti verso l’opinione pubblica. E’ per noi di grande consolazione il rilevare come si moltiplichino le lettere degli esuli ai quotidiani e rotocalchi, evitando un tono retorico ed enfatico che non giova alla nostra causa”[142]

Uno forse dei maggiori pregi di “Difesa Adriatica” fu l’attenzione che Padre Flaminio Rocchi - una delle figure più attive all’interno delle associazioni degli esuli - riservò agli aspetti più pratici del trattato. Essa si concretizzò in un’analisi dettagliata degli articoli riguardanti la tutela della minoranza[143], la questione della cittadinanza[144], e gli indennizzi[145], mettendone in evidenza gli errori e le lacune.

La seconda notevole divergenza tra i due giornali, si evidenziò nel diverso modo di affrontare la questione della zona franca sul Carso.

Se per l’“Unione degli Istriani” essa divenne motivazione in più per cercare di contrastare l’operato del governo, tirando in causa anche il nuovo confine marittimo e i danni che Trieste avrebbe subito dal punto di vista economico[146]; per “Difesa Adriatica” invece, il fatto che una questione ecologica riuscisse a far più presa sull’opinione pubblica della perdita di una parte di territorio, fu un’ulteriore dimostrazione della mancanza di senso dello Stato e della patria in Italia: ”[ c’è] l’amarezza che può venire dal maggior peso che certi oppositori di Osimo danno agli aspetti ecologici del problema della zona franca sul Carso rispetto a quelli umani legati al dramma degli esuli [...]”[147], o ancora: “il nostro senso di realismo ci obbliga a sottolineare come le maggiori perplessità riguardino soprattutto la parte economica del protocollo e come il problema della zona B sia invece guardato da un angolo visuale caratterizzato da un’amara rassegnazione di fronte a quello che, da taluni, viene definito il riconoscimento di uno stato di fatto ormai trentennale”[148].

Nonostante tutte le iniziative, i tentativi, la volontà e l’impegno degli esuli affinché ci fosse almeno una maggiore conoscenza sia da parte della classe politica che dell’opinione pubblica, il Trattato di Osimo fu comunque ratificato, e la zona B annessa alla Iugoslavia dopo trent’anni di promesse e ambiguità.

La stampa esule dedicò sempre grande interesse alla “questione Osimo”, ricordandone l’anniversario come una triste data, e cercando soprattutto di dare un appoggio ai numerosi esuli che ancora dovevano affrontare le spiacevoli pratiche amministrative per ottenere la cittadinanza italiana, e in misura maggiore per il rimborso degli indennizzi.

 


 

 

 

 

 

CAPITOLO III :

 

LA REAZIONE DELLA STAMPA NAZIONALE


Come abbiamo già detto, l’ultima decade di settembre del ’75 fu caratterizzata da un rifiorire, sulla stampa italiana, delle discussioni su Trieste e sulla zona B.

In seguito alle indiscrezioni pubblicate il 23 settembre da Il Giornale d’Italia, tutti i maggiori quotidiani nazionali riportarono le prime vaghe notizie sull’argomento.

Il senso di realismo politico cui aveva fatto appello il Ministro degli Esteri, on. Rumor, nel presentare l’accordo con la Iugoslavia al Parlamento, fu dalla maggior parte della pubblica opinione italiana accettato come un criterio valido; infatti la posizione che assunsero i principali giornali nazionali rispecchiò sostanzialmente la linea del governo sulla ineluttabilità della soluzione raggiunta[149].

Pur con le diverse sfumature derivanti dall’indirizzo politico della testata, non ci fu un solo giornale della cosiddetta “stampa di regime”, che contrastò la politica del governo Moro, e che si oppose in modo netto a quella che venne definita una “dolorosa rinuncia”.

Il ruolo di oppositore fu sostenuto soltanto (ma come d’altronde era facile immaginare) dal quotidiano di destra Il Secolo d’Italia; opposizione che si mantenne però sul piano del nazionalismo e del revanscismo, capaci solo di rinfocolare vecchi odi, ma non di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su una diversa interpretazione della realtà, rispetto a quella che veniva proposta dalla stampa indipendente o di sinistra.

Ciò che maggiormente traspare dalle righe dei giornali è una certa ovvietà della soluzione, come se negli ultimi vent’anni la politica estera italiana, e la stessa stampa non avessero fatto altro che affermare sia l’impossibilità di mantenere una situazione provvisoria sul confine orientale, sia la non fondatezza dell’assunto della sovranità italiana sulla zona B.

In realtà in tutto questo tempo la questione dei confini orientali non aveva riscosso un grande interesse da parte della stampa, mentre, da parte loro, i politici si erano sempre premurati di affermare davanti all’opinione pubblica la provvisorietà della soluzione prevista dal Memorandum.

In ogni caso, nel momento in cui viene riproposta con forza all’opinione pubblica la questione della zona B, si nota una certa unitarietà nella linea della stampa, quasi ci fosse un obiettivo comune da raggiungere o perlomeno una linea unica da seguire.


III.1. LA POSIZIONE DELLA STAMPA: PUNTI DI UNIONE E DI DISACCORDO

 

I due punti sui quali i maggiori quotidiani concordano sono: da un lato il continuo richiamo alla guerra perduta dal fascismo, e quindi al conto ancora aperto della Repubblica italiana nei confronti della vicina Repubblica Jugoslava; dall’altro la necessità di aiutare lo stato jugoslavo nella sua indipendenza dall’Unione Sovietica.

Impostata la questione in questi termini, non esisteva alcuno spazio per un rifiuto degli accordi che i due governi si apprestavano a firmare, e rimaneva soltanto da esprimere un discreto pietismo nei confronti degli esuli istriani, chiamati ancora una volta a pagare le sorti di una guerra perduta.

 

III.1.1. COLPEVOLIZZAZIONE DEL FASCISMO

 

Il richiamo alla guerra perduta dal fascismo diventa chiaramente il cavallo di battaglia della stampa più a sinistra, ma non solo. Esso viene costantemente riproposto, soprattutto di fronte alla reazione della destra, per mettere a tacere le voci contrarie alla cessione della zona B. D’altra parte il primo a ricordare le responsabilità del fascismo era stato proprio il Presidente del Consiglio Moro[150], nella relazione di presentazione al Parlamento degli accordi con la Iugoslavia.

Un maggiore realismo storico - politico si ritrova nelle opinioni di un editorialista di Panorama, Giorgio Fattori, il quale, pur non discostandosi più di tanto dalla linea generale di imputazione al fascismo, ammette che errori tattici, contraddizioni, colpevoli ritardi furono fatti quando la situazione era ancora impregiudicata: “Semmai c’è da constatare che egoismi tattici dei partiti cristallizzarono la zona B prima del 1954: dal possibilismo di Togliatti, condizionato dalle oscillazioni dello scisma titoista, al rifiuto di De Gasperi della mediazione americana, alla vigilia delle elezioni del’53, quando era possibile ottenere le città costiere fino a Capodistria in cambio di concessioni nel retroterra sloveno”[151].

Da parte della stampa ci fu anche un’implicita accusa ai governi italiani, che per troppo tempo si erano portati dietro una questione così delicata, che in realtà poteva essere risolta molto tempo prima, e in questa affermazione si coglie l’allusione alle rinunce sopportate dalla Germania alla fine della guerra.[152]

Il riferimento alla responsabilità fascista venne soprattutto dalle pagine de L’Unità, come se appunto il trattato di Osimo chiudesse definitivamente la pesante eredità del fascismo: “[...] si sarebbe dovuto ricordare che è stato proprio nel periodo di Salò che il Trentino e l’Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia e la provincia di Belluno furono inseriti di fatto nel III Reich, e che se c’è qualcuno che non è moralmente e politicamente qualificato a giudicare la soluzione odierna, questi sono i fascisti”[153]. L’accusa del quotidiano comunista non si fermava però solamente alle colpe del ventennio, ma chiamava sul banco degli imputati anche i governi della Repubblica, che pur di controbattere l’offensiva comunista erano ricorsi a imbrogli e imbonimenti dell’opinione pubblica, “[...] sarebbe stato opportuno chiedersi se non si siano lasciate cadere occasioni favorevoli, come certamente accadde nel ’51, o se certi atti degli occidentali, come la dichiarazione tripartita del marzo 1948, non furono compiuti nell’intento di influenzare la situazione interna italiana”[154].

Pur apparendo lecito il riferimento del quotidiano del PCI al valore della Resistenza, che aveva senz’altro permesso all’Italia di pagare un prezzo minore rispetto alla Germania, un po’ forzato sembra invece quello alla collaborazione tra il movimento partigiano italiano e quello jugoslavo, quasi non ci si ricordasse più che una delle prime azioni dei partigiani jugoslavi appena arrivati a Trieste nel maggio del 1945 era stato l’arresto dell’intero CLN[155].

Il principale colpevole della nuova rinuncia che veniva imposta agli italiani, o meglio agli istriani, venne identificato quindi col fascismo; così anche La Stampa di Torino il 2 ottobre scrive: “[...] Lo sdegno nazionale del quale pretendono di farsi interpreti i fascisti, è perciò, chiaramente un volgare pretesto polemico. Si potrebbe semmai rispondere che se l’Italia ha dovuto rinunciare alla zona B e, prima ancora, a più cospicui territori istriani e dalmati, è a causa e in conseguenza della guerra assurda che il fascismo impose all’Italia”[156]. Su questa presa di posizione influivano senz’altro le accuse che arrivavano dalla destra al governo e alla classe politica: “[...] bravi, bravissimi, hanno dato una mano ai predatori di terre italianissime. [...] Qui si tratta semplicemente di difendere gli interessi dell’Italia e i diritti di varie centinaia di figli suoi. Ma in questo nostro disgraziato paese il Governo siede fra il coro di osanna della stampa o il suo complice silenzio”[157], “Mentre la mutilazione del territorio della Patria stava per avere la sporca sanzione a cose praticamente fatte dalla maggioranza dei rappresentanti del popolo [essi] ascoltavano nella più cinica indifferenza condividendo quello spirito di comprensione e di reciproca utilità col quale l’on. Moro aveva aperto il suo intervento”[158].

Neppure Montanelli, direttore de Il Giornale nuovo, evitò un riferimento alla guerra persa[159], nonostante poi il suo editoriale si discostasse notevolmente da quella forma di pietismo o di partecipazione dovuta nei confronti della gente istriana che aveva caratterizzato sia le dichiarazioni degli uomini politici sia quelle di alcuni giornalisti[160].

III.1.2. SOSTEGNO ALLA IUGOSLAVIA

 

L’altro punto che trovò quasi totalmente compatta la stampa nazionale fu la necessità per l’Italia e per l’Europa di garantire una certa tranquillità e sicurezza alla Iugoslavia per permetterle di continuare il suo difficile ruolo di via alternativa al comunismo, in aperto contrasto con Mosca e il Cominform.

Da quando nel 1948 era stata formalizzata la rottura tra Tito e Stalin, la parola d’ordine, negli anni seguenti, fu di “tenere a galla Tito”, per evitare che la sua caduta portasse l’Unione Sovietica alle porte dell’Occidente. La conseguenza immediata della nuova situazione internazionale, si tradusse nella volontà di risolvere il problema giuliano senza chiaramente compromettere la posizione di Tito, che, da solo, aveva osato sconfessare il ruolo guida di Mosca. Questa politica venne costantemente ribadita da parte delle potenze occidentali, nel corso degli anni.

E, infatti, ancora nel 1975, viene, sia da parte dei politici che della stampa, sottolineata la necessità di aiutare la Iugoslavia a conservare la sua stabilità (messa in discussione dai movimenti centripeti delle numerose minoranze che componevano la Repubblica Federativa) e la sua identità, proprio per la sua posizione di cerniera tra il nostro Paese e il blocco sovietico. “La definizione della questione italiana attenua e riduce le preoccupazioni del potere centrale jugoslavo, anche perché costituisce un precedente incoraggiante per altre dispute più pericolose”[161]; “Ogni italiano responsabile valuta l’importanza che riveste per noi l’indipendenza e la stabilità della Iugoslavia. Basti considerare che la stessa indipendenza da Mosca vantata dai comunisti italiani diventerebbe per loro meno facile il giorno che l’Italia confinasse direttamente con un paese del blocco sovietico. [...] ma per resistere alle pressioni sovietiche la Iugoslavia deve avere le spalle sicure, deve cioè poter contare su un’Italia saldamente legata all’Europa e al mondo occidentale”[162].

Gli accordi con la Iugoslavia vengono poi analizzati anche nella logica di Helsinki, nel superamento cioè delle controversie territoriali, dei nazionalismi angusti, nella prospettiva di un’Europa unita anche nell’area mediterranea: “L’aspetto più valido dell’accordo italo - jugoslavo è di proiettarsi verso il futuro. Esso può essere un punto di partenza per un discorso mediterraneo, al quale sia Roma che Belgrado sono interessate”[163].

La volontà di contribuire ad una Iugoslavia forte e stabile viene discussa soprattutto dai comunisti, nei quali si aggiunge il desiderio di vedere finalmente realizzata un tipo di cooperazione tra paesi a diverso regime sociale: ”[...] E’ interesse dell’Italia che la Iugoslavia si sviluppi come Stato socialista non allineato ed è interesse della Iugoslavia che la democrazia in Italia si consolidi e progredisca”[164].

Una posizione leggermente differente viene assunta da Il Giornale nella valutazione del “dopo Tito”. Se infatti le più importanti testate, in perfetto accordo, tra l’altro, con la classe politica, giudicarono necessaria la risoluzione del contenzioso confinario proprio in previsione di una vicina scomparsa del Maresciallo, ormai ottuagenario, in modo da poter assicurare all’Italia la certezza del diritto su Trieste e sulla Zona A[165]; Il Giornale di Montanelli paventava invece un avvicinamento dei russi al confine italiano nel momento in cui fosse venuto meno il controllo di Tito[166]; bisogna però aggiungere che questa posizione verrà “rinnegata” soltanto pochi giorni dopo, quando anche Montanelli giudicherà necessaria per la “ragione di stato” la rinuncia alla zona B[167].

 

III.1.3. LE ACCUSE DELLA DESTRA

 

L’unico giornale che continuò il suo attacco contro la classe politica e contro la stampa, per quella che definì una vergogna, un’ingiustizia, un tradimento fu l’organo di stampa del MSI, Il Secolo d’Italia.

Oltre ai continui richiami al valore della patria, ormai dimenticato nel nostro Paese[168], e oltre a dar voce alle organizzazioni degli esuli, esso non mancò di vedere nell’accordo che il governo si apprestava a firmare, un’azione del PCI. Infatti, dopo aver accusato il Partito Comunista di aver attuato un voltafaccia per personale rendiconto[169], Il Secolo d’Italia insinuò il dubbio nella pubblica opinione che Berlinguer, allora segretario del PCI, avesse avuto un ruolo determinante nella soluzione della zona B: “[...] bisogna forse cercare nel complesso discorso dei comunisti europei la ragione dell’operazione. L’accordo Tito - Berlinguer della scorsa Pasqua si fa non solo sulla pelle della zona B ma anche su quella della stessa Trieste, la cui naturale funzione concorrenzionale con la Iugoslavia deve essere smorzata per caritatevole volontà del governo”[170], “[...] la ragione di stato che poi è il primo concreto pesantissimo prezzo pagato dagli italiani al compromesso storico, ha indotto Moro e la DC a consegnare a Berlinguer il regalo che aveva promesso a Tito.”[171] A questo proposito assume un certo significato la risposta data da Giorgio Fattori dalle pagine di Panorama, in quanto egli non smentisce che i comunisti fossero al corrente dei contatti tra i due governi, ma tiene a sottolineare che l’antefatto degli accordi di Osimo era stato l’incontro, avvenuto a Dubrovnik nel 1973, tra il ministro degli esteri jugoslavo Tepavac e il nostro ministro Medici del governo Andreotti, “[...] e cioè della formazione politica più lontana da tentazioni di compromesso con i comunisti che l’Italia abbia avuto negli ultimi anni”[172].

Il Giornale si discostò dalla linea comune della “stampa di regime”, anche per la sua incessante critica al centro - sinistra.[173] Essa nasceva soprattutto dal peso che avevano assunto i comunisti nel determinare certe azioni del governo, spalleggiati in questo dai socialisti che appoggiavano esternamente il governo. La discussione e la votazione sulla zona B divennero quindi l’occasione per mostrare la fragilità di un governo che non poteva richiedere un voto di fiducia al Parlamento per non mettere in imbarazzo i comunisti, necessitando nel contempo del loro appoggio per ottenere l’autorizzazione a procedere[174].

Il quotidiano di Montanelli colse anche il pretesto della assenza della gran parte dei deputati democristiani il giorno della votazione, per continuare la sua requisitoria contro il governo, e contro il Presidente del Consiglio: ”ma l’assenza che ci sembra più inquietante e ingiustificata è quella del presidente del Consiglio. [...] Un governo che si decapita nell’atto più solenne della vita parlamentare, qual è il voto a chiusura di un dibattito sull’integrità territoriale del Paese, perde molti dei suoi titoli di credibilità”.[175]

Così, senza tanti clamori, la firma dell’accordo con la Iugoslavia fu posta e la stampa si dimenticò in fretta di una polemica che aveva interessato parte dell’opinione pubblica.

L’attenzione ritornò chiaramente al momento della ratifica dell’accordo, quando per la seconda volta il Parlamento fu chiamato a giudicare l’operato del Governo e a dare la sua approvazione.


III.2. ZFIC: NUOVI OPPOSITORI E VECCHI SOSTENITORI

 

Nel frattempo però alcune cose erano cambiate. Come abbiamo visto, Trieste si era opposta con tenacia agli accordi con la Iugoslavia, soprattutto riguardo alla parte economica degli stessi, e nella sua protesta aveva trovato anche l’appoggio dei radicali, e di tante associazioni ambientaliste di fama internazionale.

Tutto questo non poteva chiaramente passare inosservato agli occhi dell’opinione pubblica, e infatti ci fu una sostanziale revisione di alcune posizioni soprattutto in merito alla progettata zona franca industriale sul Carso.

Se nell’ottobre del 1975 si era avuto un pressoché unanime consenso all’ipotesi di uno sviluppo industriale sul Carso, questo si era verificato anche per la superficialità dell’analisi di tale prospettiva: si era parlato infatti soltanto in termini di necessità per Trieste di un appoggio per uscire dall’isolamento, per ritornare ad avere un ruolo che dalla fine della Mittel Europa non aveva più avuto[176], o di un’iniziativa concreta che guarda al futuro[177]. Soltanto Il Giornale si era premurato di approfondire la questione con interviste al sindaco di Trieste e al presidente della Provincia, ma questo non aveva cambiato la sostanza di un giudizio nel complesso positivo: “I vantaggi potranno esserci, e notevoli, se ancora una volta le promesse non si risolveranno in parole”[178].

Alla vigilia della ratifica ci fu, come detto, un ripensamento rispetto alle prime considerazioni.

 

III.2.1. PRIMI DISACCORDI IN MERITO ALLA ZONA FRANCA INDUSTRIALE

 

L’argomento della zona franca divenne principale rispetto alla cessione della zona B - la parte politica del trattato era infatti ormai stata accettata da tutti, eccetto dalle destre, e non veniva più messa in discussione - . La questione della zona franca iniziava invece a riscuotere sempre maggiore attenzione da parte della stampa.

Su questo problema però le posizioni dei giornali si radicalizzarono in base all’indirizzo politico della testata, i maggiori partiti politici erano schierati per una veloce ratifica degli accordi (anche perché ormai era già passato più di un anno dalla firma degli stessi), tra essi la DC e il PCI in prima fila; è quindi abbastanza scontato leggere sulle pagine de L’Unità un giudizio positivo sulla parte economica. Ma accanto ad una tale fermezza, gli altri partiti iniziarono a vacillare, tra essi per primo il Partito Liberale, che chiese infatti una sospensiva della seduta della commissione della Camera per un’indagine conoscitiva (non concessa); di rimbalzo anche Il Giornale di Montanelli, pur non essendo l’organo ufficiale di nessun partito, ma nato due anni prima per rivolgersi ad un pubblico conservatore di centro - destra, cominciò a valutare l’effettività della realizzazione della ZFIC e a dare maggiore ascolto alla protesta di Trieste.

Senz’altro l’opposizione di Trieste alla istituzione della zona franca ebbe un certo peso nell’interesse manifestato da parte della stampa, e le 65000 firme non passarono inosservate. Continui sono infatti i riferimenti, nelle pagine dei giornali più moderati, alla situazione della città giuliana e alle motivazioni degli antiosimanti, che - e questo assume un certo rilievo - non vengono più individuati come fascisti, e nazionalisti[179], ma per quello che sono: un gruppo eterogeneo di cittadini che rifiuta una zona franca industriale sul Carso.

Il fatto di costituire un gruppo eterogeneo permise senza dubbio al Comitato promotore della Zona franca Integrale di ottenere una maggiore attenzione della stampa, senza appunto venire subito etichettato come fascista e revanscista, nonostante vi fossero elementi di destra o rappresentanti delle organizzazioni di profughi (da sempre identificati come fascisti)[180], anche perché quello che proponeva non era la guerra alla Iugoslavia o il rifiuto della linea di confine, ma l’allargamento della zona franca commerciale e industriale a tutta la provincia di Trieste.

Insomma le proteste di Trieste contro il protocollo apparvero legittime in parte della stampa nazionale, e un maggiore spirito critico iniziò a serpeggiare anche nei confronti della classe politica sia nazionale “[...] dai democristiani ai comunisti hanno accettato disciplinatamente (o supinamente?) il pacchetto di Osimo elaborato nelle cancellerie romane da grandi burocrati di Stato che Trieste l’hanno vista soltanto in cartolina, o dall’elicottero”[181], che locale: “[...] Per difendersi dall’aggiramento i partiti locali dell’arco costituzionale mirano a dequalificare i firmatari accusandoli di nazionalismo, di indipendentismo, di esulismo istriano, di fascismo, di revanscismo: precisando che il protocollo economico per cui si battono è solo il pretesto per sabotare l’accordo economico sui confini. Peccato che alla più elementare verifica questa accusa appare troppo generica.”[182]

Come accennato, il giudizio sulla zona franca e conseguentemente sulla proposta e sulla protesta triestina non fu unanime.

 

III.2.2. FERMEZZA DELLA SINISTRA (MA NON SOLO)

 

L’Unità ma anche La Stampa e La Repubblica - neonato quotidiano di centro - sinistra, sotto la direzione di Eugenio Scalfari - si schierarono a favore, pur con alcune differenze soprattutto nelle motivazioni, della ZFIC.

Per il quotidiano comunista l’occasione della zona franca si presentava come unica possibilità per Trieste di uscire dal suo isolamento, non sottovalutando nemmeno l’enorme importanza di una prima forma di cooperazione tra due Stati a regime sociale e politico diverso, “si tratta di una grossa carta da giocare. [...] la zona franca interconfinaria può diventare infatti una finestra della CEE sulla Iugoslavia e sui Paesi del COMECON. [...] Si tratta di realizzare non uno strumento di evasioni doganali, ma di autentica cooperazione internazionale”.[183] Nonostante l’ammissione della necessità di nuovi studi sulla collocazione della ZFIC, in riferimento in particolare ai problemi di natura ecologica, la posizione dei comunisti - come d’altronde quella della più parte della classe politica italiana - considerava indispensabile arrivare il prima possibile alla ratifica, poi semmai in un secondo tempo introdurre mutamenti nei progetti degli accordi.[184]

La posizione de La Stampa rifletteva invece, più che una posizione politica, gli interessi economici che si nascondevano dietro la istituzione della zona franca industriale. La Stampa, che annovera tra i suoi azionisti la famiglia Agnelli, non poteva che appoggiare un accordo che avrebbe favorito il grande capitale industriale, primo fra tutti la Fiat, “[...] sarebbe infatti il grande capitale italiano ad avere favorito questa zona industriale, e in particolare la Fiat avrebbe intenzione di impiantarvi, in esenzione doganale, uno stabilimento per rifornire l’Est di pezzi di ricambio”[185].

Dura fu poi la reazione dei comunisti nei confronti della proposta di creare una Zona Franca Integrale. La loro critica nasceva dal fatto che negli anni ’50, subito dopo il ritorno di Trieste all’Italia, quando si trattava di realizzarne un’integrazione nel sistema economica nazionale, essi avevano già proposto, per iniziativa di Vittorio Vidali, la creazione di una zona franca di consumo extrademaniale a Trieste; ma dopo che la CEE nel ’69 aveva decretato che zone franche di quel tipo non se ne dovevano più creare, la proposta era caduta.

L’irritazione dei comunisti trovava il suo fondamento soprattutto nel fatto che, ai tempi della loro proposta, “la cosiddetta parte ben pensante della cittadinanza triestina aveva accanitamente osteggiato l’iniziativa degli esponenti del PCI, anche con motivazioni di tipo nazionalistico”[186], mentre ora lo stesso gruppo di triestini che fino al 1969 aveva osteggiato la proposta di Vidali, rispolverava la medesima richiesta.

I comunisti non mancarono di criticare, anche con toni aspri, un partito che, pur facendo parte dell’area di sinistra, si era schierato contro la ZFIC, e aveva dato il suo appoggio incondizionato al Comitato promotore per la Zona Franca Integrale, il Partito Radicale. Dure le parole di Pajetta nel dibattito alla Camera, rivolte ai radicali: “[...] vorremmo ammonire a non coprire da sinistra i rigurgiti sciovinisti e fascisti; ammonire a non dare coperture democratiche ad imperialisti di ieri ridotti oggi ad accattoni dei residui di quell’impero che saltò, e a non pescare nel torbido per smanie elettorali quando si tratta di cose serie per Trieste e per l’Italia”.[187]

Un’accusa a Pannella arrivò qualche anno più tardi anche da un membro del Comitato dei Dieci, Gianni Giuricin, il quale, pur riconoscendo ai radicali il merito di aver aiutato Trieste nella sua lotta contro la ZFIC, criticò il loro leader di aver voluto egemonizzare il Melone per fini elettorali e soprattutto per attuare un disegno che vedeva il Melone diventare l’emblema della lotta antipartitica.[188]

In ogni caso il giudizio della sinistra fu abbastanza duro sia verso Pannella e i radicali che verso il Comitato dei Dieci e la raccolta delle firme; dal momento che essa non rinunciò a vedere nel movimento triestino l’azione di una destra revanscista, nazionalista e sciovinista[189], capace di catalizzare l’attenzione e l’azione anche di forze non fasciste ma comunque rinchiuse “nelle pieghe del loro municipalismo anacronistico, fermo ad una illusione mercantile, economicamente maltusiano e politicamente utopistico.”[190]

L’accusa dei comunisti in realtà non aveva un gran fondamento, perché se anche era vero che parte dei promotori e dei firmatari della proposta sulla zona franca integrale simpatizzava per la destra, e che il MSI aveva sempre ottenuto a Trieste un discreto successo, questo non significava che tutta la protesta fosse stata organizzata e sostenuta dalla destra[191], prova ne fu soprattutto il fatto che la grande polemica che il quotidiano del MSI aveva inscenato al momento della firma dell’accordo, non ebbe un equivalente prima e dopo la ratifica; anzi, esso non risparmiò di critiche nemmeno Trieste: “Dobbiamo però notare che senza la coraggiosa e solitaria opposizione del MSI-DN al trattato di Osimo, oggi Trieste e i triestini non avrebbero avuto modo di organizzarsi e di tentare una battaglia di autodifesa”[192], quasi un’accusa al movimento triestino che non era nato sotto l’egida del partito di Almirante.

Ciò che poi distinse Il Secolo d’Italia dagli altri giornali fu anche la poca attenzione data alla istituzione della zona franca, e invece il continuo appellarsi all’incostituzionalità della cessione della zona B.


III.3. RATIFICA DEGLI ACCORDI

 

Ma nonostante le polemiche, i ripensamenti, le proteste di gruppi politici e no, il trattato fu comunque ratificato dal Parlamento, riscuotendo alla fine il plauso della classe politica e della stampa.

L’importante era essere riusciti a chiudere la vertenza sui confini, alla quale nessuno si era opposto, ed avere in tal modo aiutato la vicina Iugoslavia a risolvere almeno uno dei tanti problemi che l’attanagliavano, poi in un secondo tempo ci si sarebbe magari preoccupati di studiare la fattibilità della ZFIC[193].

Importante era soprattutto guardare avanti, non soffermarsi sul capitolo che si era chiuso, tanto da far affermare a Dino Frescobaldi: ”dire che con tali accordi si è chiusa una pagina che è costata tanto dolore e tanti sacrifici al popolo italiano, e alla gente istriana in particolare, sarebbe vedere in essi l’aspetto minore, forse solo il lato formale e burocratico. In realtà tale pagina era stata da tempo sigillata definitivamente dai fatti, dalla situazione internazionale, e da un trentennio che ha visto l’assestamento dei confini europei.”[194]

Si imponeva la necessità di aprire lo sguardo sul futuro, inquadrare gli accordi in una dimensione europea e mediterranea, e garantire alla Iugoslavia valide prospettive di cooperazione economica con la Comunità Europea e di armoniosa collaborazione con l’Italia, dal momento che “obbligare la classe dirigente jugoslava a ridiscutere un trattato con l’occidente in uno dei momenti più drammatici della sua storia nazionale, significherebbe accentuare la delusione e la chiusura di questo Paese”[195].

I comunisti, dal canto loro, ripeterono il loro augurio per una cooperazione tra due Stati a diverso regime sociale ed  economico: “E’ stabilizzante il fatto  che la frontiera che viene resa certa, e la cooperazione che attraverso quella frontiera viene promossa, riguardino un Paese come la Iugoslavia, con le peculiarità della sua opzione socialista e insieme del suo non - allineamento.”[196] E nello stesso tempo ribadirono uno dei nuovi punti della politica del PCI attuata da Berlinguer, vale a dire la coesistenza ipotetica del PCI al governo e dell’Italia nella Nato[197]: “E’ stabilizzante e può risultare al tempo stesso propulsivo, che quella frontiera interessi anche l’Alleanza Atlantica, se in ciò Osimo esprime un’attitudine dell’Italia a svolgere dall’interno dell’alleanza, essendone membro, in piena compatibilità, una autonoma iniziativa per la coesistenza”[198].

Fu anche su questa questione che la polemica tra il Partito Comunista e quello Radicale si fece particolarmente aspra. Pannella non perse infatti l’occasione di accusare il PCI di aver stretto un patto con la DC e di aver voluto offrire alla Nato un’immagine del partito in perfetta linea con la diplomazia atlantica: “[...] la fretta non è della Iugoslavia [nella ratifica del trattato], ma della Nato e degli USA, e il PCI, nella sua linea di sfrenato sostegno alla DC, ha visto in questa occasione la possibilità di dare prova di fedeltà all’Alleanza atlantica”[199].

A ormai due mesi dalla ratifica, quando di Osimo non si sentiva più parlare - gli accordi italo - jugoslavi divennero nuovamente oggetto di dibattito in occasione della visita del ministro Forlani a Belgrado, ma per ribadire soltanto l’importanza della cooperazione tra i due Paesi - il Corriere della Sera, mostrando così una notevole apertura, pubblicò un articolo di Claudio Magris, nel quale, forse per la prima volta, la protesta di Trieste veniva analizzata in un’ottica reale.

Innanzitutto, Magris contestava al governo la scelta di legare la risoluzione del problema dei confini con quella di costituire una zona industriale sul Carso. Ma la sua accusa principale riguardava soprattutto la noncuranza della classe politica italiana nei confronti del dissenso di Trieste, anche perché l’unico effetto che si era ottenuto, in tal modo, era che la preoccupazione della città per il proprio destino, era divenuta, a causa dell’indifferenza generale, “esclusiva e assillante” [200]. Nella richiesta di una zona franca integrale, sostenuta dalla raccolta di 65000 firme, Magris vide poi “un’insicurezza latente, uno stato d’animo tipicamente triestino, oscuramente insidiato dal timore di essere il figlio trascurato della famiglia e quindi bramoso di ricevere un attestato speciale di figlio prediletto; riluttante ad accettare il proprio ruolo reale, [nel quale] giustamente occorra lottare per sopravvivere...”[201]. Pur, quindi, con tutte le riserve in merito alla protesta e alla richiesta triestina, Magris non rinunciò a denunciare sia la spocchiosa indifferenza del potere politico, sostenuto in questo anche dall’opinione pubblica, sia lo spirito superficiale col quale era stato accolto il problema dei confini: “Ma questa ratifica dei confini è stata compiuta dal governo con burocratica svogliatezza anziché con la dolorosa coscienza di chiudere un tragico capitolo di sofferenze e di superare il dramma di una sconfitta e dell’esodo di migliaia di profughi istriani”[202]; anche perché ignorare i sentimenti e i dolori significa lasciarli pericolosamente “fermentare nel livore represso e lasciarli incancrenire nel risentimento non risolto”[203]. La conclusione dell’editoriale di Magris vedeva l’unica possibilità per Trieste di risollevarsi, nella capacità di italiani e sloveni di comprendere che con la loro unione e solidarietà Trieste poteva sperare in un futuro civile, invece di chiudersi in un astioso municipalismo, “coltivato dal fantasma di ieri ma amministrato dal potere di oggi”[204].


III.4. ELEZIONI AMMINISTRATIVE NEL FRIULI - VENEZIA GIULIA, L’ITALIA DI FRONTE ALLA PROTESTA TRIESTINA

 

La “questione Osimo” tornò a interessare le pagine dei giornali in occasione delle elezioni per il rinnovo dei consigli regionale e comunale che si svolsero nel giugno del 1978.

La annunciata creazione di una lista civica già all’indomani della ratifica del trattato, cui seguì l’effettiva realizzazione alla fine del 1977, concentrò nuovamente l’attenzione dell’opinione pubblica su Trieste.

Il caso della città giuliana venne ad assumere una rilevanza particolare dal momento che , sì, rispecchiava un malessere generale accomunabile a quello della maggior parte della popolazione italiana, ma, d’altra parte, aveva in sé delle caratteristiche tali da isolarlo nella sua unicità.

La protesta che Trieste attuò contro il trattato di Osimo, e che si protrasse per circa due anni, coinvolgendo almeno un terzo della cittadinanza, non ebbe eguali in quegli anni in Italia. Se infatti si registrò la nascita di altre liste autonomiste (più che civiche), in altre zone della penisola, nessuna di esse ottenne però un successo così immediato e di tali proporzioni.

A conferma della particolarità di Trieste era venuto anche il risultato del referendum, che si era svolto poche settimane prima, per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti: ben il 58% della popolazione giuliana aveva votato a favore dell’abrogazione della legge; palesando così una notevole insofferenza verso il sistema partitico tradizionale; tanto da far dare da parte della stampa a tale dato un valore sintomatico della situazione triestina[205].

Subito si cercò di individuare le cause e i responsabili di questa situazione.

Il trattato di Osimo venne giustamente additato come il principale colpevole della spinta autonomista della città, anche se venne però inteso solo come la goccia che aveva fatto traboccare il vaso della pazienza triestina.

I motivi del disagio di Trieste furono individuati in un più generale assenteismo da parte del governo centrale di Roma nei confronti della città, quindi nella chiusura di alcune importanti risorse industriali, quali: la Cantieri, la Ras, la Vetrobel, la Dreher, la Gaslini, e infine nell’incapacità del potere centrale di potenziare e sfruttare le vere risorse che da sempre avevano caratterizzato la città, vale a dire in primo luogo il porto, ormai sofferente da lungo tempo soprattutto per la concorrenza di quello di Capodistria; “[...]è un fatto che i governi italiani non hanno sostenuto la vocazione mercantile e portuale di questa città”[206].

Fu abbastanza immediato vedere nella protesta triestina e soprattutto nella sua richiesta di una zona franca integrale la nostalgia dei tempi andati, il richiamo a quel passato florido sotto l’impero asburgico, quando le era toccato il ruolo di porto dell’impero che aveva fatto nascere e rafforzare la sua vena emporiale, “oggi Trieste sembra rimpiangere che non ci sia più l’impero austro - ungarico; c’è aria di nostalgia, di ribellione.”[207]

E in questo traspare anche un’accusa, nemmeno troppo velata, all’incapacità dei triestini di risollevarsi da soli, alla loro ricerca di assistenza, al rifiuto di considerare la zona franca industriale come un’occasione di rilancio dell’economia della città[208].

Accusa mossa in primo luogo dalla stampa di sinistra, tuttora incapace di verificare la serietà della protesta, e tuttora attratta dalla possibilità di creare una forma di concreta collaborazione economica con la Iugoslavia, anche se ancora confuse appaiono le notizie in merito alla zona industriale sul Carso: L’Unità è l’unico giornale che parla di nuove installazioni di tipo tecnologico, caratterizzate quindi sia dalla capacità di richiamare solo manodopera altamente specializzata a sia dal basso tasso di inquinamento.[209]

Trieste diventa quindi agli occhi della sinistra esempio negativo di una città che rifiuta uno sviluppo industriale certo, in nome di inutili richiami a un passato che non esiste più.

Immediato è il paragone con la vicina Gorizia, e soprattutto con la capacità della piccola città friulana, dimostrata in trent’anni, di intessere rapporti positivi con la Iugoslavia; anche se aggravata, rispetto a Trieste, da una posizione geografica davvero difficile, per essere stata divisa in due dal trattato di pace: da una parte Gorizia italiana, dall’altra Nova Gorica. Di qui l’analisi della delusione di Gorizia per non essere stata scelta come battistrada di un percorso politico - economico difficile ma senza dubbio esaltante, “[...] Il senso del trattato che a Trieste ha fatto da miccia a sentimenti diversi e confusi, qui è stato colto nella sua estensione non solo economica e sociale ma pure politica e culturale. [...] La scommessa con il futuro è vissuta con lo spirito di chi all’ambizione di uscire da un isolamento provinciale accomuna il gusto per il rischio che ogni mutamento comporta, in rapporto a schemi di vita, logiche assistenziali...”[210]

III.4.1. RESPONSABILITA’ DELLA DC

 

La ribellione di Trieste divenne anche occasione per la sinistra per muovere precise accuse alla Democrazia Cristiana. Il compromesso storico iniziava a mostrare i suoi lati deboli, e soprattutto non risultava applicabile su tutto il territorio nazionale, tanto meno in una zona dove da sempre la lotta con i comunisti era stata caratterizzata da toni aspri.

La principale critica è di aver aiutato Trieste a crescere nell’ottica sbagliata di città assistita, pur di ottenere voti in più; e soprattutto di aver rifiutato un dialogo con il PCI, unica via per un deciso cambiamento della situazione, “[...] Essa ha infarcito la sua lista di curatori fallimentari dell’economia triestina e regionale, nel tentativo di una rincorsa all’elettorato conservatore,[...] ma intanto non compie la benché minima autocritica del passato. Non riconosce che a questa situazione si sia giunti grazie alle squalificate amministrazioni di centro - sinistra e centriste su cui si è retto il suo monopolio”[211].

Le accuse alla DC non arrivarono però soltanto da parte della sinistra, ma anche dal giornale di Montanelli[212]. Fatto curioso è che se il PCI la accusava di non ricercare un rapporto con la sinistra per migliorare la governabilità del Paese, Montanelli le imputava proprio il fatto di essersi troppo legata al PCI, dopo la nomina a segretario di Zaccagnini, “[...] Ma i giochi saranno determinati fatalmente dal successo o dalla sconfitta elettorale: per quanto dica il segretario provinciale [ Rinaldi] la formula romana finirà per essere applicata anche a Trieste se la DC si vedrà togliere dagli elettori anche due o tre seggi solamente.”[213]

Critica la posizione de “Il Giornale”, come anche quella de “La Stampa” verso la DC per il metodo intimidatorio utilizzato in campagna elettorale, diretto ai possibili elettori della Lista per Trieste, in riferimento soprattutto ad alcuni manifesti elettorali che riportavano il seguente messaggio: ”Basta togliere alla DC soltanto settemila voti, magari per protesta, per avere un sindaco comunista a Trieste. E’ questo che vuoi?”.

Ne emerge quindi un clima politico decisamente caldo, dove ai problemi contingenti vengono più spesso sovrapposte le tensioni tra partiti o tra coalizioni; e dove ogni occasione è buona per accusare la parte avversa.


 

Sintomatico di questa situazione è anche l’atteggiamento delle varie testate all’indomani delle elezioni.[214]

Per il PCI si trattò di una vittoria innegabile, soprattutto rispetto a tutti gli altri partiti che avevano registrato un considerevole calo. In realtà la DC aveva perso circa l’1% rispetto alle regionali del ’73, mentre più consistente era stata la perdita dei socialisti, e relativa l’affermazione dei radicali, per la gioia dei comunisti, “Modesto è il risultato dei radicali, autori nella regione di una campagna elettorale particolarmente rumorosa e dispendiosa”[215]; a onor del vero l’affermazione del partito comunista era stata tutt’altro che rilevante: il 2% in più rispetto alle regionali del ’73, mentre cocente era stata la sconfitta al comune di Trieste dove aveva perso circa il 7% rispetto alle politiche del ’76. Se l’analisi dei risultati delle regionali fosse stato fatto soltanto in relazione alla circoscrizione di Trieste, l’esito sarebbe stato ben diverso, con un notevole calo di tutti i partiti tradizionali a favore della Lista per Trieste - come avvenne per le comunali.

L’affermazione della Lista per Trieste fu quindi considerata soprattutto in funzione delle perdite degli altri partiti, primi fra tutti la DC e il PCI.

La prima reazione della stampa di fronte a questa vittoria, tutto sommato inaspettata, fu sia di sconcerto che di sfiducia; in particolare riguardo alla governabilità della città, non avendo ottenuto, la nuova formazione politica, la maggioranza assoluta, e non essendo possibile sanare la profonda divergenza tra DC e PCI, che per la prima volta si trovavano insieme all’opposizione[216].

In un secondo momento alcuni quotidiani cercarono di capire meglio la natura di questa Lista di cui si era parlato poco e sostanzialmente senza grande cognizione di causa.

La critica da sinistra fu inevitabile per quella che venne definita una scelta di tipo qualunquistico, “Dove stanno allora le possibilità di battere il qualunquismo, l’attacco anti - istituzionale, la rabbia e la sfiducia che si tenta di tradurre in scelte, in precisi orientamenti elettorali e politici?”[217], si domandava L’Unità pochi giorni prima delle elezioni. Della lista vengono criticati sia i programmi totalmente irrealizzabili, sia il metodo utilizzato in campagna elettorale, capace solo di attizzare le frustrazioni della città.

Quello che poi accomuna le varie testate è l’atteggiamento un po’ canzonatorio con cui viene descritta la componente della Lista. La presenza di persone non più giovani, se non già anziane, sembra un motivo legittimo per ironizzare su un movimento politico che invece aveva ottenuto un notevole successo alle spalle dei partiti tradizionali[218].

Continuo è poi il richiamo a quell’anima mitteleuropea che la stampa voleva ad ogni costo attribuire a Trieste[219], quasi che la presenza di due figlie d’arte nel movimento quali Aurelia Gruber Benco e Letizia Fonda Savio, suffragasse il desiderio di Trieste di ritornare ai tempi andati.

Ma per le dure leggi della carta stampata, dove una notizia ha vita breve, l’interesse dell’opinione pubblica scemò in fretta.

Eccetto qualche sporadico articolo, né la Lista per Trieste né tanto meno il problema della zona franca industriale sul Carso fecero più notizia sulla stampa nazionale.

Il risultato fu comunque che la zona franca industriale sul Carso non si fece: vuoi per l’entità della protesta triestina, e per la forza inaspettata della Lista per Trieste[220]; vuoi soprattutto per il fatto che dopo l’accordo tra la Iugoslavia e la CEE, anche gli jugoslavi persero interesse verso una tale forma di collaborazione, dal momento che uno dei principali obiettivi del governo jugoslavo, al momento della stipulazione del trattato di Osimo, era quello di riuscire a inviare proprie merci sui territori della Comunità Economica a condizioni più favorevoli di quelle allora esistenti; ottenuto lo scopo, anche se per altre vie, non esisteva più motivo di investire soldi e risorse in un progetto che, tra l’altro era stato più contestato che sostenuto, vista anche la grave situazione economica in cui si ritrovò la Iugoslavia all’inizio degli anni ’80.


 

 

 

 

 

 

CAPITOLO IV :

 

OSIMO BIS

 


La crisi della Repubblica Federativa di Iugoslavia, latente da qualche anno, scoppiò con tutta la sua forza nel 1991.

I numerosi problemi interni della Federazione, uniti alla ormai irrefrenabile caduta dei sistemi ad economia comunista in Europa, furono la miccia di una guerra civile dai disastrosi effetti.

L’impossibilità di mantenere l’unità del Paese, già palese dopo la morte del Maresciallo Tito e la sconfitta del Partito Comunista, divenne una battaglia persa in seguito alle dichiarazioni di indipendenza delle due Repubbliche più ricche, la Slovenia e la Croazia, avvenute a poche ore di distanza il 25 giugno 1991.

Se per la Slovenia la secessione dalla Iugoslavia non fu particolarmente difficile, sia per la sua posizione decentrata, sia per la sua ricchezza; altrettanto non si può dire per la Croazia, che dovette invece combattere per ottenere l’indipendenza e mantenere l’unità, e che soltanto nel 1992 poté considerare conclusa la guerra con la Serbia , ora divenuta unica erede dello Stato Iugoslavo.

La dichiarazione di indipendenza delle due Repubbliche secessioniste e la successiva accettazione da parte della comunità europea di tale dichiarazione, fece riconoscere davanti agli occhi dell’opinione pubblica e dei governi stranieri i due Paesi come eredi dell’ex Iugoslavia.

Il riconoscimento della secessione portò anche una serie di problemi sul piano dei trattati internazionali stipulati tra la ex Iugoslavia e le altre nazioni.

In questo contesto si inserisce la riattualizzazione del trattato di Osimo.

IV.1.LA SLOVENIA EREDITA IL TRATTATO DI OSIMO DALLA EX IUGOSLAVIA

 

L’accettazione ufficiale da parte del governo italiano della Slovenia, in seguito alla sua dichiarazione unilaterale, come erede nei trattati internazionali della ex Iugoslavia, riportata dalla Gazzetta Ufficiale dell’8 settembre 1992, non riuscì a passare inosservata, per quanto con notevole ritardo rispetto alla data della pubblicazione, agli occhi dell’opinione pubblica (come forse aveva sperato il governo Amato, dal momento che non vi fu nessun’altra dichiarazione pubblica).

Così alla fine del mese di ottobre divamparono le polemiche sulla stampa, sulla necessità o meno di rinegoziare il trattato di Osimo, e in caso affermativo sui termini della rinegoziazione.

Lo scontro iniziale vide due fronti schierati su posizioni opposte: da un lato chi chiedeva che il trattato fosse totalmente annullato poiché, essendo venuto meno uno dei contraenti, doveva considerarsi invalidato; dall’altro chi sosteneva che andava rivista soltanto la parte economica e quella relativa alle minoranze, ma assolutamente non si potevano rimettere in discussione i confini.

Non difficilmente si intuisce che i principali fautori di un annullamento del trattato, che, rimettesse quindi in gioco anche i confini, furono sia gli esuli istriani, che forse per la prima volta dal dopoguerra potevano accarezzare la speranza di tornare sulle terre perdute, sia la destra, capeggiata da Fini, sempre pronta a cavalcare il cavallo dell’unità della patria e dell’italianità delle terre istriane e dalmate. Ancora una volta la volontà della destra di accaparrassi il diritto, a torto o a ragione, di unico difensore del valore della patria, finì per rivelarsi controproducente, per la troppa facilità di essere accusata di fascismo e revanscismo[221].

Oltre all’umano desiderio da parte delle associazioni degli esuli di cancellare quel trattato che aveva, a suo tempo, tolto loro l’ultima speranza di un ritorno sulle terre istriane, esistevano comunque dei validi motivi sia per una protesta contro il governo italiano, sia per una rinegoziazione almeno parziale di Osimo.

Essi nascevano in primo luogo dal fatto che l’Italia non era tenuta per forza a riconoscere la Slovenia come successore della Iugoslavia nei trattati bilaterali[222], per quanto motivi di politica estera ne suggerissero la convenienza; in secondo luogo perché la creazione delle due nuove Repubbliche faceva cadere uno dei punti della tutela della minoranza italiana che si trovava ora divisa tra due nazioni[223], quindi in una posizione di maggior debolezza, visto anche il rifiuto da parte slovena a firmare un accordo a tre (Italia e Croazia) su una tutela delle minoranze basata su medesimi criteri.

La destra, come si è accennato, non perse tempo per strumentalizzare la situazione a suo favore, organizzando anche una manifestazione a Trieste con lo scopo di denunciare l’operato del governo, e, come si legge in un comunicato della direzione nazionale missina, contro “la nuova Osimo, per la revisione del confine orientale, per l’Istria italiana, per il futuro di Trieste.”[224]

La manifestazione, come promesso, si tenne l’8 novembre a Trieste, senza però provocare nessun incidente, nonostante il gesto del segretario del MSI, che, con la volontà di emulare D’Annunzio[225], gettò alcune bottiglie al largo di Punta Grossa, al confine con la Slovenia, dal messaggio volutamente provocatorio: “E’ tempo di giustizia, è finito il lungo dopoguerra dell’Europa. Un ingiusto confine separa l’Italia dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia, terre romane, venete, italiche. E’ un solo grido, un solo giuramento: ritorneremo!”[226]

Ma al di là di queste discutibili esternazioni missine, il problema della revisione di Osimo divenne di attualità, non solo in ambito locale, come paradossalmente era avvenuto ai tempi della stipulazione dell’accordo, ma anche su scala nazionale.

 

IV.1.1 LA POSIZIONE DI TRIESTE

 

A coinvolgere l’opinione pubblica fu però ancora una volta la protesta di Trieste, unitamente forse anche al maggior interesse per le faccende orientali da parte degli italiani come conseguenza della guerra nella ex Iugoslavia.

La reazione della città giuliana deve però essere analizzata sulla base delle due diverse matrici della popolazione. Da un lato vi era la popolazione istriana, ormai perfettamente integrata nella città, desiderosa di poter finalmente rivedere un trattato che le aveva tolto l’ultima possibilità di un ritorno sulle terre abbandonate; quindi in parte[227], ma non completamente[228], schierata per una revisione dei confini; e favorevole sia ad una maggiore tutela della minoranza italiana rimasta oltre confine, sia alla possibilità di ricevere indennizzi equi per i beni abbandonati, se non la restituzione degli stessi.

Dall’altro stavano i triestini veri e propri, sicuramente meno preoccupati della sorte dei confini, ma comunque contrari a un’accettazione di Osimo senza alcuna revisione, soprattutto in merito alla temuta zona franca industriale sul Carso, mai attuata ma ancora attuabile, e ad altre clausole sul traffico confinario e sul confine marittimo, che negli anni passati aveva penalizzato il già decrepito porto di Trieste.

Bisogna aggiungere che se qualcosa davvero mancò da parte delle autorità fu la necessaria chiarezza per affrontare la questione. Le dichiarazioni dei politici si smentivano in continuazione[229], creando una sempre maggiore confusione tra l’opinione pubblica. Congiuntamente al fatto che anche in questa occasione non ci fu da parte di Roma quel coinvolgimento delle popolazioni interessate che, visti i precedenti, forse sarebbe stato auspicabile.

Infatti il sindaco di Trieste, Giulio Staffieri, sulla scia e sul ricordo della protesta triestina degli anni ’70, propose di indire un referendum a favore o contro la zona franca industriale, se il governo italiano e sloveno non si fossero apertamente dichiarati contrari alla sua istituzione.

In realtà la paura triestina sulla possibile attuazione della zona franca non trovava un gran fondamento nella realtà della situazione, visto anche il tiepido interesse sloveno: fu infatti lo stesso ambasciatore sloveno in Italia, Kosin, ad affermare:” [...] se oggi Roma non è più interessata alla sua realizzazione , non sarà certo Lubiana a opporsi.”[230]. Sulla stessa posizione si trovava anche il direttore dell’Istituto di storia e documentazione sull’Europa comunitaria e l’Europa orientale, Tito Favaretto: ”E’ da ritenere [che il progetto di zona franca] verrà eliminato come ogni altro impegno non più attuale o sul quale non esista accordo o interesse tra le parti”[231].

In ogni caso, superando le numerose e varie divergenze di opinioni che dai semplici cittadini si riflettevano negli schieramenti politici, il consiglio comunale di Trieste trovò un accordo sulla dichiarazione da presentare al Governo, per sollecitarlo ad una revisione del trattato. Essa prevedeva:

1.la consultazione e il coinvolgimento delle realtà locali

2.la definizione dei problemi ancora aperti relativamente ai beni abbandonati e alla possibilità per i profughi di rientrare in possesso delle proprietà abbandonate

3.il superamento del progetto di zona franca industriale sul Carso, e in caso negativo il richiamo dei cittadini alle urne per un Referendum

4.la tutela della minoranza italiana

5.la ridelimitazione delle acque territoriali

6.la revisione degli accordi pensionistici

Come si vede il piano stilato dal Comune di Trieste, che non trovava però concordi né le sinistre né i missini, seppure con motivazioni differenti, non prevedeva alcuna modifica dei confini territoriali.

Non della stessa opinione fu l’inviato de la Repubblica, che, riportando le vicende triestine, lesse nel documento del Comune anche la volontà di rivedere i confini, e nel suo articolo, a proposito delle intenzioni della giunta, scrisse: ”[essa] chiede al governo di rinegoziare sollecitamente il trattato di Osimo con Lubiana e Zagabria, senza escludere la questione dei confini, e minaccia di chiamare il popolo alle urne, per un referendum, se da Palazzo Chigi non arriveranno risposte rassicuranti”[232]. Una certa sommarietà nel riportare alcuni fatti unitamente a un tono sottilmente provocatorio[233] bastano a chiarire l’opinione della stampa più orientata a sinistra, o perlomeno di centro - sinistra nei confronti della revisione del trattato di Osimo. Tale opposizione risulta ancora più evidente laddove la rinegoziazione di alcune clausole del trattato divenne il pretesto per una critica alle lobby italiane filo - serba, soprattutto triestina, filo - croata e filo - slovena, incapaci di impedire prima, risolvere poi la crisi jugoslava - ormai degenerata in uno scannatoio della Bosnia - in quanto attaccati solo ai propri interessi economici. La protesta di Trieste (escludendo quella legittima dei profughi, ai quali finalmente viene concesso “il diritto” di protestare), analizzata in tale ottica, diventava quindi soltanto la difesa di alcuni interessi economico - finanziari legati alla Serbia.[234]

Ad ogni modo, nonostante le continue polemiche, il governo italiano non ritornò sui propri passi nel considerare la Slovenia come il diretto successore della Iugoslavia nei trattati bilaterali con l’Italia, e nell’affermare l’impossibilità di rivedere i confini; ma garantì che una revisione parziale degli accordi di Osimo, sulla base di accordi bilaterali[235], ci sarebbe stata riguardo a: rapporti economici, tutela delle minoranze, risarcimento dei beni abbandonati.

Il ministro degli esteri Colombo precisò anche che i negoziati sarebbero iniziati nel 1993, per dar tempo alle due apposite commissioni bilaterali appena istituite di gettare le basi per una trattativa, e per permettere alla Slovenia di affrontare le sue prime elezioni di Repubblica indipendente, senza preoccupazioni sul fronte internazionale.

 

1.2. IL GIORNALE

 

L’unico giornale che prese una posizione decisa e ferma a proposito della questione di Osimo, fu il quotidiano di Montanelli. Esso infatti non solo si schierò apertamente contro un’accettazione senza riserve del trattato, ma si fece anche portavoce di alcune iniziative di notevole rilievo.

“Il Giornale” affiancò infatti Trieste nella sua protesta e la sostenne in quella raccolta di firme che aveva lo scopo di sollecitare il governo a rivedere alcuni aspetti del trattato. Per più di un mese pubblicò un riquadro prestampato da inviare alla redazione nel quale si chiedeva ai lettori se erano favorevoli ad una revisione del trattato.

La risposta dell’opinione pubblica superò certamente le più ottimistiche aspettative[236], arrivando ad una raccolta di ben 80000 firme, nel giro di trenta giorni, raggiungendo così lo scopo prefissato, vale a dire la raccolta del numero sufficiente di adesioni per presentare un disegno di legge di iniziativa popolare.

Fu soprattutto il vicedirettore Livio Caputo, a dar voce alla protesta degli antiosimanti.

Convinzione netta del futuro sottosegretario agli esteri nel governo Berlusconi, era che il governo, ancora una volta, preferisse rinunciare a qualcosa, piuttosto di mettersi in una posizione per certi versi difficile e scomoda. Egli non risparmiò di critiche il ministro degli esteri Colombo, accusandolo di non parlare in nome degli interessi nazionali, e di porre l’Italia sempre in una posizione di svantaggio, anche quando poteva essere fatto l’esatto opposto[237].

Opinione de “Il Giornale “era quindi che l’Italia non avrebbe dovuto riconoscere la Slovenia (e tanto meno la Croazia, in un secondo momento) quale erede nei trattati bilaterali, perché agendo in tal modo si era pregiudicata la possibilità di trattare con il neonato Stato da una posizione di vantaggio.

“Il Giornale” continuò anche negli anni successivi, malgrado il cambiamento alla direzione del quotidiano, a farsi portavoce dei problemi e delle questioni del confine orientale.

IV.2. SI RIAPRE LA QUESTIONE DEI BENI ABBANDONATI

 

Nonostante le associazioni degli esuli, la destra e altri e vari schieramenti di persone sostenessero che non si poteva rinunciare a chiedere una revisione dei confini, e lo stesso Caputo, in un articolo di fondo, affermasse che “in una prospettiva storica, è lecito sperare che, con i grandi mutamenti che si sono verificati e continuano a verificarsi all’est; almeno una parte dei territori perduti nel 1947 e nel 1975 possa un giorno tornare all’Italia.”[238]; appariva però chiaro che mai la Slovenia avrebbe accettato una modifica dei confini, e che tanto meno l’Italia avrebbe lottato per riavere una parte dell’Istria.

Il problema sul quale invece restava ancora qualcosa da dire, e che avrebbe presumibilmente determinato uno scontro con il piccolo Stato confinante, riguardava la questione dei beni abbandonati dai profughi alla fine della guerra, e risarciti con un indennizzo ridicolo da parte dello Stato italiano.

La questione dei beni era in realtà abbastanza complicata, in quanto da un lato esisteva un accordo con la Iugoslavia stipulato a Roma nel 1983, che stabiliva il risarcimento che la Iugoslavia avrebbe dovuto versare all’Italia, in un valore di 110.000$, debito che in realtà la ex Repubblica comunista aveva saldato soltanto in minima parte, e che la Slovenia si era assunta il compito di estinguere nel giro di qualche anno.

Dall’altro c’era il trattato di Vancouver del 1976, sottoscritto sia da Italia che da Iugoslavia, che imponeva a tutti i Paesi di favorire il ritorno dei profughi alle loro case, anche nel caso in cui l’esodo fosse stato determinato da catastrofe provocata dall’uomo.

Ciò che in pratica veniva richiesto da parte degli esuli e di chi li sosteneva, era il diritto a rientrare in possesso delle proprietà abbandonate (in virtù anche del suddetto trattato di Vancouver). Questo si sarebbe attuato con la rinuncia da parte del governo italiano del debito sloveno, in cambio delle proprietà abbandonate nella ex zona B. Andava poi considerato il fatto che l’accordo di Roma aveva sancito tale diritto a un numero limitato di persone, a dispetto della legge vigente in Iugoslavia che negava la proprietà privata agli stranieri.

Come scrisse Caputo in un suo editoriale, la questione della restituzione dei beni abbandonati e in seguito espropriati dal governo jugoslavo rappresentava sì il diritto dei legittimi proprietari di rientrare in possesso delle proprietà, ma anche un test della reale volontà di Slovenia e Croazia di rompere con il passato e avvicinarsi all’Europa[239], unitamente al fatto che tali beni andavano rivendicati non tanto per ragioni economiche, quanto “per ricostruire una presenza italiana nella ex zona B e rispettare così la convenzione di Vancouver”[240].

La posizione della Slovenia apparve subito chiara anche su questo punto: il governo sloveno non si dimostrava per nulla favorevole a raggiungere un accordo con l’Italia che prevedesse la restituzione agli esuli dei beni abbandonati.

Essa riportava a suo favore sia la legge jugoslava sulla proprietà privata ( che comunque prima o poi, volendo entrare a far parte della comunità europea, avrebbe dovuto cambiare), sia la difficoltà di restituire quello che magari non esisteva più o esisteva in forma differente[241].

Si palesavano così le enormi difficoltà diplomatiche cui si sarebbe andati incontro per il superamento di Osimo.


IV.3. DIALOGO ITALIA / SLOVENIA

 

Anche i primi contatti tra i delegati italiani e sloveni misero perfettamente in luce gli ostacoli che impedivano di affrontare e risolvere la questione, senza sollevare crisi tra i due Paesi.

Se per l’Italia ormai era diventata una questione di primaria importanza, e il governo non dimostrava di voler ritornare sui propri passi, anche per la nuova aria che si respirava nel nostro Paese in merito agli avvenimenti dei confini orientali, dimostrata sia dalle parole di Scalfaro sulla necessità di far luce sui massacri avvenuti alla fine della seconda guerra mondiale, e passati alla storia con il nome di foibe[242]; sia dalla fermezza con cui la Farnesina aveva risposto al tentativo dei governi croati e sloveni di svendere le ultime proprietà di origine italiana, per poi non doverle più restituire; per la Slovenia la questione dei beni voleva essere considerata un capitolo chiuso[243].

L’apertura verso l’Italia riguardava invece la risoluzione di quegli aspetti di Osimo che oramai non interessavano nessuno dei due contraenti, o che potevano essere affrontati senza trovarsi su posizioni opposte, vale a dire: eliminazione della ZFIC dagli accordi, nuove intese pensionistiche, e magari anche una revisione del confine marittimo, dal momento che il nuovo confine sulla Dragogna con la Croazia aveva determinato delle controversie sulle delimitazioni marittime, poiché per accedere al porto di Capodistria si era costretti a passare per le acque territoriali italiane o croate.

Quello che però viene messo in risalto da una parte della stampa è la sollecitazione al governo a non dimenticare che l’obiettivo unico e primario di questi contatti deve sempre restare la nuova Europa, e la futura politica italiana nei Balcani, senza correre quindi il rischio di sclerotizzarsi in politiche nazionalistiche. Pur nel riconoscimento della difficoltà di avere come interlocutori Croazia e Slovenia, una più rigida dell’altra sul piano negoziale, viene sottolineato come l’Italia non poteva cadere nella tentazione di cercare di recuperare oggi quello che aveva perso alla fine della seconda guerra mondiale[244].

Riconoscendo quindi la necessità di affrontare la trattativa con una buona dose di pragmatismo, non veniva però negato il fatto che le scuse slovene e croate sull’impossibilità di vendere beni immobili a stranieri erano del tutto inconsistenti, in particolare in relazione alla loro volontà di entrare a far parte della Comunità europea.

IV.4. GOVERNO BERLUSCONI E OSIMO

 

La vittoria del Polo delle Libertà alle elezioni politiche nell’aprile del 1994, oltre a rappresentare una novità nella politica del Paese, e per certi versi un’incognita, ebbe anche particolare importanza nella risoluzione del cosiddetto problema di Osimo bis (questa era stato l’appellativo attribuito alle varie trattative con la Slovenia per la revisione del trattato del 1975).

Non era ancora stato formato il nuovo governo che avrebbe visto come Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che alcune esternazioni di Mirko Tremaglia riportarono la questione di Osimo in primo piano.

Le dichiarazioni di Tremaglia si riferivano alla presunta azione del governo ancora in carica - avvicinandosi la data, prevista per il 27 aprile, in cui a Bruxelles la Commissione dell’Unione europea avrebbe definito il mandato per negoziare con la Slovenia la sua associazione all’Europa comunitaria - di facilitare l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea, senza aver ottenuto specifiche garanzie dalla controparte.

Quali che fossero state le parole del deputato missino, la polemica era divampata[245].

Da un lato questo diventava occasione per le forze di centro - sinistra di accusare la nuova compagine politica di rappresentare le forze neofasciste[246], e di non voler procedere sulla strada del dialogo, ma di fermarsi in un’ottica stagnante di particolarismi: “La nuova maggioranza - scrive Silvestri - deve imparare al più presto a muoversi nell’ottica di Bruxelles e delle grandi capitali occidentali, se non vuole condannarsi all’auto - isolamento e quindi anche all’inefficacia della sua politica estera”[247]; dall’altro veniva sia riportato in primo piano un problema che in realtà non aveva ancora trovato alcuna soluzione, sia aperto uno spiraglio (peraltro nemmeno troppo difficile da immaginare) sulla futura politica estera del governo, almeno nei rapporti bilaterali con la Slovenia.

Il nuovo governo infatti non si presentava molto rassicurante agli occhi della giovane Repubblica, soprattutto quando fu chiaro che avrebbe preposto alla concessione dell’autorizzazione per l’entrata nella UE, la risoluzione delle questioni ancora pendenti.

Le posizioni dei due Paesi non tardarono molto a emergere.

Da un lato la Slovenia, ben determinata ad entrare in Europa, e forte soprattutto dell’appoggio di un gigante come la Germania, che mal vedeva l’ostruzionismo italiano, ostacolo a sostanziosi progetti economici, e governata inoltre da politici per nulla disposti a scendere a compromessi, quali il premier Drnovsek, e il ministro degli esteri Peterle; dall’altro l’Italia, che vedeva ora Martino come ministro degli esteri, e Caputo come sottosegretario, per nulla disposta a cedere alle pressioni europee, e ferma nella volontà di concedere l’autorizzazione alla Slovenia di entrare nella UE, solo dopo aver ottenuto la possibilità per gli esuli di rientrare in possesso dei loro beni; essendo diventata questa ormai l’ultima carta da giocare per riuscire ad ottenere qualcosa.

I rapporti tra i due Stati si incrinarono ancora di più, sia quando l’Italia ottenne dalla Germania, allora Presidente di turno dell’Unione europea, un rinvio di tre mesi per arrivare ad un accordo, e il governo italiano promulgò una legge che permetteva agli italiani all’estero di riacquisire la cittadinanza italiana; sia per l’estrema durezza slovena: più volte essa ribadì secchi no alla restituzione dei beni abbandonati, e anche alla concessione di un diritto di prelazione agli esuli stessi o ai loro eredi per il riacquisto degli immobili[248].

Pesanti apparvero anche le accuse slovene nei confronti della politica estera italiana, imputata di avere due anime: una, quella rappresentata dal ministro Martino, disposta a risolvere costruttivamente le questioni aperte, ma impedita dall’impossibilità di apparire arrendevole agli occhi dell’opinione pubblica; l’altra, il sottosegretario Caputo, decisa ad una linea pesante nei confronti della Slovenia.[249]

E altrettanto risolutorie apparvero le decisioni, prese da Slovenia e Croazia di comune accordo, di considerare il trattato di Roma come valido, e soprattutto, di aprire un conto corrente in una banca del Lussemburgo, dove versare i soldi ancora dovuti all’Italia, spartiti tra i due Paesi balcanici: il 40% sarebbe stato saldato dalla Croazia, e il restante 60% dalla Slovenia.

Vie d’uscita non parevano esserci, e anzi la fermezza con la quale i due governi si affrontavano, e le bordate che si tiravano, dimostravano un’impasse dalla quale difficilmente si sarebbe usciti, nonostante il 4 ottobre, ultimo termine dato all’Italia per decidere se votare a favore o contro l’associazione della Slovenia, si stesse avvicinando.

 

4.1 ACCORDO DI AQUILEIA

 

Un’ulteriore rinvio concesso all’Italia, e un riavvicinamento non sperato da parte della Slovenia, portò finalmente i due Stati, rappresentati dai ministri degli esteri Peterle e Martino, a una bozza di accordo sulle questioni ancora pendenti.

Ricordato come Accordo di Aquileia, dalla città dove fu concordato, esso non ebbe la durata che si sperava e non fu la base per l’auspicata revisione del trattato di Osimo, in quanto fu subito bocciato dal governo sloveno, che non tardò a dichiararlo invalido.

Stilato dopo ben otto ore di estenuanti trattative, esso prevedeva: l’adeguamento della Slovenia alle leggi europee sugli immobili, la richiesta che da questo non fossero però esclusi determinati territori, quali ad esempio le zone litorali di maggior interesse turistico, l’impegno italiano a favorire l’avvicinamento della Slovenia all’Europa, l’impegno reciproco alla tutela delle rispettive minoranze, e soprattutto, lo scoglio più duro: l’impegno di Lubiana a redigere un elenco di immobili già di proprietà degli esuli e al momento di proprietà statale, sui quali porre la moratoria alla vendita fino a quando non sarebbe stata approvata la modifica costituzionale sulla proprietà straniera.

La bocciatura della dichiarazione, raggiunta con fatica da Martino e da Peterle (peraltro mai considerato un debole o un rinunciatario), decisa dal governo sloveno, e in particolar modo dal suo premier Drnovsek, riguardava chiaramente il diritto di prelazione dei cittadini italiani per l’acquisizione di beni immobili, considerato dal primo ministro inaccettabile: “In tale forma tali dettami non possono essere accettati”[250].

Nemmeno un successivo incontro, avvenuto pochi giorni dopo a Roma, nel quale l’Italia si dimostrò disposta ad accettare una specificazione dell’ambito territoriale entro il quale Lubiana s’impegnava a censire gli immobili ancora dello Stato da restituire agli esuli, portò i risultati auspicati, per il rinnovato rifiuto sloveno a mantenere la moratoria alla vendita degli immobili in questione fino a quando non fosse stata approvata dal Parlamento la modifica alla costituzione slovena relativa al regime di proprietà.

Lo scontro questa volta non si fermò soltanto sulla già spinosa questione dei beni, ma riguardò anche la tutela delle minoranze; in seguito all’esplicita richiesta italiana alla Slovenia (e al suo conseguente rifiuto), di sottoscrivere il memorandum tripartito italo - sloveno - croato sulla tutela e sull’unitarietà della minoranza italiana in Istria, al quale essa si era già opposta nei primi mesi del 1992.

Posta la questione in questi termini le trattative raggiunsero l’ennesimo blocco.

 

4.2 POLITICA INTERNA SLOVENA

 

La fermezza della Slovenia merita un’analisi particolare. Dal momento che essa non deve essere vista soltanto (benchè in larga misura) come una presa di posizione contro l’Italia, e contro il desiderio degli esuli di ritornare nelle proprie case (sebbene il nazionalismo sloveno, così come quello croato abbiano sempre avuto un ruolo predominante nella politica estera[251]); ma anche come spettro dei numerosi problemi di politica interna.

Il no di Lubiana al documento va quindi letto anche in chiave di politica interna: nella volontà cioè del premier Drnovsek di mettere in difficoltà il già dimissionario ministro degli esteri democristiano Peterle, e portare forse in tal modo i democristiani fuori dal governo[252]. Infatti nei giorni seguenti le polemiche interne slovene non si placarono, e l’uscita dal governo di Peterle unitamente alle sue dichiarazioni contro il governo di Drnovsek (ora anche ministro degli esteri): “La dichiarazione di Aquileia non era l’ideale, ma era comunque accettabile per la Slovenia, e con il quale non avremmo né dato né svenduto, né restituito nulla all’Italia nei cui confronti non siamo debitori di nulla”[253], dimostrarono un’acuta crisi politica.

La crisi interna slovena non facilitava quindi il dialogo con l’Italia, la quale non si dimostrò comunque meno ferma, ribadendo il fatto che un mancato accordo sulle questioni ancora aperte avrebbe determinato il veto italiano all’associazione della Slovenia[254].

IV.5. ASSOCIAZIONE DELLA SLOVENIA ALLA UE

 

La dimostrazione dell’influenza della politica interna slovena nella trattativa sui beni diventò palese, allorquando il Premier Drnovsek, in una situazione interna ora più calma e tranquilla, senza elezioni imminenti, si dimostrò più possibilista sulla risoluzione del contenzioso; sebbene il nuovo ministro degli esteri, Thaler, si fosse, in precedenza, sempre dimostrato molto duro e categorico sulla questione dei beni abbandonati.

I problemi di politica interna riguardavano però ora il fronte italiano, in seguito alla caduta del governo Berlusconi e alla sua sostituzione con un governo tecnico presieduto da Dini.

Non sembrò nascere a caso la nuova apertura di Lubiana: essa si presentava infatti proprio nel momento in cui in Italia cadeva il governo di centro - destra[255].

Un maggior dialogo e una maggior apertura ebbero senza dubbio l’effetto di creare un clima più tranquillo per far procedere le trattative, che ormai interessavano i due Paesi da quasi tre anni.

Nonostante le rassicurazioni fornite dal nuovo ministro degli esteri italiano, Susanna Agnelli, sul fatto che la politica del nuovo governo, in merito ai rapporti con la Slovenia, avrebbe seguito gli stessi passi del governo precedente[256]; nel giro di pochi mesi si arrivò a togliere il veto al mandato di associazione alla UE, si eliminò cioè quella che per molti era considerata l’ultima possibilità per sperare di ottenere qualcosa.

A questo epilogo il governo italiano arrivò soprattutto per le continue pressioni da parte dei membri della comunità europea che non accettavano ormai più il veto dell’Italia; davanti ad uno scontro con Bruxelles, la Farnesina preferiva cedere.[257]

Non meno influenti, se non per la nostra diplomazia, senz’altro per quella europea, le proposte di Lubiana. Essa infatti si dimostrava aperta a un dialogo a 360 gradi, solo se l’Italia avesse accettato la politica del cosiddetto “doppio binario”, ossia lo sdoppiamento del contenzioso bilaterale da quello relativo al mandato associativo all’Unione europea della Slovenia; appariva così chiaro che la dichiarazione di Aquileia fosse considerata ormai da Lubiana solo lettera morta, per quanto invece l’Italia si prodigasse a rivendicarla[258].

E così il 6 marzo l’Italia tolse l’ultimo veto al mandato associativo della Slovenia.

Cosa questo significasse si affrettò a spiegarlo il ministro degli esteri, specificando che non si trattava di una cambiale in bianco, con la quale l’Italia concedeva tutto senza chiedere nulla in cambio, ma semplicemente dell’unica via possibile affinché il dialogo potesse riprendere in un clima più favorevole per tutti, considerato soprattutto il fatto che, da quel momento in poi, la Slovenia non avrebbe dovuto rispondere delle sue azioni soltanto di fronte al nostro Paese ma davanti a tutta la Comunità europea, che diventava ora garante delle promesse di Lubiana.[259]

Ad ogni modo restava il fatto che nessun accordo, eccetto l’impegno del governo sloveno a mutare la sua costituzione per adeguarla a quelle europee in materia di beni immobili, era stato siglato tra i due Stati sulla spinosa questione dei beni abbandonati[260].

La reazione da parte dei rappresentanti degli esuli e della destra non tardarono a manifestarsi. Il parlamentare di AN Roberto Menia, in un comunicato, affermò che “non si [rilevava] un solo elemento concreto a favore della sciagurata decisione di Susanna Agnelli di togliere il veto italiano all’ingresso della Slovenia nella UE, che [appariva] ancor più una resa unilaterale senza alcuna contropartita, a tutto danno degli esuli istriani e della stessa dignità nazionale”; e il Presidente della Federazione degli esuli, Paolo Sardos Albertini, fece notare come l’unico richiamo concreto fosse quello dell’accordo di Roma dell’ 83 “invocato da sempre dalla Slovenia come motivazione della non esistenza in termini di diritto di una questione beni da restituire agli esuli italiani”[261].

Le varie e numerose rassicurazioni da parte degli ambienti governativi, incentrate soprattutto sul fatto che l’Italia avrebbe ora avuto l’appoggio della Comunità europea nella soluzione del contenzioso (ora divenuto multilaterale), e che quanto concesso non pregiudicava in alcun modo il futuro, non servirono a placare gli animi.[262]

Ancora una volta quindi, l’Italia si era trovata nella situazione di dover risolvere una questione ai confini orientali, sotto il peso e il giudizio dei suoi alleati internazionali, prima politici, ora economici.

Interessante allora quanto affermato dall’ambasciatore Sergio Romano in un’intervista concessa al quotidiano triestino: “[...] I problemi che i negoziatori italiani hanno affrontato con gli sloveni nel corso del 1994 è di quelli che esistono soltanto se appaiono importanti alla coscienza nazionale di un Paese in un momento particolare della sua storia. Forse alla maggioranza dell’opinione pubblica e della classe politica italiana il gesto simbolico che i negoziatori cercarono di strappare al governo di Lubiana dovette sembrare irrilevante e irritante. Ma sarebbe necessario ricordare al Paese che vi sono questioni della vita internazionale il cui confine tra il pratico e l’ideale è pressoché impercettibile, in cui la fermezza con cui uno Stato difende un diritto o pretende giustizia diventa un importante patrimonio di fermezza e di credibilità internazionale.”[263]

 

IV.5.1. RISOLUZIONE DEL CONTENZIOSO SUI BENI ABBANDONATI

 

La soluzione della vertenza sui beni abbandonati è stata infine trovata dalla Spagna durante il suo semestre di presidenza dell’Unione europea, che precedeva tra l’altro quella dell’Italia[264].

Noto come compromesso Solana, dal nome del suo ideatore, esso prevede soltanto il diritto di prelazione per gli esuli nell’acquisto delle proprietà, ma non la restituzione delle stesse.

Nella sostanza è stato concesso il diritto a chi era stato residente nel territorio della Slovenia per tre anni (e tale clausola includeva automaticamente tutti gli esuli), di poter acquistare beni immobili all’entrata in vigore del trattato di associazione. Questo in pratica ha significato la possibilità per i profughi di comperare case e terreni quattro anni prima degli altri cittadini comunitari.

Così dopo quattro anni di scontri, trattative, dialoghi, l’Italia ha dato il suo definitivo assenso all’associazione della Slovenia in Europa, ottenendo per gli esuli solo il diritto di precedere gli altri cittadini della comunità nell’acquisizione di proprietà immobiliari.

Le motivazioni di questa decisione sono state fornite dal sottosegretario agli esteri Fassino in un’intervista a Il Piccolo, nella quale ha spiegato come fosse ormai una scelta improrogabile, data la netta opposizione dimostrata ai ministri italiani dai loro colleghi europei: ”ormai non c’è sede europea ove i ministri italiani non fossero messi sotto accusa dai loro partner”, e come tale decisione fosse diventata tanto più urgente par l’avvicinarsi della scadenza della presidenza italiana: ”Tant’è che passata la presidenza italiana, l’Unione avrebbe in ogni caso risolto la questione, con evidente smacco e isolamento del nostro Paese in Europa. Dunque molto più conveniente e utile che la Slovenia entri in Europa grazie all’Italia, anziché contro l’Italia”[265].

Sul fatto di aver quasi completamente disatteso le aspettative dei profughi, il sottosegretario ha parlato di ulteriori trattative bilaterali da attuarsi in futuro: “E’ una questione che resta aperta e che dovrà essere risolta nel negoziato bilaterale tra Italia e Slovenia, che tuttavia non sarebbe reso certo più facile se persistesse un veto italiano”[266]; sebbene successive dichiarazioni del premier sloveno Drnovsek abbiano chiarito come Lubiana consideri ormai definitivamente chiusa la questione dei beni abbandonati: ”Riparlare ora di restituzione delle case non ha più senso e sarebbe contrario alla filosofia del Piano Solana, un compromesso che accontenta sia Roma che Lubiana”[267].

Facile immaginare le reazioni degli esuli  davanti a questo epilogo: “Un insulto” sintetizza il Presidente dell’Unione degli istriani, Paolo Sardos Albertini, “Il governo Prodi non può limitarsi ad ottenere per gli esuli il diritto di ricomprarsi ciò che è stato loro rubato!”, e ancora Ruggero Rovatti, Presidente dell’Associazione delle comunità istriane, noto peraltro per essere una voce fuori dal coro: ”La cosiddetta prelazione nell’acquisto di proprietà immobiliari non aveva mai figurato tra le richieste degli esuli, anche se potrebbe favorire qualche singola operazione di compravendita”[268].

L’associazione della Slovenia all’Europa ha così concluso la lunga trattativa per la revisione del trattato di Osimo, denominata dalla stampa Osimo bis. “E alla fine rimasero tutti scontenti” scrive un cronista de “Il Piccolo” riferendosi agli esuli. Certo è che se la piccola repubblica ha alla fine ottenuto, per suo merito e per abilità diplomatica, ciò che aveva dall’inizio auspicato, lo stesso non si può dire per i profughi istriani.

 


CONCLUSIONE

 

Da quanto emerge in questo studio si può vedere che, per quanto ignorato o comunque messo in second’ordine da parte della stampa, e per quanto ignoto alla più parte dell’opinione pubblica, il Trattato di Osimo ha continuato a far parlare di sé per oltre vent’anni, mettendo ogni volta in rilievo aspetti differenti, giudicati ora ineluttabili, come la perdita della zona B; ora negativi o positivi, a seconda dei punti di vista, come la realizzazione della zona franca sul Carso; ora iniqui, come la questione dei beni abbandonati.

Ora sembra che si sia davvero arrivati all’ultimo capitolo di una lunga vicenda che ha lasciato, come da alcuni è stato giudicato inevitabile, la gran parte dei diretti interessati, insoddisfatti; come se fosse stato loro chiesto, ancora una volta, di sopportare sulle spalle il peso della sconfitta di un’intera nazione.

Ma si sa, il dramma delle popolazioni che all’indomani della seconda guerra mondiale furono costrette a lasciare la propria terra ha interessato milioni di persone; e davanti all’esodo di tedeschi, ebrei, polacchi, quello dei 350.000 istriani è apparso poca cosa sia per l’opinione pubblica internazionale che per quella italiana.

Inoltre il costante fluire del tempo e della storia non permette più di soffermarsi su questioni che appaiono così piccole di fronte ai continui ed enormi stravolgimenti che ogni giorno vediamo compiersi sotto i nostri occhi.

In ultimo resta da fare una breve considerazione sul concetto di nazionalismo, dal momento che nell’affrontare questa problematica, più volte ci si è imbattuti nel significato e nel valore di parole quali: nazione, patria, fascismo e revanscismo; e più volte nel discutere su tali temi si corre il rischio di dover mediare giudizi e opinioni per evitare di essere tacciati di fascismo o di ultra-nazionalismo, se non di irredentismo.

La difficoltà di superare il pesante background storico che ci deriva dal fascismo, ha fatto sì che per oltre quarant’anni parlare di nazionalismo o mostrarsi nazionalisti fosse un fatto di per se stesso imputabile davanti all’opinione pubblica. Essa infatti in tutto questo periodo - eccetto una minoranza di persone di idee chiaramente di destra - lo ha sempre considerato come un fenomeno aggressivo e sopraffattorio, causa di problemi nei rapporti sociali ed umani.

E’ indubbio che il nazionalismo abbia rappresentato anche questo, ma è altrettanto chiaro che esso sia stato, o possa essere considerato, pure un diritto naturale, o perlomeno visto come tale da una certa parte dell’opinione comune.

Uscire da questi schemi di apologia o di condanna di questo fenomeno o ideologia, che dir si voglia, può forse aiutare a cogliere il vero senso di determinate idee e di conseguenti comportamenti.

Interessante sarebbe quindi analizzare il nazionalismo e il revanscismo, che più volte hanno rappresentato un luogo comune di accusa nei confronti di triestini e giuliani, per studiarne le radici storico - politico - sociali[269], e nel contempo confrontarlo con il nazionalismo di tipo balcanico, dal momento che essi sono stati costretti per tanto tempo a convivere, e di conseguenza a scontrarsi ed alimentarsi.



[1] Nel testo del Trattato si parla infatti di “indennizzo globale e forfettario, equo ed accettabile dalle due parti”.

[2] M. Udina, Gli Accordi di Osimo, ed. Lint, Trieste, 1979, pag.11.

[3] Si esclude logicamente la pubblica opinione giuliana e triestina, che si sentì tradita da una classe politica che per vent’anni aveva nascosto l’effettiva cessione della zona B; e quella di destra che trovò un terreno fertile per seminare idee revansciste, impedendo al contempo una visione obiettiva della situazione.

“Dagli istriani va condannato molto di più il Memorandum che il Trattato, perché il secondo è la logica conseguenza del primo”. D. de Castro, Osservazioni sul Trattato di Osimo nell’equilibrio politico italo - jugoslavo ed europeo, nel vol. di C. G. Strohm, Senza Tito può la Iugoslavia sopravvivere?, Trieste, 1977

[4] Gazzetta Ufficiale n°77, 21 marzo 1977

[5] Lino Sardos Albertini Gli Accordi di Osimo nella realtà e nel diritto, edito dalla Lega Nazionale di Trieste, 1976, pag.24

[6] D. de Castro, Osservazioni sul Trattato di Osimo..., op. cit.,pag.12

[7] “[...] strumento diplomatico per concludere lo svolgimento di conferenze internazionali [...], forse un po’ pretenzioso per consegnare ai posteri l’avvenuta firma di due, sia pure importanti, accordi bilaterali”, Udina, M., Gli Accordi di Osimo., pag.5

[8] v. M. Udina, Gli Accordi..., op. cit., nota n° 4, pag.23

[9] Lino Sardos Albertini, Il Trattato di Osimo. La richiesta al Capo dello Stato di negare la ratifica, Centro Nazionale di Coordinamento per la salvezza di Trieste nell’interesse della Pace, 1976

[10] Lino, Paolo, Mario Sardos Albertini, Persistenza della sovranità italiana sulla zona B nel non costituito Territorio Libero di Trieste, Ed. Unione degli Istriani, Trieste, 1969

[11]Relazione del Ministro degli esteri Rumor alla Camera, il 1° ottobre 1975, in “Relazioni internazionali”, n°40 del 4/10/1975, pag.988

Per Udina tale affermazione non è propriamente esatta dal momento che nel testo del Trattato di pace risultava che “il confine doveva passare esattamente sulla vetta del monte, venendo questa divisa quasi quale spartiacque tra i due Stati”; di conseguenza metà della vetta del monte apparteneva già allo stato italiano dal 1947.

[12] M. Udina, Gli Accordi di Osimo, op. cit., pag.25

[13] La Convenzione di Ginevra pur non ponendo regole specifiche per la delimitazione del “territorio marittimo” nei golfi appartenenti a più Stati, stabilisce che il limite massimo - fatti salvi volontà delle parti, titoli storici e circostanze speciali - consentito a ciascuno Stato corrisponde alla mediana rispetto alle linee di base a partire dalle quali si misura l’estensione del rispettivo mare territoriale. Per quanto riguarda le linee di base essa consentiva agli Stati di utilizzare, oltre al contorno delle coste considerato a bassa marea, anche le linee rette tracciate seguendo l’andamento generale del litorale fra i punti estremi.

[14] Florio, F. Problemi della frontiera marittima nel Golfo di Trieste, in Rivista di Diritto Internazionale, 1977, pag.469

[15] Dichiarazione alla Camera del Ministro degli esteri Rumor, del 1° ottobre 1975, in Relazioni internazionali, n° 40 del 4/10/1975, pag.988

[16] M. Udina, Gli Accordi di Osimo, op. cit., pag.29

[17] Ibidem

[18] F. Florio, Problemi della frontiera marittima..., op. cit., pag.480

[19] Articolo 3

“La cittadinanza delle persone che alla data del 10 giugno 1940 erano cittadini italiani ed avevano la loro residenza permanente sul territorio di cui all’articolo 21 del Trattato di Pace con l’Italia del 10 febbraio 1947, come pure la cittadinanza dei loro discendenti, nati dopo il 10 giugno 1940, è regolata rispettivamente dalla legge dell’una o dell’altra delle Parti, a seconda che la residenza delle suddette persone al momento dell’entrata in vigore del presente Trattato si trovi nel territorio dell’una o dell’altra delle Parti. Le persone che fanno parte del gruppo etnico italiano e le persone facenti parte del gruppo etnico jugoslavo alle quali si applicano le disposizioni del comma precedente avranno facoltà di trasferirsi rispettivamente nel territorio italiano e nel territorio jugoslavo, alle condizioni previste dallo scambio di lettere di cui all’Allegato VI del presente Trattato.

Per quanto riguarda le famiglie, verrà tenuto conto della volontà di ciascuno dei coniugi e, nel caso in cui questa fosse coincidente, non sarà tenuto conto dell’eventuale diversa appartenenza etnica dell’uno o dell’altro coniuge.

I figli minori seguiranno l’uno o l’altro dei loro genitori in conformità con la normativa di diritto privato applicabile in materia di separazione nel territorio dove i genitori hanno la loro residenza permanente al momento dell’entrata in vigore del presente Trattato.” Cit. in Udina, M. Gli Accordi di Osimo, op. cit., pag.87

[20] cfr. M. Udina, Gli Accordi di Osimo, op. cit., pag. 129

[21] Antonio Filippo Panzera, La circolazione delle persone nei rapporti di vicinato italo - jugoslavi, in AAVV, I rapporti di vicinato tra Italia e Iugoslavia, Giuffrè, 1984, pag.227

[22] Augusto Sinagra, Problemi di cittadinanza e di indennizzi nel trattato italo - jugoslavo di Osimo del 1975, in Rivista di Diritto Internazionale, 1977.

[23] A. Sinagra, op. cit., pag. 486

[24] A. Sinagra, op. cit., pag. 488

[25] A. Sinagra, op. cit., pag. 493

[26] A. Panzera, op. cit., pag. 234

[27] A. Sinagra, op. cit., pag. 497.

[28] Ibidem

[29] “[...] è comprensibile come le due Parti si siano preoccupate di non far risaltare con troppa evidenza, nella disciplina prevista dal Trattato per la materia, anche con impegni equivalenti e reciproci, le precedenti rispettive posizioni circa la condizione giuridica delle due zone”. M. Udina, op. cit., pag. 30.

[30] A. Panzera, op. cit., pag. 233.

[31] A. Panzera, op. cit., pag.232.

[32] Accordi Complementari del Trattato di Osimo.

[33] In proposito v. Udina, Gli Accordi di Osimo, op. cit., nota n°31 pag. 31

[34] Articolo 4

“I due Governi concluderanno, al più presto possibile, un Accordo relativo ad un indennizzo globale e forfettario, che sia equo ed accettabile dalle due Parti, dei beni, diritti ed interessi delle persone fisiche e giuridiche italiane, situati nella parte del territorio indicata all’articolo 21 del Trattato di Pace con l’Italia del 10 febbraio 1947, compresa nelle frontiere della Repubblica Socialista Federativa di Iugoslavia, che hanno fatto oggetto di misure di nazionalizzazione o di esproprio o di altri provvedimenti restrittivi da parte delle Autorità militari, civili o locali jugoslave a partire dalla data dell’ingresso delle Forze Armate Iugoslave nel suddetto territorio.

A tal fine, i due Governi inizieranno negoziati entro il termine di due mesi a partire dalla data dell’entrata in vigore del presente Trattato.

Nel corso di questi negoziati, i due Governi esamineranno con spirito favorevole la possibilità di lasciare, in un certo numero di casi, agli aventi diritto che ne faranno domanda entro un termine da stabilire, la libera disponibilità dei beni immobili sopra menzionati i quali siano già stati affidati in uso o in amministrazione ai membri vicini della famiglia del titolare o in casi simili.” Cit. in Udina, M., op. cit., pag.89

[35] La vertenza riguardante i vari obblighi reciproci di carattere economico e finanziario venne definita con l’Accordo di Belgrado del 18 dicembre 1954, e completata dall’Accordo di Roma del 3 luglio 1965.

[36] Fabio Zetto, Il problema dei beni situati nella zona B del cosiddetto Territorio di Trieste, Unione degli Istriani, Trieste, 1956, pag.7

[37] Fabio Zetto, Il problema dei beni..., op. cit., pag.16

[38] Relazione di minoranza (relatori De Marzio, Tremaglia, Covelli) alla Camera dei Deputati della Repubblica Italiana per la ratifica degli Accordi di Osimo. Rivista di Studi Politici Internazionali, ottobre - dicembre 1977

[39] Cfr. nota 38 pag.34, in M. Udina, op. cit.

[40] L. Sardos Albertini, Il problema dei beni situati nella zona B del cosiddetto territorio di Trieste, Edito dall’Unione degli Istriani

[41] Decisione della Suprema Corte di Cassazione del 18 settembre 1970, vedi cit. in Rivista di Studi Politici Internazionali, ottobre - dicembre 1977, pag.639

[42] Articolo 5

“Al fine di regolare la materia delle assicurazioni sociali e delle pensioni di vecchiaia delle persone indicate all’articolo 3 del presente Trattato, le due Parti concluderanno appena possibile un Accordo relativo alle questioni che, secondo il Protocollo Generale del 14 novembre 1957, non sono già regolate dall’Accordo stipulato fra di esse in pari data. A questo fine, i due Governi inizieranno negoziati entro un termine di due mesi a partire dalla data dell’entrata in vigore del presente Trattato.

Fino alla conclusione dell’accordo previsto al primo paragrafo di questo articolo, la salvaguardia degli interessi delle persone che attualmente godono di assicurazioni sociali o di pensioni di vecchiaia, e che rientrano nel novero di quelle indicate all’articolo 3 del presente Trattato, è assicurata dalle misure che figurano all’Allegato IX del presente Trattato.” Cit. in Udina, M., op. cit., pag.91

[43] Bevilacqua, G. La minoranza slovena a Trieste, Ed. Lint, Trieste 1984, pag.25 “Per fare [una normativa] nuova e diversa, è necessario appurarne la necessità (mentre non significa farne una nuova e diversa, se si organizza quella esistente in un testo unico ed organico)”.

[44] Appare chiara l’impossibilità di un confronto con la tutela della minoranza italiana rimasta nella zona B, data dalla mancanza di adeguate fonti e di studi in lingua italiana.

[45] Bartole, S. Tutela della minoranza linguistica slovena ed esecuzione del trattato di Osimo, in “Rivista di Diritto Internazionale”, 1977, pag.513

[46] Ibidem

[47] Bevilacqua, G. La minoranza slovena a Trieste, op. cit., pag.29

[48] Bevilacqua, G. La minoranza slovena a Trieste, “La proporzionale in Alto Adige è (all’incirca) del 29% di italiani e 71% tra tedeschi e ladini. A Trieste è del 5,7% di sloveni in città e dell’8,2% in Provincia”.

[49] Bartole, S. Tutela della minoranza linguistica slovena ed esecuzione del Trattato di Osimo, in “Rivista di Diritto Internazionale”, 1977, pag.515

[50] Udina, M. Gli Accordi di Osimo, op. cit., pag.37

[51] Articolo 6 del Trattato Politico. Cit. in Udina, M., op. cit., pag.91

[52] “Pur se sono formalmente oggetto di atti di ratifica distinti, [...] la ratifica e l’entrata in vigore dell’uno costituiscono infatti condizione per quelle dell’altro, dovendosi effettuare simultaneamente a Belgrado lo scambio delle ratifiche di entrambi.” Vd. nota 3 in, Giorgio Conetti, La cooperazione economica italo - jugoslava secondo gli Accordi di Osimo del 1975, in “Rivista di Diritto Internazionale”, 1977, pag.443

[53] Per quanto ritenuto fattibile da vari esponenti sia del Governo che della Regione Friuli - Venezia Giulia, il progetto della idrovia restò sulla carta; uguale sorte aveva avuto un analogo disegno di un collegamento idroviario Adriatico - Danubio, discusso già nel secolo scorso.

[54] Vd. pag. 6

[55] Relazione del Ministro degli esteri Rumor alla Camera, il 1° ottobre 1975, in “Relazioni internazionali”, n°40 del 4/10/1975, pag. 990

[56] Vd. Relazione di minoranza alla camera dei Deputati per la ratifica degli Accordi di Osimo, in “Rivista di studi politici internazionali”, ottobre - dicembre 1977, pag.658-662

[57] Conetti, G., La cooperazione economica italo - jugoslava secondo gli accordi di Osimo del 1975, in “Rivista di diritto internazionale”, 1977, pag.450

[58] Relazione di minoranza alla Camera dei Deputati, in “Rivista di studi politici internazionali”, ottobre - dicembre 1977, pag.648

[59] Ibidem

[60] Basta ricordare il divieto, posto dalle Autorità jugoslave nel 1977, al noto oceanografo Cousteau, di entrare nelle acque territoriali jugoslave, in seguito all’affondamento di una nave jugoslava che trasportava un carico fortemente inquinante.

[61] “Gli inquinamenti di ogni genere (urbani, industriali, radioattivi, da petrolio) sono tutti problemi da trattare riferendoli al ciclo dell’acqua, poiché tutti gli inquinamenti aerei o terrestri sono in definitiva lavati dalla pioggia e finiscono in mare”, Cousteau, in Atti convegno interparlamentare inquinamento Mediterraneo, cit. in Florio, P., Problemi della frontiera marittima nel Golfo di Trieste, in “Rivista di diritto internazionale”, 1977, pag. 480

[62] Conetti, g. La cooperazione economica italo - jugoslava secondo gli accordi di Osimo, In “Rivista di diritto internazionale”, 1977, pag.452

[63] “[si è resa necessaria] la predisposizione nell’apposito Protocollo di un assai elaborato regime convenzionale che non sempre appare in grado di risolvere, con la sua disciplina diretta o di rinvio, ogni problema”, Conetti, G. La cooperazione economica italo - jugoslava secondo gli Accordi di Osimo del 1975, in “Rivista di diritto internazionale”, 1977, pag.452

[64] “Il Giornale d’Italia”, 23 settembre 1975.

[65]: Imbarazzato silenzio, ne “Il Piccolo”, 24 settembre 1975

[66] Esse chiedevano al governo di ribadire la posizione tenuta dai vari governi negli anni che seguirono il Memorandum; vale a dire provvisorietà dell’accordo del 1954, e sovranità italiana nella zona B.

[67] Una rinuncia che umilia, ne “Il Piccolo”, 26 settembre 1975

[68] “E’ un sistema usato in tutte le previsioni politiche ed economiche integrare gli elementi di fatto (dati attuali e loro interazione) con le costanti generiche (ricerca del profitto, della massima economia, dell’agiatezza), cui nel nostro caso vanno aggiunte le costanti di natura politica (remissività italiana, volontà jugoslava di espansione all’Ovest)”, La zona franca industriale sul Carso, ne “Il Piccolo”, 24 novembre 1976.

[69] “Care Segnalazioni, l’esiguo tratto di territorio carsico della nostra provincia è nuovamente minacciato. [...] Le conseguenze per Trieste sono ovvie: il tanto conclamato polmone verde in breve sarà condannato a sparire, soffocato da colate di cemento e dagli scarichi industriali; la bora che da sempre ha il merito di rinnovare l’aria della nostra città diverrà il veicolo di spiacevoli odori. [...] Non si tratta di essere contrari a qualsiasi tipo di sviluppo industriale ma di chiedere chiarezza e non ambiguità nel proporre il futuro assetto del nostro territorio”. Lettera firmata, ne “Il Piccolo”, 13 novembre 1975.

[70]Un inganno di vent’anni, “Il Piccolo”, 29 settembre 1975.

Alessi si riferisce alla crisi dei rapporti tra Italia e Iugoslavia nel gennaio 1974, in seguito alla decisione unilaterale jugoslava di collocare nei principali punti di transito tra zona A e zona B nuove tabelle metalliche, che recavano la scritta “Repubblica Socialista Federativa di Iugoslavia - Repubblica Socialista di Slovenia”, e che portavano a considerare i punti stessi come valichi di confine. La risposta italiana alla provocazione jugoslava fu ferma e decisa nelle volontà di ribadire che tra zona A e zona B, secondo i trattati e gli accordi vigenti, non esisteva alcuna linea di confine ma soltanto una linea di demarcazione. Il 16 aprile 1974 venne infatti consegnata all’ambasciatore jugoslavo una nota del governo italiano, nella quale si ribadiva che sulla zona B non era mai cessata la sovranità italiana, e si chiedeva “[...] che da parte jugoslava non [venissero] prese iniziative unilaterali, quali, da ultimo la sostituzione delle tabelle sulla linea di demarcazione.” Il governo italiano - si concludeva - riconfermava di non voler mettere in discussione “la integrità territoriale della Repubblica Socialista Federativa di Iugoslavia” e si proponeva di “rispettare la linea di demarcazione alla stessa stregua in cui esso rispetta le frontiere di Stato”, appariva quindi “fuori luogo ogni insinuazione su pretese territoriali italiane nei confronti della Repubblica Socialista Federativa di Iugoslavia, come [era] inammissibile il linguaggio non cortese usato [nella nota verbale jugoslava]”. La nota italiana per la zona B, in “Relazioni internazionali”, n.16 del 20 aprile 1974, pag. 423.

[71] Un inganno di vent’anni, “Il Piccolo”, 29 settembre 1975.

[72] Tutti i partiti di governo d’accordo per cedere la zona B, ne “Il Piccolo”, 1 ottobre 1975.

[73] Promesse, parole, fantasie, ne “Il Piccolo”, 2 ottobre 1975

[74] Ibidem

[75] Promesse, parole, fantasie, ne “Il Piccolo” 2 ottobre 1975.

[76] Zona B: il confronto tra due voci istriane alla Camera, ne ”Il Piccolo“, 7 ottobre 1975

[77] 230 assenti al voto, ne “Il Piccolo”, 4 ottobre 1975.

[78] Il Piccolo, 8 ottobre 1975.

[79] Il Piccolo, 9 ottobre 1975.

[80] Il Piccolo, 10 ottobre 1975.

[81] “Questo accordo presenta anche degli aspetti indiscutibilmente positivi, e cioè: la ricerca di soluzioni per migliorare l’approvvigionamento di acqua e di energia elettrica, il finanziamento di studi sulla via navigabile, il riconoscimento delle esigenze di coordinare attraverso la specializzazione l’attività dei porti dell’Adriatico del Nord.

Io credo in effetti che la convenienza di joint ventures italo - jugoslave nella zona sia notevole anche per la complementarità delle capacità imprenditoriali. [...] Cosa c’è di male se il grande capitalismo avrà interesse ad impiantare nella zona le sue imprese?”, “Il Meridiano”, 30 dicembre 1976. La posizione di Anzellotti si dimostrava anche abbastanza aperta nel valutare altre soluzioni in merito all’ubicazione della ZFIC, riconoscendo non felice la scelta del Carso.

[82]Osimo fra distrazione e paura, in “Vita nuova”, 7 gennaio 1977.

[83] Nascosto ai triestini il parere di Bettiza, ne “Il Meridiano”, 19 maggio 1977.

[84] Ibidem

[85] La scelta del Carso per la zona industriale, ne “L’Unità”, 12 gennaio 1977, “Riguardo all’utilità di una zona franca industriale, ritengo assurdo il comportamento di tante persone che fino a ieri si lamentavano della decadenza economica e generale di Trieste ridotta quasi ad una città di pensionati, e che oggi gridano istericamente di non volere zone industriali e di temere l’afflusso di lavoratori da altre parti d’Italia e della vicina Iugoslavia”.

[86] Per un dibattito sugli Accordi di Osimo, ne “L’Unità”, 2 gennaio 1977.

[87] Ibidem

[88] Sì della regione all’accordo sulla zona B, ne “Il Piccolo”, 8 ottobre 1975. Dichiarazione del missino Morelli, importante quale anticipazione di uno dei punti cardine della politica del Melone.

[89] Il Piccolo, ibidem

[90] Lacerazioni nella maggioranza sulla zona B, ne “Il Piccolo”, 29 settembre 1975.

[91] Verbale della 112° seduta del Consiglio comunale dd. 8-9.IX.1975

[92] Ibidem

[93] “Il partito al quale sono iscritto è favorevole, a Roma e a Trieste, alla chiusura del contenzioso fra Italia e Iugoslavia. Consigliabile sarebbe non creare presupposti di sorta per eventuali nuovi contenziosi. Tutto ciò premesso, le mie origini, la consapevolezza dell’ingiustizia patita, la coerenza, la coscienza mi impongono di assumere un atteggiamento negativo che obbedisca al dovere di tenere conto di chi ha sofferto. [...] La mia posizione risponde anche ad un problema di coscienza, che non tiene conto di squallide speculazioni o di meschini strumentalizzazioni”, Gianni Giuricin, Trieste, luci ed ombre, Ed. Gruppo Lista Civica, Trieste, 1987, pag.40

[94] Gargano si dimette da consigliere, ne “Il Piccolo”, 24 ottobre 1975.

[95] Sauli, “Considerato anche in ogni caso che il parere del Consiglio comunale è irrilevante ai fini della definizione dell’accordo, si ritiene opportuno assumere un atteggiamento che esprima i dubbi, le perplessità e la sostanziale contrarietà all’azione del governo”, Giuricin, Trieste, luci ed ombre, op. cit. pag. 39

[96] Si del comune alla mozione favorevole per l’accordo, ne “Il Piccolo”, 10 ottobre 1975.

[97] Il Piccolo, “Riunione della direzione provinciale della DC”, 11.X.1975

[98] Il Piccolo, 12.X.1975

[99] Ibidem

[100] Il Piccolo, “[...] ciò che contava era di evitare una clamorosa caduta della giunta [comunale] a causa dei dissensi sugli accordi italo - jugoslavi”, 20.X.1975

[101] Il Piccolo, “Comunicato della segreteria della CdL UIL”, 18.XI.1975

[102] Il Piccolo, “Nessuna politica di interventi attivi per nessuna zona franca. E’ già un fatto eccezionale che essa sia stata approvata dalla CEE quale contributo comunitario allo Stato italiano affinché risolva questo tipo di problemi”; “Neanche da Ortoli chiarimenti sulla ZFIC”, 23.XI.1975.

A un anno esatto di distanza si apprese che la CEE non aveva nessun interesse ad avallare la ZFIC, in quanto esisteva già un trattato di cooperazione tra la Comunità e la Iugoslavia. Dando il suo assenso era soltanto venuta incontro alle richieste di uno stato membro, pur non condividendo la ristrettezza del Trattato che limitava la cooperazione con la Iugoslavia alla sola Italia, senza comprendere gli stati comunitari.

[103] Il Piccolo, “E’ furbizia politica parlare di zona franca?”, 16.XI.1975

[104] Ibidem

[105] Il Piccolo, “Zone e punti franchi secondo la CEE”, 19.XI.1975

[106] “La segreteria provinciale del PSI fa inoltre notare come, a Trieste, la questione della zona B abbia dato modo alle forze della destra fascista di coagularsi attorno ad una ipotesi politica revanscista e superata nella coscienza della popolazione. L’intendimento che ha spinto queste forze ad una polemica esacerbata contro i partiti dell’arco costituzionale va al di là del problema specifico ed anzi si serve di esso come supporto per un discorso politico generale arretrato e teso a riproporre nella città quel clima di netta contrapposizione che è stato una delle cause del suo progressivo decadimento. Fa male vedere come anche alcuni iscritti al PSI si collochino oggettivamente a fianco di queste forze”, Il Piccolo, “Il PSI e la questione della zona B”, 30.XI.1975

[107] Il Piccolo, “Replica del gruppo Giuricin all’ufficio stampa del PSI”, 4.XII.1975

[108] Il Piccolo, Lettera firmata, 9.XII.1975

[109] Il Piccolo, Lettera firmata, 10.XII.1975

[110] Nel 1962 Vittorio Vidali, segretario del PCI triestino e deputato, in un suo discorso alla Camera, affermò: ”Noi insistiamo, concludendo, che Trieste ha bisogno di provvedimenti eccezionali nell’ambito della regione Friuli Venezia - Giulia, che rappresenta l’estremo lembo orientale del territorio compreso nel MEC; e che, per la sua attuale precaria situazione economica e anche per le ripercussioni dirette della politica del MEC, Trieste ha necessità di una effettiva autonomia. Soltanto così si potranno - tramite specifiche misure regionali - favorire i traffici. La zona franca integrale è uno di questi provvedimenti eccezionali e rappresenterebbe un importante elemento per lo sviluppo economico di tutta la regione nel suo complesso [...].”, Giuricin, Trieste, luci ed ombre, Trieste, 1988, pag.152.

[111] Il 14 marzo fu infatti pubblicato nelle Segnalazioni, un comunicato del Comitato promotore per la zona franca integrale, nel quale si richiedeva la collaborazione della cittadinanza affinché si raggiungesse, il prima possibile, il numero di 50000 firme, necessarie per la presentazione di una legge d’iniziativa popolare al Parlamento.

[112] “Si può ben dire che senza Il Piccolo, non vi sarebbe stata una Lista per Trieste”. Cecovini, Trieste ribelle, SugarCo Edizioni, 1985, Milano, pag.19

[113] “Finalmente si è detta una parola autorevole per la migliore soluzione possibile per Trieste”, Il Piccolo, 7.II.1976

[114] “Il Parlamento italiano non può votare una legge come quella della zona franca integrale, cioè della collocazione di Trieste fuori dall’area doganale italiana e comunitaria, se prima l’Italia non esce dalla Comunità Economica Europea”, dichiarazione dell’on. Belci, Il Piccolo, 5.V.1976

L’on. Belci si premurò di ribadire la sua posizione sulla zona franca, e di riaffermare quanto già sostenuto in merito all’inconciliabilità della ZFI con le disposizioni europee. “La gente può anche farsi ingannare. Ma ritengo mio dovere di coscienza dire ancora che le firme sono inutili”, Segnalazioni, Il Piccolo, 10.XI.1976

[115] “Faremo battaglia in ogni sede, a cominciare dalla conferenza dei capigruppo, per ottenere tempi più ampi di informazione e riflessione. Abbiamo già cominciato. Ci daranno, al solito, dei rompiscatole e degli estremisti.[...]”, “Nostra intervista con il leader radicale, Marco Pannella”, Il Piccolo, 11.XI.1976

[116] Solo la Commissione trasporti della Camera, attraverso la relazione dell’on. Libertini, espresse la necessità di ulteriori verifiche prima della ratifica, “Né Trieste né l’intera regione sono oggi nelle condizioni migliori per affrontare un esperimento di collaborazione e di confronto internazionale [...]. A me sembra che a queste responsabilità si debba far fronte con iniziative precise, che accertino nel merito le condizioni per eseguire le indicazioni contenute negli accenti di Osimo, esaminino le prospettive economiche e gli interventi necessari.”, “Osimo: rapporto in commissione”, Il Piccolo, 10.XI.1976

[117] “No ad una richiesta di Pannella per la pubblicizzazione del dibattito”, Il Piccolo, 16.XI.1976. La richiesta di Pannella di consentire alla stampa di assistere al dibattito parlamentare fu respinta, “E’ inconcepibile che la stampa e l’opinione pubblica non vengano messe in condizione di seguire i momenti salienti del dibattito parlamentare su un trattato internazionale che comporta gravissime decisioni per la nazione”.

[118] Il Piccolo, “dossier a sorpresa”, 14.II.1977

[119] Spadolini (PRI): “Sono sempre stato favorevole al trattato come atto di normalizzazione dei nostri rapporti con la Iugoslavia”

Bandiera(PRI): “Non mi sembra più possibile né opportuno rinviare la ratifica del trattato”

Fracanzani (DC): “Tale chiarimento deve avvenire in fase di attuazione del trattato. Sarebbe invece negativo un rinvio della ratifica”.

Cuffaro (PCI): “La ratifica del trattao serve alla causa della pace. Essa pone Trieste in una situazione diversa sia perché la libera dallo stato di incertezze, sia perché, rilanciando nella nostra area la collaborazione internazionale, le consente a pieno di svolgere il suo vero ruolo di grande città emporiale e industriale. Noi non sottovalutiamo affatto le obiezioni che sono state mosse alla parte dell’accordo [sulla zona franca industriale], oggi però non possiamo per timore dei problemi che debbono essere affrontati, rifiutare una grande possibilità di rivitalizzazione della nostra economia e trascurare gli interessi generali del Paese”

Malagodi (PLI): “Siamo sensibili all’esigenza di approfondire i problemi relativi alla nuova zona franca, poiché a un primo esame questa sembra non essere bene scelta come localizzazione e suscettibile di creare nel tempo attriti e complicazioni. Di qui la nostra richiesta di un’indagine conoscitiva che la commissione esteri ha respinto ai voti e che noi riproporremo in aula”

Mellini (PR): “Ci batteremo in aula fino all’ultimo emendamento per modificare un trattato per molti aspetti iniquo”.

Mosca (PSI): “Mi sembra che ormai non sia il caso di protrarre i tempi di approvazione del trattato di Osimo, soprattutto per le implicazioni di carattere internazionale che verrebbero a determinarsi.”

Labriola (PSI): “La questione del trattato di Osimo va chiusa al più presto, le questioni sollevate sono giuste con riferimento ai problemi economici e sociali delle zone interessate, ma devono essere risolte in modo autonomo con appropriate politiche del governo italiano”.

[120] Il Piccolo, “Alla Camera 178 assenti per il SI’ al trattato”, 18.XII.1976

[121] Il Piccolo, “Un no per la storia”, 18.XII.1976

[122] Il Piccolo, “E c’è la realtà di una popolazione cosciente e civilmente preparata che ogni giorno si esprime con maturità sul proprio destino. C’è infine questo traguardo della zona franca integrale per il quale continueremo a batterci anche come primo argomento di coesione morale e materiale. [...] Perché se anche la Camera dei Deputati ha detto sì a Osimo, il popolo ha detto no. La spaccatura che si è prodotta fra noi e loro non era voluta dalle genti di queste terre: vent’anni di ingiustizie e di delusioni sofferte ne sono la prova”, “Un no per la storia”, 18.XII.1976

[123] Il Piccolo, “A Palazzo Madama su Osimo il primo proficuo confronto”, 3.II.1977

[124] Il Piccolo, “Un pacchetto di promesse per smorzare la protesta”, 25.II.1977

[125] “Quando la reazione a catena, provocata dalle firme, abbia davvero investito l’intera struttura ammalata della città, scaturirà dai cittadini quella forza politica innovatrice alla quale Trieste possa affidare la sua rinata autonomia mercantile in un’Europa equilibrata e forse congiunta positivamente a un’Italia finalmente europea”, “Osimo; asfissia economica della città”, Il Piccolo, 30.XII.1976

[126] “E’ una responsabilità che compete a coloro che hanno concretato il movimento; ed è una responsabilità che non consente errori”, Il Piccolo “Nell’unità la salvezza”, 23.III.1977

[127] “Trieste deve unirsi compatta in questa lista ed è compito di ogni cittadino il diffondere tra tutte le categorie di persone il programma della lista civica. E’ giunto il momento di dire NO e BASTA ai partiti che si sono battuti con rara spavalderia e rapidità per la ratifica del trattato di Osimo”, Il Piccolo, 28.III.1977

 

[128] Anche come direttore di Telequattro Alessi continuò a sostenere la lista civica come aveva fatto in precedenza, creando addirittura una rubrica continuativa, quale “Il sindaco risponde”, a sostanziale beneficio del sindaco Cecovini.

[129] “Vorremmo che le proposte, senza alcuna preclusione etnica o sociale, riguardassero cittadini possibilmente non vincolati a partiti politici, e che nel loro lavoro abbiano riscosso fiducia e stima nell’ambiente in cui sono conosciuti. I “dieci” si assumeranno la responsabilità della scelta definitiva fra i candidati segnalati, affinché la lista comunale risponda al migliore e più organico quadro della città”, Il Piccolo, “Un invito dei dieci a proporre candidati”, 17.IV.1977

[130] Questo il nome popolare della Lista, ricavato dal simbolo.

[131] Il comune e la provincia promisero un’ampia verifica delle prospettive aperte da Osimo da compiersi nel corso di una conferenza economica; il PCI affermò, durante il suo congresso, che gli accordi economici erano sì una buona carta ma da giocare con senso di responsabilità; il PSI locale stilò un documento nel quale insisteva sulla necessità di determinate garanzie in fase di attuazione degli accordi; il PSDI chiese il rinvio alla commissione tecnica paritetica della scelta di una dislocazione della ZFIC diversa da quella prevista dal trattato.

[132] Tale scelta è stata dettata non dalla volontà di discriminare talune pubblicazioni, ma dalla consapevolezza che soltanto uno studio approfondito di tutta la stampa esule, avrebbe potuto fornire un quadro completo ed obiettivo della reazione dei profughi  di fronte al Trattato di Osimo. Non essendo stato possibile recuperare parte del materiale in questione, e avendo affrontato l’argomento da diverse prospettive, che includono, ma non si fermano alle opinioni dei profughi giuliani, si è ritenuto corretto limitare l’analisi ai due giornali sopra citati. E’ comunque doveroso almeno citare le altre pubblicazioni degli esuli, tra esse troviamo: L’Arena di Pola - L’Esule - La Voce Giuliana - La Voce della Famia Ruvignisa.

[133] In “Unione degli Istriani”, 30 settembre 1975

[134] In “Difesa Adriatica”, 9 ottobre 1975

[135] “L’infamia del diktat si è rinnovata e aggravata: la zona B, un territorio italiano di pieno diritto per storia, lingua, tradizioni, per disperata volontà dei suoi figli, è stata condannata al servaggio straniero”, in La resa in zona B: Peggio del diktat, in “Difesa Adriatica”, 9 ottobre 1975.

[136] In Umiliante e disastrosa, in “Unione degli istriani”, 30 settembre 1975

[137] In La zona B regalata alla Iugoslavia, in “Difesa Adriatica”, 2 marzo 1976

[138] “ La rinuncia è stata infatti stabilita senza che vi fosse alcuno stato di necessità [...], e riguarda un territorio che neanche i quattro grandi nel ’47 osarono assegnare alla Iugoslavia. Ma il nostro dolore, la nostra amarezza non hanno solo una motivazione di carattere morale, non toccano solo la sfera affettiva; la nostra condanna coinvolge più duramente i modi, i tempi, gli obiettivi, la sostanza dell’operazione che si cerca di portare a compimento con una fretta che è - da sola - dimostrazione di cattiva coscienza.”, in La resa in zona B: peggio del diktat, in “Difesa Adriatica”, 9 ottobre 1975

[139] in Creare in Italia ed all’estero un movimento di opinione pubblica, in “Unione degli Istriani”, 30 settembre 1975

[140] In L’Italia ha ceduto la zona B?, in “Difesa Adriatica”, settembre 1975

[141] In Osimo: inganni, equivoci, malintesi, in “Difesa Adriatica”, 5 febbraio 1975

[142] In Cosa si può fare prima del dibattito, in “Difesa Adriatica”, 24 aprile 1976

[143] “Nulla di preciso è stato chiesto per la minoranza italiana in armonia con il particolare trattamento di cui gode la minoranza slovena in Italia”, in Il Parlamento di fronte alla verifica, in “Difesa Adriatica”, 5 aprile 1976

[144] “[...] dopo tale esperienza [ si riferisce ai casi di mancata concessione della cittadinanza italiana da parte delle autorità jugoslave, nell’immediato dopoguerra] sarebbe stato doveroso attribuire esclusivamente alle autorità italiane il diritto di concedere o di negare la cittadinanza italiana”, in Non si ratifichi l’accordo, in “Difesa Adriatica”, 14 febbraio 1976

[145] “Non si è voluto tenere conto della lunga ed amara esperienza già fatta, non sono stati interpellati i funzionari né del Ministero del tesoro né degli esteri che già da 25 anni fanno parte della Commissione preposta alla concessione degli indennizzi”, in “Difesa Adriatica”, 16 dicembre 1976

[146] “[...] la suddetta situazione creerebbe le manifeste premesse per un soffocamento della città in maniera irreparabile, tale da provocare in un avvenire, anche non lontano, la capitolazione della stessa, se un futuro governo jugoslavo se lo proponesse”, in Ad ogni parlamentare un dossier sulla zona B, in “Unione degli Istriani”, settembre 1975

[147] In Cresce l’opposizione alla ratifica, in “Difesa Adriatica”, 17 novembre 1976

[148] In La forza della verità, in “Difesa Adriatica”, 17 novembre 1976

[149] “Oggi la soluzione appare non solo matura ma inevitabile, [...] se le frontiere sono intangibili ne deriva come corollario che esse vanno riconosciute anche formalmente. Non c’è altra via d’uscita”, in Perché si è atteso tanto a decidere la sorte della zona B, di Gaetano Sardocchia, nel “Corriere della Sera”, 25 settembre 1975.

[150] “Non desidero in un momento come questo fare polemiche di nessun genere. Ma basterà accennare alle responsabilità di chi, in una visione sbagliata degli interessi nazionali e della situazione internazionale, scatenò una guerra, della quale paghiamo, con coraggio, le ultime conseguenze”, in L’accordo confinario italo - jugoslavo. Il discorso di Moro alle Camere, in “Relazioni Internazionali”, n°41 del 11 ottobre 1975.

[151] Comunisti e zona B, di Giorgio Fattori, in “Panorama”, 16 ottobre 1975.

[152] “La Germania federale, nel frattempo ha rinunciato a territori immensi, dai quali erano fuggiti oltre dieci milioni di profughi, mentre l’Italia si porta dietro una piccola questione irrisolta che appare marginale nel panorama delle nuove realtà territoriali europee, anche se è traumatica per chi l’ha sofferta sulla propria pelle”. Prossima la firma del protocollo sul passaggio della zona B alla Iugoslavia, di Gaetano Sardocchia, ne “Il Corriere della Sera”, 24 settembre 1975.

[153] Il PCI favorevole all’accordo italo - jugoslavo per i confini, ne “L’Unità”, 3 ottobre 1975.

[154] Ibidem

[155] “Quando il 1° maggio le unità del IX Corpus partigiano raggiunsero la città, disarmarono tutti i patrioti del CLN ovunque si trovassero. Essi non fecero resistenza, perché non intendevano opporsi a coloro che giudicavano alleati. [...] A mio modo di vedere, con i quaranta giorni di occupazione, caratterizzati da una vera e propria persecuzione contro gli italiani locali (e talvolta anche antifascisti: fu arrestato, infatti, lo stesso CLN italiano), [Tito si precluse la possibilità di annettere Trieste].” in Diego de Castro La questione di Trieste, l’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Ed. Lint, Trieste, 1981, pag. 210.

[156] Moro illustra l’accordo per Trieste e la zona B, di Aldo Rizzo, ne “La Stampa”, 2 ottobre 1975.

[157] Elogio (slavo) della viltà, ne “Il Secolo d’Italia”, 28 settembre 1975.

[158] Alto tradimento con applauso comunista, ne “Il Secolo d’Italia”, 2 ottobre 1975.

[159] “Sembra assurdo doverlo ricordare ancora, dopo trent’anni. Ma checché ne dicano gli agiografi della Resistenza, la guerra l’abbiamo persa, e c’è un conto da pagare. Che l’Italia lo saldi a spese dei suoi figli migliori - istriani e dalmati - è un ghigno del destino. Ma in complesso può considerarsi miracolata. Quando si pensa a cosa ha pagato la sua sconfitta la Germania, amputata d’intere province e dimezzata in due nazioni diverse e ostili”, Siamo tutti istriani, di Indro Montanelli, ne “Il Giornale nuovo”, 30 settembre 1975.

[160] “L’Istria è per loro la terra dei padri - un’espressione che solo ai bastardi può suonare retorica - di cui per secoli hanno sofferto l’italianità pagandola a caro prezzo. [...] C’è in questo rifiuto della realtà, qualcosa che c’induce al più profondo rispetto. Italiani al rovescio gli istriani non hanno mai fatto del vittimismo. Incapaci di rassegnarsi, hanno portato la loro tragedia con silenziosa dignità. Nulla fu fatto per i loro esuli - che nulla chiesero - non solo da una classe politica vergognosamente sorda al loro dramma umano, ma neppure da una pubblica opinione che alla coscienza della solidarietà nazionale si risveglia solo per la squadra di calcio”. Ibidem

Non tutti però apprezzarono le parole di Montanelli, prova ne è la lettera inviata alla redazione de Il Secolo d’Italia, nella quale si legge: “Si risparmino almeno a questa povera gente le parole di compassione e l’elemosina di encomi non richiesti.” In Tutti esuli? Di Giorgio Gozzi, lettera pubblicata il 15 ottobre 1975.

[161] Realismo, di Aldo Rizzo, ne “La Stampa”, 2 ottobre 1975.

[162] Intesa firmata per la zona B, di Dino Frescobaldi, nel “Corriere della Sera”, 11 novembre 1975.

[163] Ibidem

[164] Il PCI favorevole all’accordo italo - jugoslavo sui confini, ne “L’Unità”, 3 ottobre 1975

[165] “Non è mancato in questi anni in Italia, chi ha sostenuto che avremmo dovuto attendere il dopo - Tito per prendere parte anche noi alla divisione della torta. E questo è delirio, follia.”, in Realismo, di Aldo Rizzo, ne “La Stampa”, 2 ottobre 1975. C’è in questa affermazione una chiara allusione alla posizione delle organizzazioni degli esuli, le quali erano a favore di un mantenimento dello status quo in previsione appunto di una possibile ridefinizione dei confini orientali.

[166] “[...] Ciò comporta il rischio che in una Iugoslavia non più controllata dal Maresciallo Tito e assorbita nell’orbita del patto di Varsavia, la flotta russa si sistemi a ridosso di Trieste e delle basi Nato in Friuli e nel Veneto. Cosa, questa, più difficile in una zona solo amministrativamente affidata a Belgrado”, in Sarebbe imminente la cessione della zona B alla Iugoslavia, ne “Il Giornale”, 24 settembre 1975.

[167] “[...] Al dolore di questa povera gente non possiamo portare lenimento. Anzi, dobbiamo chiederle un estremo sacrificio, forse il più grosso e penoso: la rinuncia all’ultima speranza. Il trattato che sta per essere discusso e approvato dal Parlamento non è giusto, ma è necessario. Tale lo rende la ragion di Stato, che purtroppo non tiene conto di quella degli uomini"” in Siamo tutti istriani, ne "l Giornale", 30 settembre 1975.

[168] “Ma si dice che, di fronte alla storia, uno stato non debba rinunciare mai alla sovranità sopra un lembo di territorio nazionale, almeno fino a quando non glielo toglie la forza del diritto o il diritto della forza”, in L’onore d’Italia, ne “Il Secolo d’Italia”, 1 ottobre 1975.

“Il vincolo del popolo con l’elemento territoriale è tanto forte che le Costituzioni prescrivono il voto popolare per tutte le mutazioni di confine; la Costituzione francese recita:” Nessuna cessione, scambio o aggregazione di territorio è valida senza il consenso delle popolazioni interessate e perciò si richiede il voto diretto delle popolazioni stesse mediante plebisciti o referendum”. Pare infatti cosa fin troppa ovvia che, in un regime democratico, ogni attività politica che tocchi il destino di territori e popolazioni, debba svolgersi pubblicamente, e non nel segreto delle cancellerie e dei conciliaboli”, in Alle spalle degli italiani, di Nencioni, ne “Il Secolo d’Italia”, 2 ottobre 1975.

[169] “nel ’57, quando il senatore comunista Terracini trepidava per le sorti degli istriani, il Maresciallo Tito era un traditore, uno scismatico agli occhi di Mosca e dunque anche per coloro che ne seguivano riti e liturgie; oggi no, dello scisma titoista non si parla più, il processo di distensione a senso unico (quello gradito ai comunisti) deve essere portato avanti, così come vuole il compagno Breznev”, in Il voltafaccia del PCI, ne “Il Secolo d’Italia”, 26 settembre 1975.

[170] Il compromesso passa per Belgrado, ne “Il Secolo d’Italia”, 27 settembre 1975.

[171] Zona B: la Caporetto del compromesso storico, ne “Il Secolo d’Italia”, 5 ottobre 1975.

[172] “Alla luce di questi elementi, gli scandalizzati sospetti su un patto segreto tra Moro e il PCI si ridimensionano”, in Comunisti e zona B, di Giorgio Fattori, in “Panorama”, 16 ottobre 1975.

[173] Erano gli anni di Berlinguer e del compromesso storico, per la prima volta dall’immediato dopoguerra il PCI e la DC cercavano un contatto, soprattutto dopo le due importanti vittorie del PCI nelle elezioni del ’75 e del’76 e le conseguenti sconfitte della DC. Il Paese era retto da un fragile monocolore democristiano sotto la tutela di Moro.

[174] “Il ministro degli esteri Rumor ha negato quasi con indignazione che l’accordo con la Iugoslavia sia stato suggerito al governo da calcoli di politica interna, in particolare dalla volontà di accontentare i comunisti. La sua smentita sarebbe stata più credibile se il governo avesse potuto chiudere il dibattito con una votazione di fiducia. [...] Molti parlamentari sentono ormai la politica italiana come una partita che non li riguarda. I 230 assenti [...] sono in gran parte contrari forse ad un governo ogni giorno più debole, sorretto più dall’opposizione comunista che dal consenso convinto di quella che era una volta la sua maggioranza”, in Una manovra ambigua, ne “Il Giornale”, 4 ottobre 1975.

[175] Anche Moro tra gli assenti, ne “Il Giornale”, 5 ottobre 1975.

[176] La Camera favorevole a definire il trattato con la Iugoslavia, ne “L’Unità”, 4 ottobre 1975

[177] Intesa firmata per la zona B, di Dino Frescobaldi, nel “Corriere della Sera”, 11 novembre 1975.

[178] Zona franca: un’occasione per Trieste, di Pietro Radius, ne “Il Giornale”, 4 ottobre 1975.

[179] “Al posto delle manifestazioni tricolori in questi giorni vi sono state riunioni di ecologi che non vogliono la zona franca prevista da Osimo”, in Un triestino su quattro ha sottoscritto il dissenso al trattato italo - jugoslavo, di Gianluigi da Rold, nel “Corriere della Sera”, 22 novembre 1976.

[180] “Anche i profughi istriani espongono il loro rammarico con giudizi realistici. Riaffermano la propria netta e totale opposizione al trattato di Osimo, anzitutto per la rinuncia della sovranità italiana sull’Istria nord - occidentale, ma in pratica hanno sottoscritto silenziosamente per la zona franca integrale”, in Un triestino su quattro ha sottoscritto il dissenso al trattato italo - jugoslavo, nel “Corriere della Sera”, 22 novembre 1976.

[181] Non facciamo del Carso un altro porto Marghera, di Alfredo Todisco, nel “Corriere della Sera”, 6 dicembre 1976.

[182] Ibidem.

[183] Un ruolo attivo per Trieste, di Mario Passi, ne “L’Unità”, 19 novembre 1976.

[184] “Perché dunque non ci si dovrebbe cimentare nella creazione di una vasta zona franca che risulti, come quella che gli accordi prevedono, dall’impegno comune di due complesse e vaste economie nazionali, di due Paesi e governi decisi a fare di questo comune impegno di cooperazione industriale e tecnica la pietra di paragone di tutto il sistema delle relazioni est - ovest e della distensione in Europa?”, in Passo avanti della cooperazione europea, di Umberto Cardia, ne “L’Unità”, 10 dicembre 1976.

[185] Trieste provincia franca, ne “Il Giornale”, 17 dicembre 1976.

[186] “chi diceva che si sarebbe provocato un distacco dall’Italia, chi aggiungeva che avrebbero finito per prevalere gli anti - italiani.” In Trieste è sconvolta dall’ondata di revanscismo, di Giuliano Marchesini, ne “La Stampa”, 18 novembre 1976.

[187] Dal trattato una pagina nuova nei rapporti con la Iugoslavia, ne “L’Unità”, 9 dicembre 1976.

[188] Gianni Giuricin, Trieste , luci ed ombre, Trieste, 1988.

[189] “La città di Trieste, nella quale si sono riaccese nelle ultime settimane le spinte irrazionali del nazionalismo conservatore e fascistizzante e di un certo indipendentismo isolazionista e anti - italiano (il tutto condito dal prezzemolo radicale di Pannella, pronto a cavalcare tutte le possibili tigri di carta propagandistiche”, in Un ruolo attivo per Trieste, di Mario Passi, ne “L’Unità”, 19 novembre 1976.

[190] Il trattato di Osimo, di Franco Calamandrei, ne “L’Unità”, 25 febbraio 1977.

[191] “La protesta dei triestini occorre precisarlo, non sarà una rivolta di nazionalisti e di fascisti: trent’anni non sono passati invano, molte esasperate passioni del dopoguerra si sono spente. [...] Le firme dei nostalgici s’alternano a quelle di scrittori d’avanguardia, le resistenze nazionalistiche si confondono con la demagogia dei pannelliani, le inquietudini degli ecologi si mischiano con i calcoli degli economisti”, in Trieste bel suol d’amore, di Carlo Casalegno, ne “La Stampa”, 24 novembre 1976.

[192] Osimo: cosa ha suscitato la nostra opposizione, ne “Il Secolo d’Italia”, 26 novembre 1976.

[193] “Concediamo che, in un domani non immediato, per insormontabili ostacoli ecologici, si debbano introdurre mutamenti nei progetti che gli accordi odierni, dopo anni di dibattiti e di elaborazioni, hanno delineato e che si debba perfino, d’accordo tra i due Paesi, abbandonare l’idea della zona industriale mista...”, in Passo avanti della cooperazione europea, di Umberto Cardia, ne “L’Unità”, 10 dicembre 1976.

[194] Un trattato per l’Europa, di Dino Frescobaldi, nel “Corriere della Sera”, 26 febbraio 1977.

[195] Perché Osimo serve all’Europa, di Barbara Spinelli, ne “La Repubblica”, 24 novembre 1976.

[196] Il trattato di Osimo, di Franco Calamandrei, ne “L’Unità”, 25 febbraio 1976.

[197] In un’intervista al “Corriere della Sera”, Berlinguer affermò infatti che se i comunisti avessero vinto le elezioni non avrebbero spinto l’Italia fuori dalla Nato. In Berlinguer conta anche sulla Nato per mantenere l’autonomia da Mosca, di G: P. Pansa, nel “Corriere della Sera”, 15 giugno 1976.

[198] Il trattato di Osimo, di Franco Calamandrei, ne “L’Unità”, 25 febbraio 1977.

[199] Scontro su Osimo tra radicali e PCI, di Carlo Rivolta, ne “La Repubblica”, 18 novembre 1976.

[200] I malumori di Trieste dopo i patti di Osimo, di Claudio Magris, nel “Corriere della Sera”, 8 aprile 1977.

[201] Ibidem

[202] Ibidem

[203] Ibidem

[204] Ibidem

[205] “[...] Uno dei responsi più pesanti venuto dall’11 giugno, la riprova degli umori neri di Trieste, la spia di come potrebbero andare le elezioni comunali e regionali di domenica 25.”, in La sorpresa verrà da Trieste, di Sandro Viola, in “La Repubblica”, 17 giugno 1978.

“Trieste è fra le grandi città del Nord che ha detto sì all’abolizione del finanziamento statale ai partiti; e il solo voto del referendum suona ulteriore allarme oggi per chi teme un successo della lista civica...”, in L’accordo di Osimo divide Trieste, di Sandro Doglio, in “La Stampa”, 20 giugno 1978.

[206] A Trieste c’è un candidato in più: la delusione, di Alfredo Todisco, nel “Corriere della Sera”, 20 giugno 1978.

[207] Ibidem

[208] “[...]Sessant’anni dopo il suo crollo il mito triestini resiste ed è pervicace. Il Grande Emporio, la mitteleuropa, la città di Svevo e Saba non quello che dovrebbero essere, cioè ricordi affascinanti, ma argomenti del dibattito politico quasi si trattasse di situazioni ripristinabili.”, in La sorpresa verrà da Trieste, di Sandro Viola, ne “la Repubblica”, 17 giugno 1978.

[209] Conferme di questo tipo non si ritrovano però sugli altri giornali.

[210] La voglia di contare di Trieste e Gorizia, di Orazio Pizzigoni, ne “l’Unità”, 22 giugno 1978.

[211] Dietro la campagna moderata a Trieste, di Mario Passi, ne “L’Unità”, 18 giugno 1978.

[212] “I punti dolenti che si avvertono nella campagna elettorale sono due: acuto quello di carattere locale, vale a dire il trattato di Osimo, cronico quello più vasto e nazionale, e cioè il rapporto che la Democrazia Cristiana con il Partito comunista.”, di Pietro Radius, ne “Il Giornale”, 18 giugno 1978.

[213] Le due anime della Dc triestina in contrasto sui rapporti col PCI, di Pietro Radius, ne “Il Giornale”, 21 giugno 1978. “Qui a Trieste i democristiani sono riusciti a far passare per anticomunismo quella che è stata invece una vera alleanza: lo chiamavano accordo tecnico sulle cose, ma sull’ordinaria amministrazione non si faceva nulla che non piacesse ai comunisti”, Ibidem.

[214] Per i risultati delle elezioni amministrative nel Friuli - Venezia Giulia cfr. tabella riportata qui sotto.

Liste

Regionali ’78

voti                %

Regionali ’73

voti                %

Comunali ’78

voti                  %

DC

257.450       38,5

315.198          39,7

49.788            25,9

PCI

146.605       22,4

166.018          20,9

35.668            18,6

PSI

60.032         9,0

97.259           12,2

7.424              3,9

PSDI

32.007         4.8

64.259            8,2

3.918              2,0

PRI

15.780         2.4

21.306            2,7

4.156              2,2

PLI

8.215           1.6

28.883            3,6

2.118              1,1

MSI - DN

28.863         4.6

59.585            7.5

13.451             7,0

DN CD

4.445            0.7

    --                 --

1.911               1,0

UN. SLOVENA

8.875            1.3

10.185            1,3

3.941               2,0

MOV. FRIULI

26.165          3.9

23.648            3,0

    --                   --

M.L.TLT

3.899            0.6

4.864              0,6

2.899               1,5

PR

3.085            0.5

    --                  --

11.540             6,0

DP

8.700            1.3

    --                  --

1.170               0,6

PDUP

8.240            1.2

    --                  --

1.537               0,8

L.p.T.

52.932          7.9

    --                  --

52.762            27,4

 

[215] L’affermazione del PCI nel Friuli - Venezia Giulia, ne “L’Unità”, 27 giugno 1978.

[216] Infatti poi la Lista per Trieste scelse di attuare un monocolore, per l’impossibilità di unire le diverse forze.

[217] Dietro la campagna moderata a Trieste, di Mario Passi, ne “L’Unità”, 18 giugno 1978.

[218] “un ex deputato democristiano forte d’una sua clientela personale, un ex vicesindaco socialista, due vecchie signore tra i settanta e gli ottanta che sventolano il vessillo della Trieste d’un tempo, qualche neo - ecologo, un massone”, in Un altro voto di protesta, di Sandro Viola, ne “La Repubblica”, 27 giugno 1978.

[219] “[...] Ma è troppo facile e pretestuoso fare leva su questo unico aspetto del carattere triestino, per ricondurre tutto il malumore dei triestini ad una anacronistica nostalgia di un trascorso mito asburgico”, lettera firmata, ne “La Repubblica”, 24 giugno 1978.

[220] “Altra conseguenza del trattato di Osimo che io non ho mai ritenuto positiva perché peggiora i rapporti tra noi e Roma, fu la creazione della Lista per Trieste. Non si può non riconoscerle però il merito di aver fermato l’attuazione della zona franca quando ancora la Iugoslavia la desiderava e in Italia si facevano discorsi trionfalistici sul trattato stesso che di trionfale non aveva proprio nulla”, in Osimo, dieci anni dopo, intervista a Diego de Castro, ne “Il Meridiano”, 7 novembre 1985.

[221] “Ci siamo fatti piccoli piccoli, col risultato di lasciare alle destre il concetto di patria, di aggravare il nostro tradizionale, spagnolesco deficit del senso dello Stato, e di rendere falsamente antitetici nazione e democrazia. Fattori questi che a Trieste, dopo la quarantennale amnesia di Stato sulla questione istriana, sono più percepibili che mai” di P. Rumiz, in Confini, non solo linee di forza nel rimescolamento dei blocchi, ne “Il Piccolo”, 29 ottobre 1994.

[222] “[...] nel nostro caso il governo italiano non era strettamente tenuto a prendere atto della dichiarazione unilaterale della Slovenia, anche se questa altro non è che la via più semplice da seguire in questi casi”, intervista a Giorgio Conetti, docente di diritto internazionale all’Università di Trieste, ne “Il Piccolo”, 27 ottobre 1992.

[223] “Alla minoranza italiana è venuta a mancare una protezione giuridica adeguata e un’unità organizzativa e territoriale reale soprattutto per il mantenimento del livello di tutela già raggiunto nell’area istro - quarnerina, il che non ha nulla a che fare con la minoranza slovena in Italia il cui status sociale, politico, economico e specialmente territoriale non ha subito alcuna modifica; non si può concludere null’altro che il futuro della minoranza italiana è più che mai incerto e dipenderà dagli accordi bilaterali che stipuleranno i tre Stati interessati.”, di Silvano Zilli, in Un confine antistorico, ne “Il Piccolo”, 27 gennaio 1992.

[224] E Fini minaccia di capeggiare la rivolta, ne “Il Piccolo”, 27 ottobre 1992.

[225] Gabriele D’Annunzio entrò nel 1918 a poche miglia dal porto di Fiume e silurò, insieme ad altri due Mas, tre mercantili austriaci. Concluse infine il suo gesto lanciando in mare alcune bottiglie con un messaggio di sfida all’Austria.

[226] Messaggi in bottiglia agli istriani, ne “il Piccolo”, 9 novembre 1992.

[227] “<Siamo qui agguerriti, determinati a chiedere la rinegoziazione di tutto. Anche dei confini se necessario. Non vogliamo svegliarci una mattina e sapere che il governo ha trattato sulle nostre teste e su quelle degli italiani che ancora si trovano dall’altra parte magari per un’intesa assurda come il trattato di Osimo del 1975>. Il senatore DC Lucio Toth parla ad una platea, foltissima di profughi fiumani e giuliano - dalmati.” In E ora i profughi chiedono la revisione dei confini, ne “Il Giornale”, 7 dicembre 1992.

[228] Non tutti gli esuli si dimostrarono favorevoli a una revisione dei confini.

“[...] dice Stelio Mattioni, un notevole scrittore: <E’ terra nostra l’Istria. Ma non pensiamo mica di fare di nuovo la guerra. E’ meglio riconquistarla con vie commerciali> [...] L’angoscia affiora in noi e nella città - precisa Tomizza - perché siamo senza retroterra. Senza l’Istria Trieste non ha ragion d’essere. Fino a quando Trieste e l’Istria non saranno unite di nuovo (e non so in quale modo), questa città resterà senza radici. Una città messa in un angolo lontano dell’Italia a Est.” di Federico Guerrieri, in Senza Istria non è Trieste, ne “L’Indipendente”, 17 novembre 1992.

[229] “Emilio Colombo, ministro degli Esteri, 28 ottobre 1992: <Per rivedere il trattato è necessario che le due parti lo facciano proprio: poi si potrà procedere alla sua revisione, nonché alle intese di cooperazione e tutela delle rispettive minoranze>. Emilio Colombo, 30 ottobre 1992: <Gli accordi di Osimo sono pienamente operanti e vincolanti sotto tutti gli aspetti: compresa la zona franca industriale a cavallo del confine>.” In Osimo, la rabbia di Trieste, ne “Il Giornale”, 1 novembre 1992.

[230] Zona franca, sloveni pronti a trattare, ne “Il Piccolo”, 31 ottobre 1992.

[231] La zona franca sparirà, ne “Il Piccolo”, 29 ottobre 1992.

[232] La battaglia di Trieste, di Roberto Bianchin, ne “La Repubblica”, 12 novembre 1992.

[233] “Il dibattito, in un’aula affollata di giovani missini con gli stemmi tricolori sulle maniche dei giubbotti, e di vecchie signore imbellettate, ha regalato squarci anni cinquanta”, Ibidem

[234] “Tanto è bastato per eccitare gli animi a Trieste capitale dei filo - serbi, con i missini che rivogliono l’Istria, 70 mila italiani scacciati dalla Dalmazia che rivogliono le loro case, e il senatore socialista Agnelli, il più ostinato amico di Belgrado, che vuole smascherare chi ha tradito gli interessi nazionali. [...] chi? La DC del nord - est con l’appoggio esterno dell’industria udinese e del Collegium croatium, la curia croata in Vaticano. Tutti imputati di aver formato la prima linea di quella lobby filo - slovena e filo - croata che con vari colpi di mano avrebbe forzato il governo a sponsorizzare Zagabria e Lubiana”, di Guido Rampoldi, ne “La Repubblica”, 10 novembre 1992.

[235] “Di internazionalizzazione del problema non se ne parla nemmeno - ribadisce Colombo.”, in Osimo, dal ’93 i negoziati, ne “Il Piccolo”, 22 novembre 1992.

[236] “Abbiamo cioè toccato con mano che, mentre i politici fanno il possibile per archiviare questa ingloriosa pagina della nostra storia, molti cittadini sono ansiosi di riaprirla nella speranza che, cambiate le circostanze, sia possibile ottenere una riparazione almeno parziale dei torti subiti nel 1947, nel 1954, e nel 1975.” In Cinquantamila firme contro Osimo, ne “Il Giornale”, 15 dicembre 1992.

[237] “Se, come lo stesso on. Colombo riconosce, le altre clausole del trattato di Osimo debbono essere rinegoziate, prendere atto con soddisfazione del fatto che la Slovenia si sia dichiarata erede della defunta Iugoslavia è stato un grossolano errore. Dopo averlo fatto noi ci troviamo a dover chiedere a Lubiana una riapertura del negoziato, e in caso di risposta negativa, saremmo costretti ad accettare questo no.” In Troppa prudenza, signor ministro, ne “Il Giornale”, 5 novembre 1992.

[238] Ottantamila per Osimo, di Livio Caputo, ne “Il Giornale”, 30 dicembre 1992.

[239] “[...] le sue eredi democratiche e liberiste non hanno alcuna giustificazione per insistere in questa chiusura, tanto più che Belgrado ha pagato solo due delle tredici rate previste per l’indennizzo.”, di Livio Caputo, in Ottantamila per Osimo, ne “Il Giornale”, 30 dicembre 1992.

[240] Ibidem

[241] “[...] su alcuni terreni magari nel frattempo sono stati costruiti degli alberghi, certe case sono passate di proprietà diverse volte. Fatte le debite proporzioni sarebbe come cercare di restituire New York agli indiani”, di Renato Pera, in Rinegoziare Osimo? Lubiana per ora nicchia, ne “Il Giornale”, 5 dicembre 1992.

[242] “[...] nessuna compromissione politica può essere posta a fondamento di esecuzioni sommarie, è per di più noto che molte delle persone eliminate senza specifiche accuse erano colpevoli solo di essere italiane.”, in Appello di Scalfaro ad Amato, ne “Il Giornale”, 21 febbraio 1993.

[243] “<Parliamoci chiaro per noi Osimo è valido e anche la questione dei beni abbandonati dai profughi è un capitolo praticamente chiuso. Vogliamo eventualmente discutere di cooperazione nell’Europa del futuro.> taglia corto Zoran Thaler, ex viceministro degli esteri.”, in Osimo, arrivederci a Roma, ne “Il Giornale”, 24 febbraio 1993.

[244] “Il trattato di Osimo, nel 1993, non può essere visto ancora una volta come la ratifica di una sconfitta militare che si riferisce a un’Europa e a un mondo ormai scnparsi, ma come il punto di partenza di una nuova politica”, di Stefano Silvestri, in L’Italia alla prova di Osimo, ne “Il Sole 24 - ore”, 13 aprile 1993.

[245] Tremaglia aveva parlato di azzeramento del trattato di Osimo, per poi precisare subito dopo che non intendeva rimettere in discussione i confini, ma soltanto non considerare la Slovenia e la Croazia eredi del trattato, e soprattutto impedire che esse venissero associate alla UE senza prima aver garantito l’effettiva tutela della minoranza italiana, e i diritti degli esuli di poter rientrare in possesso dei loro beni.

[246] “La politica estera in mano al nuovo governo rischia di essere una bomba ad orologeria. La questione del trattato di Osimo [...] è stata impugnata come una clava dai missini di Alleanza Nazionale e, in modo appena meno rude, da Forza Italia.” di Francesco Paternò, in Far West sui confini, ne “Il manifesto”, 22 aprile 1994.

[247] Stefano Silvestri, ne “Il Sole 24 - ore”, 12 aprile 1994.

[248] “Thaler ha altresì giudicato un autentico ricatto l’attuale politica della Farnesina, affermando tra l’altro, di non capire che cosa in realtà voglia l’Italia. <E’ evidente che la questione dei beni è solo un primo passo per nuove rivendicazioni, non chiederanno mica la revisione della II Guerra mondiale? >” di Alberto Cernaz, in Ricatto italiano, ne “Il Piccolo”, 19 luglio 1994.

[249] “la politica italiana nei confronti della Slovenia è una sola, e quindi <non c’è nulla di vero> nelle dichiarazioni del premier Drnovsek, che aveva accusato la nostra diplomazia di portare avanti due linee diverse. Ad affermarlo è il sottosegretario agli Esteri Livio Caputo. <C’è di vero soltanto il fatto che mi occupo della questione con molta attenzione e da molto tempo, e quindi scendo molto più in dettaglio di Martino, che ha la supervisione della politica estera. Questo può dare l’impressione che io sia più impegnato>”, in Caputo: un’occasione persa per gli sloveni, ne “Il Piccolo”, 20 luglio 1994.

[250] Lubiana boccia l’accordo, di Mauro Manzin, ne “Il Piccolo”, 21 ottobre 1994.

[251] A questo proposito può risultare interessante un sondaggio condotto in Slovenia, dal quale risulta che ben 59% degli sloveni si dichiarava scontento dei negoziati con l’Italia, per i troppi errori commessi; e il 49% insoddisfatto del modo di Lubiana di tutelare gli interessi della minoranza in Italia.

[252] “< Questo atteggiamento - si legge in una dichiarazione congiunta dei ministri aventiniani Umek e Ster - è ingiusto e inconcepibile nei confronti di una forza politica di coalizione, mentre è inaccettabile che problemi di vitale importanza quali l’avvicinamento della Slovenia all’Europa e i rapporti con l’Italia vengano sfruttati per giochi politici interni>”, di Mauro Manzin, in No di Lubiana, veto di Roma, ne “Il Piccolo”, 29 ottobre 1994.

[253] Sì al dialogo, ma con prudenza, di Mauro Manzin, ne “Il Piccolo”, 5 novembre 1994.

[254] “< di fronte ad un parere negativo del governo sloveno [...] l’Italia sarà costretta ad esprimere parere negativo al mandato associativo della Slovenia all’Ue > ha precisato il ministro Martino”, di M. Manzin, in No di Lubiana, veto di Roma, ne “Il Piccolo”, 29 ottobre 1994.

[255] “Va detto innanzitutto, che una parte di merito ce l’ha anche la diplomazia di Lubiana che ha saputo premere sull’acceleratore quando ha avuto di fronte a sé un governo italiano politicamente debole e fortemente condizionato da un parlamento altrettanto debole perché privo di equilibrio e impegnato in una violenta lotta politica intestina.”, di M. Manzin, in Ue, via libera alla Slovenia, ne “Il Piccolo”, 4 marzo 1995.

[256] “Finché non si arriverà a un accordo per la restituzione dei beni abbandonati dagli esuli alla fine dell’ultima guerra mondiale, la Farnesina si propone di preservare nel tenere una linea dura”, in La Agnelli: Con Lubiana non cambieremo rotta, ne “Il Piccolo”, 24 gennaio 1995.

[257] “Di fronte al baratro di una retrocessione nella serie B europea la Farnesina ha deciso di accettare un pareggio, che comunque muove la classifica, per non correre il rischio di incappare in una malaugurata sconfitta.”, di M. Manzin, in Prospettive inaspettate, ne “Il Piccolo”, 4 marzo 1995.

[258] “Non voglio entrare nel merito della Dichiarazione di Aquileia. Questo dossier è stato chiuso dalla Slovenia per cui non ritengo utile una sua analisi. Vorrei aggiungere che ora a noi interessa sapere quante sono le forze politiche italiane che ritengono nocivo anche per Roma il continuare a tenere unite le questioni bilaterali a quelle multilaterali. Certo è che questo legame non giova alla Slovenia.”, di M. Manzin, in Dialogo sì, ma su due binari, ne “Il Piccolo”, 28 gennaio 1995.

[259] “Non tocca più soltanto all’Italia controllare che Lubiana tenga fede alla parola data. Ormai è l’Unione europea nel suo complesso ad attendersi che la Slovenia onori il proprio impegno a consentire l’accesso al proprio mercato immobiliare”. In Agnelli: Non è una cambiale in bianco, ne “Il Piccolo”, 8 marzo 1995.

[260] “L’Italia ha aperto un credito di grande valenza politica a favore della Slovenia e si attende di essere adeguatamente ricompensata, con gli interessi che vanno sotto il nome di beni abbandonati.” di M. Manzin, In Prospettive inaspettate, ne “Il Piccolo”, 4 marzo 1995.

[261] In Rimane il nodo dei beni, ne “Il Piccolo”, 7 marzo 1995.

[262] “[...] non sfugge al governo l’elevato valore morale [della richiesta degli esuli] intesa a recuperare quel radicamento che i fatti della storia hanno dolorosamente interrotto”

[263] Balcani, la politica che non c’è, di Sergio Romano, ne “Il Piccolo”, 28 gennaio 1995.

[264] In Italia la situazione politica era mutata ancora. Le elezioni politiche dell’aprile 1996 hanno portato al governo una coalizione di centro - sinistra, presieduta da Romano Prodi.

[265] Le ragioni di una firma, di Piero Fassino, ne “Il Piccolo”, 10 giugno 1996.

[266] Ibidem

[267] Drnovsek: “Riparlare della restituzione di case ora non ha più senso”, di M. Manzin, ne “Il Piccolo”, 25 giugno 1996.

[268] In Un insulto agli esuli, di Furio Baldassi, ne “Il Piccolo”, 29 maggio 1996.

[269] A questo proposito assume un rilievo degno di nota un articolo di G. Valdevit, apparso su ”Il Piccolo” del 15 settembre 1992: Appartenere. Ma a chi?. In esso lo studioso partendo dall’analisi di due saggi di Hobsbawm e Gellner sul nazionalismo, arriva a identificare i due fenomeni chiave che stanno alla base di esso: democratizzazione della società e modernizzazione; quali fenomeni caratterizzanti la società triestina a partire dalla fine del ’800.