Storia di una deportazione

DA POLA A BELGRADO

di

Tomasello Angelo

E-mail: tomangelo@libero.it



Siamo appena entrati nel terzo millennio ed abbiamo aperto la porta alle future generazioni.
Ponendomi alcune domande su come sarà il loro futuro, sento il desiderio di voltarmi mentalmente indietro nel tempo per ripercorrerlo a ritroso.
Legata al motivo di questo mio scritto è la telefonata che feci tempo addietro all’indimenticabile sig. Fulvio Farba che, pur non conoscendolo di persona, ho avuto modo di stimarlo leggendo i suoi articoli sull’Arena di Pola.
Nel breve dialogo gli accennai che, con il suo aiuto la sua esperienza e conoscenza, avremmo potuto proporre un incontro - con data e luogo da stabilire - con gran parte di quei reduci istriani che avessero vissuto drammi tali da poter essere raccontati e scrivere così una grande e unica Storia sul Martirio dell’Istria, dato che molti di questi episodi sono stati portati a conoscenza tramite il nostro giornale e in altre autorevoli pubblicazioni. Fatti e testimonianze destinati però a rimanere isolati come la mia che sto per raccontare.
Nella sua risposta Fulvio Farba mi accennò all’impossibilità di poter organizzare un incontro del genere, ciò anche per la dispersione nel mondo della gente istriana e mi ha consigliato di scrivere, scrivere e ancora scrivere riportando sulla carta tutti i nostri ricordi, la nostra testimonianza.
Nel ricordo di questo nobile istriano, e con lo sprone di mio nipote Olinto anche dalle pagine di questo Foglio, ho deciso di levare fuori dalla mia mente tutto quello che il tempo non ha cancellato e di mettere “nero su bianco” quello che successe dopo la resa e durante la mia prigionia. Ometterò per riservatezza i nomi dei miei compagni di sventura caduti nelle mani degli slavi, riportando però alcuni ricordi ancora vivi, come ad esempio la tragedia del naufragio della Lina Campanella che non fu mai, a quanto mi risulta, raccontata nei dettagli.
Su questo fatto posso narrare solo quello che mi successe direttamente, ma chissà quanti altri potrebbero raccontare di altre cose accadute in quei frangenti e darne testimonianza perché sopravvissuti a quella tragedia, come sto facendo io.
Tengo anche a chiarire che, nel pieno rispetto di tutte le idee e convinzioni personali, chi ha aderito alla RSI non fu, ne sono certo, per viltà o per lucro ma, come nel mio caso, per pura e limpida idea di Patria; pertanto consentitemi di rendere omaggio a tutti coloro che sono caduti in prigionia o combattendo per difendere l’italianità dell’Istria.
Se qualcuno al termine del racconto vorrà comunicare con me per eventuali informazioni o semplici scambi d’idee, lo potrà fare chiedendo il mio recapito a mio nipote Olinto.

Angelo Tomasello



FINE DELLE OSTILITA’

La mia mente, vagando nei ricordi, si ferma ad una data per me indimenticabile come lo è per la gran parte degli istriani: esattamente al fatidico giorno del 2 maggio 1945.
Sono passati ormai 55 anni, ma quella data mi fa rivivere quel lontano giorno a Pola, nel piazzale della marina, più precisamente nella caserma Bafile dove in quel periodo era di posto il battaglione autonomo Nazario Sauro della DECIMA Flottiglia MAS.
In quel Corpo ho l’onore di essermi arruolato volontario negli ultimi mesi di guerra.
All’imbrunire di quel giorno nel cortile antistante la caserma, fu ammainata per l’ultima volta la bandiera italiana ancora sventolante sulla nostra cara e italianissima città.
La bandiera fu consegnata ad una persona fidata evitando che cadesse in mano agli occupanti slavi.
In quell'occasione il nostro comandante, nel suo breve e doloroso commiato, ringraziò tutti noi per il nostro comportamento e per essere responsabilmente rimasti al nostro posto; con tristezza annunciò la definitiva resa allo scopo di evitare reazioni armate degli occupanti e che avrebbero potuto causare vittime tra la popolazione e danni alla città.
Nelle settimane prima della resa, i rapporti con i tedeschi - che non furono mai buoni perché mai tollerarono la nostra indipendenza ed estraneità a qualsiasi ingerenza politica o straniera che non fosse concorde con la nostra volontà di mantenere l’italianità dell’Istria - si guastarono ulteriormente. Ciò a causa della posa di mine nei punti strategici e che avrebbero fatto brillare con l’entrata in città da parte dei partigiani. Pertanto prevedendo una nostra reazione, il comando tedesco fece piazzare davanti alla facciata anteriore delle carceri un cannoncino puntato contro la nostra caserma.
Il nostro comandante, non gradendo questa situazione, diede il via a trattative con i responsabili militari tedeschi ed alla fine fu stipulato un accordo con la promessa di facilitare la partenza da Pola dell’alto comando tedesco per consegnarsi agli alleati in Italia.
Grazie a quest’accordo la notte del due maggio - che avrebbe potuto essere l’inferno per la città e per la popolazione ignara di quello che i tedeschi ebbero a predisporre - fu invece una notte tranquilla e gran parte dei cittadini non seppe mai che quella tranquillità fu dovuta ai “marò” della X Flottiglia MAS rimasti da soli al proprio posto fino all’ultimo.
(Rimando anche al libro scritto da Arrigo Petacco “L’Esodo” dove con lucidità e autorevolezza viene descritto quale fu la nostra posizione a quel tempo).
Altri accordi furono pattuiti con le organizzazioni di liberazione e partigiane dove furono date garanzie d’incolumità, ma a cose fatte i patti non furono mantenuti.
Alcuni giorni prima della resa quando cominciò lo sbando militare, anche quello dei tedeschi, fummo impegnati a raccogliere in tutte le caserme abbandonate armi e munizioni portando nella nostra caserma tutto il materiale di provenienza bellica che potesse rivelarsi pericoloso se maneggiato da persone incaute o da chiunque fosse entrato in quei locali ormai abbandonati.
L’ultima uscita la facemmo nel primo pomeriggio del giorno 2 maggio a bordo di un camioncino Fiat 26 con una pattuglia di cui feci parte.
Il nostro compito fu quello di controllare che tutto fosse tranquillo dato che ormai la popolazione era consapevole che i fatti stavano rapidamente precipitando.
La nostra zona d’operazione fu quella ad Est della città e parte del circondario sulla strada che portava al paese di Sissano; il compito fu anche quello di recuperare gli uomini lasciati di guardia alla centrale elettrica e dintorni.
Constatata la tranquillità della zona e che pochissima gente circolava frettolosamente per le strade, rientrammo in caserma.
Dopo l’ammaina bandiera (l’ultima come ho detto prima) fu consumato un frugale pasto e ricevemmo l’ordine di ritirarci tutti nelle camerate in attesa d'ulteriori ordini.
Ci ritirammo in silenzio. Moralmente a terra, nessuno di noi ebbe voglia di parlare; sentimmo nell’aria quel senso di sconforto che ci invase, consapevoli che tra poche ore avremmo dovuto affrontare un buio destino.
Nonostante tutto potei notare sul volto dei miei commilitoni, oltre che una grande rassegnazione, la mancanza assoluta di paura, segno questo che le nostre coscienze furono sempre serene.
Alle ore 20 suonò la tromba per l’adunata e ci riunimmo per inquadrarci perfettamente nel refettorio con tutto l’armamento personale.
Dopo qualche minuto arrivò il nostro comandante con alcuni ufficiali partigiani scortati da una loro squadra d’armati. Questi, equipaggiati con mitra e fucili mitragliatori, furono quelli che per primi entrarono in città per prenderla in consegna ed evitare eventuali distruzioni e danni alla popolazione.
A questo punto il comandante ci diede l’ultimo ordine ma il più doloroso: quello di uscire uno alla volta dopo aver depositato tutto l’armamento e di ritirarci nelle camerate. Lui consegnò la sua pistola prima di tutti nelle mani dell’ufficiale più alto in grado che - con un gesto di cavalleria militare che non avemmo più modo di apprezzare in seguito - gliela restituì in nostra presenza.
Quella notte fu lunga ed insonne, ma venne finalmente l’alba e alle cinque suonò la sveglia. In pochi minuti fummo inquadrati nel cortile dove l’ufficiale partigiano, conosciuto la sera prima, c’informò in uno stentato italiano che “per motivi di sicurezza” avremmo dovuto essere scortati fuori dalla città, dato che alcuni soldati tedeschi armati continuavano ad opporre resistenza.
Con ordine e con i nostri ufficiali e sottufficiali in testa attraversammo la città ed imboccammo il viale in direzione del bosco Siana.

INIZIO DELLA PRIGIONIA

Prima di arrivare alla chiesa di Siana in prossimità del omonimo bosco, i partigiani ci fecero entrare in una villa sulla sinistra della strada denominata Barba Rossa.
Molto probabilmente in città si sparse la voce di questo spostamento e subito arrivarono parenti ed amici per conoscere la nostra situazione.
Tra i primi ad arrivare fu mia sorella che, nonostante le sentinelle impedissero l’avvicinamento della gente, aggirò gli ostacoli riuscendo ad avvicinarsi all’inferriata del recinto della villa. Potei così rassicurarla perché portasse a casa notizie sulle mie condizioni.
Il mio comandante vedendola si avvicinò e le chiese la cortesia di andare alla chiesa della Marina per chiedere al Cappellano militare di intervenire per far rispettare l’accordo preso con i comitati di liberazione o chi per loro, dal momento che fu lui uno dei principali intermediari nelle trattative.
Così fece, ma la risposta che ci fu recapitata fu a dir poco deludente: ci fece intendere che “purtroppo i suoi impegni” non gli permisero più di intervenire!
Da quel momento capimmo cosa avremmo dovuto aspettarci, tanto più che già in quel pomeriggio i nostri guardiani gettarono la maschera e circolando in mezzo a noi cominciarono a lanciare minacce di vendetta. In serata ci chiusero in un gran locale comunicante con altre camere e dormimmo sdraiati a terra, consapevoli però della nostra situazione che ci rese guardinghi ad ogni rumore sospetto.
Passammo così la prima notte di prigionia in relativa tranquillità fino alle ore quattro del mattino quando ci diedero la sveglia.
Fummo fatti uscire in giardino dove ad attenderci ci fu una nuova scorta formata da partigiani di non so quale etnia, armati fino ai denti con striscioni di cartucce incrociati alla messicana, alti di statura con capelli lunghi fino al collo e baffi affusolati, lunghi e perfettamente orizzontali.
Si piazzarono in modo da formare due stretti cordoni ai lati e poco dopo ci avviammo attraversando il bosco Siana ed in breve tempo arrivammo al campo d’aviazione di Altura. Strada facendo mi assalirono i ricordi della nostra fanciullezza in quel bosco, nei giorni di Pasquetta in mezzo alle viole ed ai ciclamini, felici e spensierati quando ancora eravamo tutti amici e ci si rispettava. Quei tempi non si ripeterono più per nessuno di noi.
Arrivati a destinazione ci chiusero in un grande capannone di legno, probabilmente un vecchio magazzino, dove nel primo pomeriggio cominciò un’accurata selezione: era il giorno quattro di maggio.
Fummo separati in quattro gruppi: il primo formato da ufficiali e sottufficiali, il secondo da soldati italiani non istriani (chiamati soldati “regi”), il terzo gruppo fu formato da soldati istriani di genitori istriani ma italiani, infine il quarto formato da soldati istriani di genitori istriani di etnia slava.
In quest’ultimo gruppo entrarono due miei commilitoni, cugini, nativi di Gimino: furono portati subito via e di loro non si seppe più niente; probabilmente, proprio perché di madrelingua istro-croata, furono considerati traditori.
Cominciò così a delinearsi il nostro incerto ed inquietante futuro. Vedemmo la nostra situazione peggiorare quando, noi istriani appartenenti al terzo gruppo, fummo dichiarati traditori per non aver scelto la via dei boschi con i partigiani. Pertanto, solo noi nel tardo pomeriggio e su una corriera ben scortata, fummo portati nel carcere di Dignano.
Apro una parentesi per dire che solo quando ritornammo dalla prigionia, seppi che gli ufficiali ed i sottufficiali furono separati dalla truppa, in data e luogo che ancora oggi ignoro, e trucidati in modo bestiale dilaniando i loro corpi con candelotti di dinamite.
Colà arrivati, prima di scendere dalla corriera, dovemmo consegnare i nostri documenti ad un addetto alla organizzazione dell’UNPA; dopo di ciò, uno alla volta, scendemmo dal mezzo per entrare in cella. Per arrivarci, fummo costretti a percorrere un androne semi-buio in mezzo a due cordoni di armati tutti affiancati ai muri e nella semi oscurità vedemmo solo delle ombre, ma ben visibili furono le canne dei mitra puntate su di noi.
Fu l’inizio di un martellamento psicologico allo scopo di fiaccarci moralmente. In questo ambiente restammo solo una notte; l’indomani alle quattro del mattino del 5 maggio ci portarono con la corriera al carcere di Rovigno: anche qui la stessa musica, stanze spoglie e per giaciglio il nudo pavimento, ciò per una settimana. Il primo giorno fummo sottoposti nuovamente ad un pressante interrogatorio conclusosi con la solita sequela di minacce, però questa volta vollero sapere tutto su di noi dalla nascita.
Nei giorni che seguirono fummo impiegati in lavori pesanti come scavare buche per piantare pali della luce oppure far funzionare le pompe dell’aria sui barconi dei palombari. In quelle occasioni riconobbi tra quelli della scorta un ragazzo dei tempi delle colonie estive: fu il più accanito contro di noi, imbracciando un vecchio fucile modello 91 colpiva con il calcio chi si attardava al grido di “avanti cagnoni!”. Nel momento in cui trovandomelo vicino pronto a colpire, gli dissi a bassa voce e guardandolo diritto in faccia: “se un giorno doveria tornar libero te vegnerò a zercarte”.
Mi resi subito conto della mia imprudenza che poteva costarmi cara, ma lui per mia fortuna passò avanti borbottando qualcosa che non capì. Quella fu l’ultima volta che ci vedemmo.
In quella settimana a Rovigno dovemmo accontentarci di un po’ di brodaglia a mezzogiorno e alla sera: gli stimoli della fame cominciarono ben presto a farsi sentire.
Il giorno 11, con un barcone, ci portarono a Fasana e di lì a piedi nuovamente al carcere di Dignano dove restammo per altri sei giorni a scaricare sacchi di farina dagli autocarri per i panifici. In quel carcere il nostro numero aumentò con l’arrivo del gruppo di commilitoni distaccati per servizio presso la polveriera di Vallelunga.
La sera del 17 ci legarono i polsi strettamente con delle corde e a bordo di mezzi militari arrivammo a Pola verso le 22 ospiti del carcere. Nell’ampia cella dove fummo rinchiusi incontrammo un gruppo di persone appartenenti alla Questura.
Tra loro riconobbi il commissario che conoscevo solo di vista e che avevo visto assieme al gruppo di persone (probabilmente delegati) che vennero nella nostra caserma durante le trattative di resa.
All’indomani, durante l’ora d’aria nel cortile delle carceri, trovammo altri arrestati appartenenti a gruppi militari scioltisi diversi giorni addietro, di cui molti istriani.
Quel giorno, dopo il rientro in cella, subimmo un altro interrogatorio molto pesante accompagnato dalle solite minacce.
Nell’ora d’aria del giorno dopo ci trovammo con un altro gruppo di persone - civili questa volta – arrestati perché colpevoli di essere maestri di scuola, sindacalisti ed impiegati statali.
Ormai il gruppo di prigionieri tra civili e militari fu alquanto consistente.
Nel carcere di Pola restammo solo tre giorni, ma passammo le notti insonni a causa di milioni di insetti immondi, chiamati cimici, che scesero dai muri coprendoli completamente. Furono tre notti passate seduti fino all’alba al centro della cella uno a ridosso dell’altro evitando di avvicinarsi a quelle pareti brulicanti.
Alla sera del 20 maggio – ore 23,30 - ci fecero uscire tutti dalle celle e ci legarono nuovamente i polsi, in modo ancora più stretto della volta precedente, con un cordino tirato al massimo della sopportazione. Finita questa operazione c'incamminammo incolonnati formando una lunga colonna e sotto numerosa scorta attraversammo tutta la città imboccando poi la strada per Fasana.
Durante quella marcia notturna, parlando sottovoce dal momento che la pretesa dei nostri guardiani fu il silenzio per impedire ogni comunicazione fra noi, ci scambiammo qualche breve impressione: ma nessuno riuscì a capire quale poteva essere il motivo di quel trasferimento di massa. Arrivati al porto di Fasana capimmo: l’ombra di una grossa nave si stagliò davanti a noi: fu la Lina Campanella, nave da carico valutabile ad occhio in circa 5000 tonnellate, che ci aspettava.

LA LINA CAMPANELLA

La colonna divisa in piccoli gruppi ben sorvegliati per impedire eventuali fughe, fu trasferita a bordo tra mille difficoltà per noi dato che eravamo con le mani legate dietro alla schiena e dovevamo tenerci diritti uno con l’altro per non cadere in mare dalla scaletta.
Sulla nave notammo verso prua un gruppo di prigionieri tedeschi saliti prima del nostro arrivo.
Quando fummo tutti a bordo, ci accorgemmo che eravamo veramente in tanti: la tolda era piena zeppa; ognuno di noi cercò di accomodarsi alla meno peggio e mancando lo spazio, molti dovettero salire sui grandi boccaporti delle stive. La situazione rimase in ogni modo critica specialmente a causa dei polsi legati strettamente e che cominciarono a sanguinare e a dolere per i tagli che procurarono.
Sistemata a bordo tutta la scorta capimmo che eravamo ben sorvegliati sebbene gli ordini fossero dati in lingua slava.
La nave si mosse prima dell’alba e navigando lentamente nel canale di Brioni vedemmo spuntare l’alba: finalmente potemmo guardarci intorno. Alzando gli occhi, le prime cose che si poterono vedere al primo chiarore mattutino, furono quattro fucili mitragliatori del tipo Breda puntati contro di noi sul ponte di poppa con i mitraglieri stesi pancia a terra attenti a controllarci; dietro a questi altri soldati armati ed alcuni loro ufficiali.
Il sole spuntò all’orizzonte e i primi raggi che fugarono la frescura della notte furono i benvenuti per tutti; passammo davanti al porto di Pola quando fu abbastanza chiaro e rivedemmo da lontano le nostre care spiagge mete di bellissimi giorni felici passati in piena libertà: parola questa mai tanto amata come in quel momento, man mano che ci si allontanava da quei luoghi.
Il fatto di trovarci sopra una nave in movimento ci stimolò alla ricerca di un progetto per la fuga. Di bocca in bocca, diventando complici, maturò un’ipotesi che, vista la nostra situazione, giustificò ormai anche il serio pericolo di fallimento.
Tra noi della Decima e tra quelli aggiunti durante le tappe precedenti, ci furono parecchi che prestarono precedentemente servizio nella marina da guerra imbarcati su sommergibili o su cacciatorpediniere, perciò abili a condurre una nave. Tutti noi che avevamo militato nelle varie armi e con l’adesione d'alcuni civili, fummo d’accordo per un’azione comune di forza. Formulare l’azione avrebbe richiesto qualche ora ma sufficienti per mettere a punto l’idea senza creare sospetti. Innanzi tutto coprendoci l’un l’altro per non essere visti (l’altezza dei boccaporti ci facilitò in questa operazione) riuscimmo ad allargare la stretta dei cordini in modo che al momento giusto saremmo riusciti a sfilare un polso liberando così entrambe le mani.
Nella posizione in cui mi trovavo fui uno dei primi a mettermi nella condizione ideale per liberarmi.
Mentre si procedette di nascosto a portare a termine questa prima operazione, uno dei nostri si avvicinò al gruppo dei tedeschi dove era giunta già la nostra idea: un loro ufficiale però ci fece sapere che, pur rimanendo solidali nel mantenere il segreto sulle nostre intenzioni, per loro la guerra era finita e non ebbero nessuna intenzione di rischiare ancora la vita, anche se ritennero interessante, in caso di riuscita, il dirottamento della nave verso l’Italia per consegnarsi agli Alleati.
Dietro alla nostra si accodò fin dalla partenza da Fasana un’altra nave da carico: la Mont Blanc, molto più piccola ma piena di partigiani armati con una mitragliera da 20 mm piazzata sulla prora.
Doppiata punta Promontore, la nave Mont Blanc scomparve dalla nostra vista e in noi balenò la speranza che avesse cambiato rotta, ma ci accorgemmo più tardi che la nave ci aveva sempre seguiti rimanendo nascosta alla nostra vista dal ponte di comando dato che mi trovavo sotto il castello di poppa.
Il fatto che aumentò in noi la volontà di tentare la sortita fu la voce (non si seppe mai la fonte) che la nostra destinazione avrebbe dovuto essere i lavori forzati nelle miniere di porto Re! Ci organizzammo in gruppi dividendoci i compiti da mettere in atto al momento opportuno, con un segnale convenuto.
Io feci parte di uno dei due gruppi che, lanciati sulle due scalinate laterali del castello di poppa, avrebbero dovuto ridurre al silenzio le mitragliere, mentre il terzo più numeroso ci avrebbe seguito per impadronirsi del ponte di comando.
Il segnale stabilito sarebbe stato dato verso mezzogiorno durante o dopo il cambio della guardia che si sarebbe mossa per andare a mangiare. Questa prima azione sarebbe stata la più rischiosa, ma ne valeva la pena perché la riuscita di tutto il piano sarebbe da essa dipeso.
Fummo pronti e decisi nell’attesa del segnale. La nave viaggiò sempre in vista della costa mantenendo la rotta verso Fiume. Fummo all’altezza della costa sotto l’altura di Carnizza già in vista dell’insenatura del braccio di mare che, inoltrandosi all’interno, porta al canale d’Arsa, quando alle ore 14,15 la nave urtò contro una mina.
In quel momento non solo caddero tutti i nostri progetti fatti, ma cominciò la vera tragedia.
Quanti furono i morti non saprei dire ma certo furono molti e non solo tra noi prigionieri, ma anche tra i nostri guardiani (pochi di loro sapevano nuotare) perché si buttarono in mare con tutto l’armamento per non riemergere più.
L’impatto con la mina fu tremendo: l’esplosione avvenne a prora sul lato destro e fu tanto potente che la nave s’impennò con la prua verso l’alto per poi ricadere e beccheggiando s’inclinò nella parte anteriore. La colonna d’acqua c’investì quasi tutti.
Per il contraccolpo si staccarono i ponteggi della gru che cadendo su di noi causò le prime vittime.
La nave, imbarcando acqua dalla falla, s’inclinò sempre più in avanti e sul fianco destro. Cominciarono le prime invocazioni di aiuto; il caos s’impadronì specialmente di quelli che non sapevano nuotare o che ebbero i polsi ancora legati.
Io mi trovai sulla parte sinistra e saltai sul parapetto per buttarmi in mare ma, data l’inclinazione della nave, probabilmente sarei caduto sul fianco della carena sporgente dall’acqua; notai anche un ufficiale della scorta che dal ponte di comando sparava con un mitra sui naufraghi. Solo allora notai, dalla posizione in cui mi trovavo, che dietro al ponte di comando era stata piazzata una mitragliera a canne binate da 20 mm e che proprio in quel momento sparò una raffica verso terra per attirare l’attenzione dell’equipaggio di un peschereccio che si trovava in prossimità della costa. Mi portai prudentemente sul lato opposto della nave in posizione più sicura per gettarmi in mare.
Arrivato al punto scelto, mi si affiancò un giovane di qualche anno più anziano di me che mi esortò a buttarmi subito. Saltai sul parapetto dove lui mi raggiunse: gli chiesi se sapesse nuotare, mi rispose di sì. Gli feci però notare che la nave stava puntando verso terra per tentare l’incagliamento e che l’elica girando molto forte e in parte emersa rappresentava un grave pericolo; gli raccomandai, appena fosse in acqua, di nuotare molto forte per allontanarsi subito dal risucchio dell’elica, cosa che avrei naturalmente fatto anch’io.
Ci buttammo insieme; io misi nelle braccia tutta l’energia che mi restava e nuotai con vigore fino a quando mi sentì libero dai vortici creati dalle pale dell’elica che passò non molto distante.
A quel punto mi fermai a cercare il mio compagno: non lo vidi. Guardai verso la nave e scorsi un corpo sbattuto dalle pale e l’acqua arrossarsi: capì la triste realtà dell’accaduto, purtroppo non seppi mai il nome di quell’infelice.
Ormai non mi restò che nuotare verso terra e possibilmente aiutare qualcuno in difficoltà.
Guardandomi attorno vidi delle braccia alzate e mi giunse forte un richiamo di un mio amico: mi precipitai e vidi che cercava di far salire su un bidone vuoto uno dei tanti caduti in mare: un nostro sottufficiale che cadendo in malo modo urtò la schiena contro un ostacolo che galleggiava.
Faticammo molto per caricarlo sopra il bidone dato che ogni movimento fu per lui uno strazio; pensammo che avesse la colonna vertebrale rotta o in ogni modo ridotta molto male. Lo caricammo prono con le gambe divaricate perché non cadesse mentre noi tenemmo il bidone in modo che non si rovesciasse. A questo punto il mio compagno mi chiese, indicando suo fratello poco più avanti, se potevo portargli aiuto dal momento che sembrò tenersi a galla con difficoltà. Recuperai un altro bidone e cominciai a spingerlo verso il ragazzo, ma arrivatogli vicino mi gridò di aver trovato un appiglio.
Le grida di aiuto si sentirono da ogni parte e mi accorsi di due persone poco distanti in difficoltà, perciò spinsi il bidone galleggiante in quella direzione. Una donna e un ragazzo pressappoco della mia età faticavano a rimanere a galla; li aiutai a tenersi all’estremità dell’appoggio che sporsi loro raccomandando di portarsi lentamente verso riva sperando che nel frattempo giungessero dei soccorsi. Mi ringraziarono e mi allontanai da loro perché vidi un peschereccio che stava venendo nella nostra direzione: si trattò di quel peschereccio sollecitato dalla raffica di mitraglia a venire verso di noi.
Cominciai a nuotare verso quell’imbarcazione; mi fermai e feci dei segni con le braccia per attirare l’attenzione delle persone a bordo e che sicuramente si furono già resi conto della situazione.
Mi videro e puntarono verso di me, fummo già a distanza di voce quando si fermarono; gridai che venissero avanti, ma dal peschereccio risposero che non potevano avanzare perché eravamo in mezzo alle mine. Ebbero ragione e me ne accorsi di persona perché qualcosa stava emergendo dal fondo verso la superficie proprio sotto ai miei piedi spostandomi da un lato; quello che vidi mi sembrò quasi impossibile: una mina di un inquietante blu scuro, forse risucchiata dai vortici creati dalla nave, che scomparve subito dopo inabissandosi.
Confesso che non fui particolarmente coraggioso in quel momento, perché la paura fu tale da darmi tanta energia per nuotare a tutta forza verso il peschereccio dove arrivai stremato.
M’issarono a bordo e mi stesero sul tavolato per farmi riprendere fiato; credo che fossero due pescatori ma con loro ci fu anche un soldato armato.
Uno di loro mi chiese chi fossimo ed io risposo che eravamo un gruppo di prigionieri. Il soldato armato mi puntò subito il fucile contro, ma l’uomo che mi fece la domanda con una mano spostò l’arma ed in bell’istriano gli disse “ meti via, n’do ti vol che’l scampi”.
Guardata la situazione decisero, anche per motivi di sicurezza, di seguire la scia della nave che nel frattempo si era incagliata su un fondale vicino agli scogli. Seguendo quella via riuscirono a recuperare altri naufraghi ed a sbarcarci tutti a terra nelle vicinanze della nave.
Le persone che furono ancora in buone condizioni, me compreso, si prodigarono ad aiutare quelli che si stavano avvicinando alla riva a nuoto, specialmente i feriti. Riuscimmo a portare a terra il sottufficiale e altri anche in cattive condizioni; quelli che non poterono camminare li stendemmo in un piccolo pianoro erboso: erano una dozzina (non ricordo il numero esatto) con brutte ferite.
Non sapemmo mai quanti furono imbarcati sulla nave ne sapemmo mai quanti furono i morti di quel naufragio. Sono però sicuro che, in rapporto ai numeri, il peggio toccò ai nostri guardiani dato che si erano ridotti ad uno sparuto gruppetto.
Un mio commilitone, che era l’organizzatore del colpo di mano che avremmo dovuto fare a bordo della nave, disse che vide sporgersi dalla cabina di manovra, subito dopo l’esplosione della mina, il probabile Responsabile della rotta e lo riconobbe: si trattò di un ex ufficiale della marina militare italiana in servizio su un cacciatorpediniere a Pola, probabilmente prigioniero anche lui. Mi espresse il dubbio che l’ufficiale avesse deliberatamente deviato la rotta della nave portandola nella zona minata per impedire la nostra deportazione in Jugoslavia.
Arrivarono però presto i rinforzi da qualche guarnigione vicina ed incominciarono ad incolonnarci per portarci a una nuova destinazione.
Con la colonna già in movimento un amico ed io ci attardammo ancora vicino ai feriti per chiedere ad un ufficiale se potevamo rimanere per assistere i feriti: ricevemmo un netto rifiuto e l’ordine di raggiungere subito la colonna perché avrebbero pensato loro a trasferirli all’ospedale più vicino. Entrambi dovemmo allungare il passo per raggiungere la colonna seguita dalla retroguardia; non mi convinse però il gruppetto di armati che si attardarono vicino ai feriti.
Stavamo percorrendo un sentiero in salita e per inoltrarci in un boschetto, quando sentì provenire dalla riva il crepitio di alcune raffiche di mitra: in quel momento svanì l’illusione di rivedere qualcuno dei feriti lasciati sulla spiaggia.
Interrompo brevemente il racconto interponendo un fatto accadutomi occasionalmente circa vent’anni dopo questi avvenimenti.
Con alcuni amici mi trovai in quel di Albona, in una borgata sulla collina che costeggia il canale d’Arsa quando mi fu presentato un anziano signore residente del luogo.
Amava parlare l’istriano con noi; ad un certo punto della chiacchierata un amico disse che mi avrebbe portato sulla strada sopra la collina perché da una certa posizione si poteva vedere benissimo il punto dove, con la Lina Campanella, saltammo sulla mina. A queste parole l’anziano signore mi chiese se fossi stato anch’io su quella nave: risposi di si ma in qualità di prigioniero.
Mio figlio, disse, fu a bordo anche lui e faceva parte della scorta armata e durante quella tragedia fu tanto il terrore per quello che aveva passato e visto, che perse la ragione e ancora oggi è ricoverato a Pola in una casa di cura per malati di mente.
Anche se militò dall’altra parte, provai dispiacere per quel ragazzo: ma almeno ebbe salva la vita.

DALL’ISTRIA A SUSAK

Riprendo il mio racconto portandovi sulla strada che ci vide allontanare dal luogo della tragedia della Lina Campanella.
Nel tardo pomeriggio arrivammo nella zona di Vareschi dove fummo portati in una scuola che dal sentito dire fu quella di Carnizza. Nelle aule completamente vuote restammo sei giorni e colà poterono raggiungerci i nostri parenti che, avendo sentito della tragedia, seppero dove i superstiti furono trasferiti. Per noi fu vietato comunicare con loro; potevamo solo fare qualche breve cenno dalla finestra e le cose che ci mandavano dovevano passare per le mani dei nostri carcerieri e tramite loro ci furono recapitate.
Anche in questo luogo le notti non furono tanto tranquille: al calare del sole un gruppo di persone iniziava il canto del “Kolo”. La “prima voce”, stridula, forte e penetrante fu quella di una ragazza ed il coro le faceva il ritornello, sempre il medesimo indirizzato al “grande figlio del piccolo padre” di allora: Tito.
Cantando e saltellando intorno ad un falò la smettevano solo verso l’una o le due di notte, esausti. Fortunatamente di giorno potevamo recuperare qualche ora del sonno perduto.
Nel pomeriggio del 27 maggio fummo nuovamente incolonnati e passando per Marzana ritornammo a Dignano dove rimanemmo chiusi per due giorni nelle cantine del comando militare. In questo spostamento però, un gruppo di prigionieri non ci seguì; dopo questa selezione ci accorgemmo dell’assenza di parte dei civili, degli agenti della questura e qualche altro militare.
Seppi in seguito da una signora, che conoscevo sin dalla mia infanzia, che tra coloro che rimasero a Vareschi c’era suo marito e suo cognato entrambi impiegati alla Questura di Pola. Assieme ad altri non fecero più ritorno: furono fatti sparire e non si seppe mai in quale fossa o in quale foiba giacciono ancora i loro corpi.
Il 29 fummo trasferiti nei magazzini della stazione ferroviaria dove rimanemmo fino al 10 di giugno con la denominazione di “compagnia lavoratori”, ma non uscimmo mai. Anche in questo luogo, se qualche parente portò qualcosa fu filtrato dai guardiani che comunque c’impedirono di comunicare con alcuno. Ricordo ancora mio padre e mia sorella che, in bicicletta, seguirono finché poterono il nostro peregrinare istriano.
Tutte le mattine eravamo allineati in più colonne e ci contavano per controllare se c’eravamo ancora tutti. Questo conteggio, in quella sventurata prigionia e con tutte le nostre tragedie, fu l’unico diversivo comico dovuto all’analfabetismo dei nostri carcerieri: ogni fila ebbe un sorvegliante con il compito di contarci, ma il risultato non fu mai lo stesso. L’unico a imbestialirsi fu l’ufficiale – credo analfabeta anche lui – che facendo ripetutamente rifare la conta, si ritrovò con valori una volta più bassi l’altra più alti.
Con questi risultati non sapemmo mai quanti in realtà fossimo con precisione; questa comica si ripeteva tutte le mattine.
In quei giorni ci riunimmo in gruppetti e passando il tempo a raccontarci particolari della nostra gioventù, aumentò l’affiatamento tra noi rendendoci molto solidali. Con noi ci fu anche un ragazzo che divenne tenente della milizia, provenendo credo dalle Marche. Parlando della sua terra gli brillarono gli occhi dalla nostalgia: un carissimo ragazzo, di carattere sempre allegro. Io seppi che era un ufficiale perché lo vidi a Pola, e all’infuori del nostro gruppo, non lo seppe mai nessuno e volemmo che rimanesse un segreto.
Tutti i giorni, infatti, il comandante dei nostri sorveglianti passò a chiedere se tra noi ci fosse qualche ufficiale perché “serviva a addestrare le sue truppe”! Questa richiesta non ci convinse mai: sapevamo che brutta fine avrebbe fatto nelle loro mani, perciò con noi si sentì sempre sicuro.
Durante la notte tra il 10 e l’11, fummo svegliati da un forte rumore di mezzi militari che passarono sulla strada statale poco distante. All’indomani mattina quando c’incolonnarono per una nuova partenza sapemmo dell’arrivo degli Alleati.
Riprendemmo la marcia a ritroso verso Marzana, dove imboccammo la strada per Fiume e passando per Barbana ed Arsia, senza alcuna sosta, arrivammo in serata ad Albona. Ci fecero salire verso il mercato vecchio di allora e ci chiusero nel recinto dei banconi destinato di giorno alla vendita della verdura.
Strada facendo, la nostra colonna fu sorpassata da molti mezzi sia militari sia civili, camioncini, automobili, carri trainati da animali tutti pieni delle più disparate cianfrusaglie: dalle scope a pezzi di macchinari e capimmo che prima di cedere la città agli alleati l’avevano depredata di tutto ciò che era possibile portare via.
Appena arrivati vedemmo venire verso di noi due soldati in divisa militare inglese spinti anche loro dentro il recinto. Incuriositi (era la prima volta che vedevamo quella divisa) ci avvicinammo chiedendo il motivo del loro arresto. In poche parole ci dissero che prestarono servizio militare nel meridione d’Italia e dopo l’armistizio furono fatti prigionieri dagli Alleati ed in seguito entrarono a far parte dei servizi di collaborazione con l’armata inglese fino alla fine della guerra, dopo di ché furono autorizzati a rientrare nei loro paesi: cittadini d’Albona rientrarono a casa.
Appena arrivati furono portati al comando militare del luogo ed interrogati; conseguentemente subirono una specie di processo con l’accusa di spionaggio al servizio degli imperialisti. Rimasero con noi tutta la notte dormendo a terra in nostra compagnia; all’alba ci mettemmo in colonna pronti a ripartire, loro invece furono prelevati e portati via.
Mettendoci in colonna mi accorsi che il mio vicino, arrestato perché sindacalista, stentò a mantenersi diritto; avvicinandomi mi disse di essere in difficoltà a camminare per una infezione alla gamba per un gonfiore provocato da un ascesso.
Ormai sapevamo che chiunque si trovasse nell’impossibilità di proseguire, diventava preda dei nostri guardiani della retromarcia che ebbero l’ordine di non lasciare vivi quelli che dovessero cadere. Perciò gli dissi di rimanere con me in mezzo al nostro gruppo pronto ad aiutare chiunque di noi in caso di necessità. Mi passò il braccio intorno al collo e nonostante la sua sofferenza, riuscimmo a mantenere il passo della colonna.
Fummo facilitati anche dal fatto che la strada da Albona verso Fiume fu quasi tutta in discesa; nella serata ci fermammo finalmente a Cepich dove dormimmo sull’erba al fresco della notte. All’indomani mattina, giorno 13 giugno, il mio amico fortunatamente riprese a camminare anche se zoppicando e con un po’ d’aiuto mantenne abbastanza bene l’andatura della colonna.
Nella serata arrivammo in prossimità di Laurana dove passammo un’altra notte in uno spiazzo, all’aperto. La mattina del 14 nuovamente in partenza per arrivare nel pomeriggio ad Abazia dove fummo rinchiusi nell’albergo Delle Palme, ormai devastato con le camere completamente vuote; ci fecero salire al quinto piano dove rimanemmo per altri tre giorni. Al secondo giorno di permanenza uno dei prigionieri a me sconosciuto si uccise buttandosi dal quinto piano nel cortile interno dell’albergo.
La mattina del 18 partimmo da Abazia lasciandoci alle spalle quelle camere piene di pulci che ci resero la vita quasi impossibile. Prima di sera, attraversando Fiume, alla sua periferia fummo accolti nel campo di concentramento di Sussak dove rimanemmo per quattro giorni.
In questo campo trovammo molti prigionieri tedeschi ridotti a pelle ed ossa dalla fame. Pur non trovandoci in quelle condizioni, notammo una preoccupante riduzione del numero dei pasti, anche se furono sempre formati da brodaglia.
Eravamo oramai sulla strada per l’Est e cominciarono così gli interrogativi su quale potesse essere la nostra nuova destinazione dal momento che eravamo già fuori dei confini nazionali ed in mano a carcerieri privi d’ogni considerazione per la vita umana. Ogni tanto qualcuno di loro venne tra noi e con disprezzo ad alta voce, oltre le solite parolacce, ci ricordò il nuovo detto: non più Roma "caput mundi" ma…Belgrado!
Ricominciammo a considerare la eventualità di organizzare una fuga, ciò per due motivi: il primo fu il timore di allontanarci troppo dalla nostra terra: in seguito sarebbe stato tutto più difficile; il secondo, che un’eventuale fuga in un gruppetto ristretto forse non sarebbe stata notata dal momento che non eravamo stati ancora schedati. Nemmeno loro seppero quanti fossimo in quel momento e quindi non ci sarebbe stata alcuna rappresaglia sui rimasti.
Al centro del campo, che una volta doveva essere un silo, ci fu una buca larga probabilmente provocata da qualche esplosione. Un amico del gruppo poté intravedere al fondo, sotto a dei sassi sistemati alla rinfusa, un’arcata di cemento e malgrado ci fossero anche dei massi abbastanza grossi, capimmo che quel passaggio avrebbe potuto condurre a qualche galleria.
Ci mettemmo d’accordo per ispezionare il luogo solo in due per precauzione, perciò scegliemmo di dormire vicino al ciglio della buca. A notte inoltrata, quando fummo sicuri, scivolammo oltre il bordo e lentamente arrivammo nel punto prestabilito cominciando a spostare i sassi per aprirci il varco appena sufficiente per lasciarci passare. Entrammo così in una galleria di cemento armato abbastanza stretta; iniziammo a percorrerla scegliendo il ramo di destra in modo da trovarci verso la strada principale in direzione del mare. Dopo pochi metri nel buio, intravedemmo il debole chiarore dell’uscita. Restammo fermi qualche secondo in silenzio; fu un bene, perché sentimmo provenire dall’esterno un rumore di passi seguiti dalla sagoma di una sentinella con il fucile sulla spalla messo di guardia all’uscita insieme con un collega che incrociò con il solito passo cadenzato.
Ci rendemmo presto conto che quella via di fuga ci fu preclusa; ci voltammo tornando indietro avendo cura di coprire il passaggio accuratamente con le pietre in modo che non potesse venire scoperto da un eventuale sopralluogo.
Fallito il tentativo di fuga, dovemmo accettare a malincuore il succedersi degli eventi. Il giorno 22 giugno nuovo incolonnamento e partenza dal campo verso la stazione ferroviaria. Questa volta fummo molto più numerosi perché si aggiunsero altri prigionieri italiani ed un folto gruppo di tedeschi; ci caricarono sui carri bestiame e partimmo. Il tragitto però si ridusse a pochi chilometri causa un’interruzione dei binari: continuò così la marcia a piedi.

DA SUSAK A MITROVIZA

La nostra nuova destinazione, da voci confuse che girarono, doveva essere la città di Nova Gradiska; fu invece Srem. Mitroviza. Il percorso fu caratterizzato da una feroce decimazione a causa delle malattie, fame, parassiti che non ci davano requie e la stanchezza per le marce forzate. Passammo per paesi sconosciuti con nomi difficili da ricordare, perciò parlerò solo di quelli che dopo tanti anni sono rimasti indelebili nella mia memoria; descriverò certi percorsi e fatti accaduti ma isolati omettendo episodi che mi sono rimasti offuscati o non chiari.
Eravamo nella zona di Ugolin quando prendemmo la strada per Karlovaz, ma data l'ora tarda facemmo una sosta notturna nelle campagne vicino alla località di General Stol. Al mattino continuò l'intimidazione con la sveglia dataci al suono di fucilate, con gran divertimento delle guardie; ma i colpi non furono tutti diretti in aria: qualcuno di noi rimase a terra colpito. Questo sistema continuò tutte le volte che fummo costretti a bivaccare di notte nei boschi o in aperta campagna.
Ci rinchiusero in un baraccamento nei pressi della città. Su un lato del campo trovammo una casotto, allestito probabilmente da chi ci precedette per assolvere alle necessità corporali, che servì anche a noi. Ci avvisarono però che in caso di bisogno avremmo dovuto chiede il permesso, uno per volta.
Non n'approfittammo sovente anche perché con lo stomaco costantemente vuoto di quelle necessità se ne presentarono raramente. Alle nostre richieste arrivò puntualmente un ragazzo molto giovane ed armato con il compito di accompagnarci al casotto e prima d'arrivarci fermava l'interessato puntandogli la pistola alla tempia e dopo avergli chiesto l'età, gli promrtteva una pallottola per ogni anno dichiarato. Cosi per ognuno di noi. All'indomani riprendemmo la marcia, senza mangiare, verso Sisak. Gli stimoli della fame aumentarono chilometro dopo chilometro. La colonna dei tedeschi, comandati da un maggiore che parlava discretamente l'italiano, continuò a marciare ancora ordinata ed inquadrata, ma ognuno badando a se stesso; senza solidarietà per chi rimaneva indietro e cadeva: ciò causò la perdita di molte vite. C'è da ricordare che loro furono in condizioni fisiche e morali peggiori delle nostre.
Per quanto ci riguardò però, nella nostra indisciplina e disordine schiettamente latino, fummo sempre solidali tra noi e ci aiutammo nel limite delle nostre forze e possibilità: malgrado ciò avemmo anche noi nostri morti, ma in numero inferiore.
A Karlovaz si aggiunsero, ancora una volta, altri prigionieri italiani e tedeschi e quando ripartimmo la colonna annoverò circa tremila anime. La fame può giocare brutti scherzi, però fa anche aguzzare l'ingegno: ci riunimmo in gruppetti (nel mio fummo in cinque, tutti di Pola e ben affiatati), ogni giorno uno di noi a turno ebbe l'incarico di procurare qualcosa da mettere sotto i denti, che poi si divideva.
La colonna di noi italiani sembrò ormai uno sciame di cavallette: dove passavamo, incuranti delle frustate dei guardiani, furono depredati i campi lungo la strada, di solito con un magro bottino consistente in patate, cipolle, piante giovani di granoturco e qualche frutto di qualche raro albero.
Ricordo un giorno - era il mio turno - vidi da lontano qualcuno che correva verso un albero che, aguzzando lo sguardo, erano mele. Mi strinsi bene la cintola dei pantaloni affinché la camicia mi facesse da sacco e corsi. Un gruppetto fu già sul posto affannato a raccogliere dai rami bassi quanta più frutta potesse e furono così veloci che chi sopraggiunse dopo ne trovo ben poca. Perciò non trovai niente di meglio che salire sull'albero che si presentò non molto alto.
I soldati della retromarcia ci videro: si buttarono nel campo e ginocchio a terra cominciarono a sparare; uno di loro con il mitra scaricò anche una raffica. Grazie alla loro pessima mira avemmo fortuna: vedemmo i rami spezzarsi e le foglie volare via, ma nessuno fu colpito, cosa che li fece infuriare.
Scapparono tutti come lepri; io purtroppo, dovendo scendere dall'albero e con la camicia piena di mele, fui l'ultimo a correre verso la colonna e con un soldato che mi corse dietro cercando di colpirmi con il calcio del fucile; entrato veloce nella colonna scattò l'ormai collaudata solidarietà: dopo il mio passaggio, dietro gli altri si chiusero impedendo al mio inseguitore di raggiungermi.
Il tratto di colonna percorsa per far perdere le mie tracce fu alquanto lungo e quando fui sicuro, rallentai rientrando nel mio gruppo. Quel giorno mangiammo mele.
Fu un periodo molto caldo con un susseguirsi di belle giornate, ma per noi fu un ulteriore prezzo da pagare perché il percorso da noi seguito non toccò quasi mai i centri abitati di una certa importanza. Ci accorgemmo che questo percorso, formato da strade in terra battuta in mezzo ai boschi, venne volutamente allungato di parecchi chilometri facendoci passare attraverso piccoli paesi e borgate sperduti tra vallate e colline con lo scopo di mostrarci ai contadini quale dimostrazione di vittoria finale.
Mancava l'acqua e la sete cominciò ad essere un tormento. Quando ci capitò di percorrere un tratto di strada fiancheggiato da un canale, non guardammo niente: tuffammo la testa nell'acqua e solo dopo aver bevuto ci accorgemmo che fu una pozza d'acqua verde stagnante piena di zanzare; ma in quel momento tutto era buono.
Una di quelle mattine arrivammo a Sisak; attraversammo la città nel silenzio più assoluto dei cittadini che assistettero al nostro passaggio. Arrivammo su un cavalcavia attraversante la ferrovia e sul terrapieno del ponte troneggiò quasi beffardo un altro bell'albero di mele; ma dovemmo tirare diritto perché alcuni soldati si fermarono proprio in quel punto.
Si sparse poi la voce che in coda alla colonna uno di due fratelli istriani tentò di prendere qualche mela dall'albero, ma una guardia lo colpì alla testa con il calcio del fucile e cadde per terra dove rimase immobile, mentre il fratello fu costretto a rimettersi in colonna ed a proseguire la marcia.
Attraversato il centro abitato, sostammo per la notte in una fattoria in disuso: una porcillaia dove ci chiusero nelle cellette dei maiali e lì dormimmo.
Ripartimmo al levare del sole, ma ormai per la stanchezza ed il sole, la colonna rallentò la marcia perdendo molti sventurati, perdemmo il senso del tempo e dell'orientamento. Si seppe solo che la nostra meta fu la città di Nova Gradiska.
Ad un certo punto del percorso, dovemmo attraversare un fiume di modeste dimensioni passando sopra una passerella provvisoria e traballante. Visto il tempo necessario che avremmo impiegato per attraversarlo, ci concessero di passare anche nell'acqua vista la sua modesta profondità. Fu un refrigerio provvidenziale per noi che accumulavamo polvere e sudore: ci servì anche per annegare parecchi parassiti.
Attraversammo una borgata con gran parte di noi coperti solo dalle mutande con il resto degli indumenti appesi a delle frasche perché si asciugassero. Passammo, credo, sull'unica strada in mezzo alle case con la gente ai lati silenziosa ed incuriosita. Trovo doveroso affermare che durante gli attraversamenti degli abitati ci guardarono sempre ammutoliti ma non dimostrarono mai segni d'ostilità nei nostri confronti; anzi, in un caso notai una donna anziana con le lacrime agli occhi e con le mani giunte in segno di pietà.
Finalmente all'indomani mattina, quella marcia straziante finì in prossimità del paese di Jasenovaz; ci chiusero in grandi baracconi lungo la ferrovia e finalmente ci diedero un pezzo di pane di mais e un po' di brodaglia. Il pane era un po' raffermo e dovemmo inzupparlo perché i denti persero l' abitudine a masticare.
Come per le soste precedenti, anche in questa si presentò un ufficiale - mai lo stesso visto che ogni venti chilometri circa i nostri guardiani si dettero il cambio - riproponendo, in belle maniere, la solita richiesta per sapere se ci fossero ufficiali italiani fra noi con la solita storiella della loro necessità di istruire le truppe.
Il mio amico, che come ho detto prima, fu un ufficiale della milizia e che con i consigli miei e del nostro gruppo non si espose mai, mi si avvicinò e mi disse con voce stanca, viste le condizioni in cui ci trovavamo, di voler tentare quella strada. A nulla valsero i nostri tentativi per dissuaderlo: era ormai deciso. Si diresse verso l'ufficiale e disse "io sono un ufficiale italiano": lo accompagnarono fuori dalla baracca e non lo vedemmo più.
Quella fu l'ultima che vennero a cercare ufficiali italiani: sarebbe bastato tacere ancora una volta e si sarebbe salvato. Quando tornammo a casa, da quanto riuscì a sapere, nessuno lo vide più né si ebbe notizia del suo rientro.
In serata ci caricarono nuovamente sui carri bestiame e partimmo senza conoscere la nuova destinazione. Nella notte ci fu una breve fermata del treno e potemmo vedere il nome del paese: Nova Gradiska . Viaggiammo tutta la notte, il giorno successivo e la notte seguente per arrivare al mattino alla stazione di Srem. Mitroviza.

DA MITROVIZA A BELGRADO

Fu questa la nuova destinazione: scendemmo dai vagoni ed incolonnati ci fecero percorrere una strada lungo la ferrovia ed arrivammo in un nuovo campo di concentramento. Era molto grande delimitato perifericamente con un massiccio recinto in filo spinato; all'entrata, baracche di legno destinate una al comando del campo davanti alla quali fummo inquadrati, un'altra destinata alla cucina da campo, le altre dormitori per i militari.
Il resto del campo si presentò cosparso di pezzi di legno e lamiere: rimasugli di campi precedenti e demoliti. Il comandante del campo ci diede il benvenuto raccomandandoci di rispettare scrupolosamente le regole per non incorrere in gravi punizioni, ci disse inoltre che avremmo potuto lavorare anche fuori dal campo, sulla ferrovia, scaricando i vagoni merci. Concluse il suo discorsetto autorizzandoci ad usare il materiale sparso nel campo per costruirci un riparo per la notte!
Ci mettemmo subito all'opera; il mio gruppo, i soliti cinque polesani, riuscimmo a piantare in terra delle tavole in modo da avere tre lati chiusi più la copertura dello stesso materiale, inoltre disponevamo di un'unica coperta.
Descrivo brevemente la vita del campo: i pasti furono due al giorno (mezzogiorno e sera) di sola brodaglia fatta con sostanze grasse che, dall' indicazione delle scatole di provenienza, risultò essere grasso di bisonte americano: tale alimento, date le nostre condizioni fisiche, fu fatale per molti. L'acqua la potevamo attingere da un pozzo vicino alla cucina. In occasione di tali pasti fummo inquadrati in fila dai sorveglianti.
Un fatto sgradevole accadde sin dal primo giorno e che si ripeté tutti i giorni che seguirono in occasione della distribuzione del rancio: il più giovane dei nostri guardiani - poco più che un ragazzino - scelse la sua vittima tra i soldati tedeschi, il più anziano di tutti; un uomo di statura sotto la media , magrissimo e curvo sulla schiena. Durante la distribuzione dei pasti, l'obbligava a correre attorno alla cucina frustandolo e quando cadeva lo prendeva tutte le volte a calci tra il divertimento e le risate sguaiate degli altri guardiani.
Causa le nostre condizioni fisiche e il tipo d'alimento che fummo costretti a consumare, cominciammo ad avere i primi morti, di conseguenza ci assegnarono una parte del campo non occupata per poterli seppellire: ogni giorno dovemmo aggiungere qualche croce.
Un giorno arrivò un fortissimo temporale con scrosci violenti d'acqua e fulmini; uno di questi si scaricò sul campo in mezzo a noi, uccidendo un ragazzo italiano che non conobbi, ma mi dissero che era un marinaio che si aggiunse a noi in località di Sisak.
Nei primi giorni un gruppetto di prigionieri tentò la fuga in occasione di un uscita per lavorare: la libertà durò poco perché dopo qualche ora furono ripresi e portati al campo. In quell'occasione ci radunarono tutti davanti alla baracca del comando: da una parte gli italiani dall'altra i tedeschi in mezzo passarono i fuggitivi: cinque persone. Il comandante del campo parlò in italiano, mentre un altro soldato tradusse per i tedeschi. Affermò che i fuggitivi con quel gesto commisero un grave reato passibile di morte, volle però essere indulgente, ma fu chiaro nel promettere - se il fatto si fosse ripetuto - che avrebbe ucciso cinque prigionieri per ogni fuggitivo. Fummo contenti che i cinque l'avessero scampata bella e ci mettemmo il cuore in pace rinunciando ad ogni velleità di fuga.
Dopo qualche giorno c'inquadrarono per una schedatura completa di tutti i presenti nel campo: sapemmo così che dei tremila uomini partiti da Karlovaz (circa mille italiani e duemila tedeschi), arrivammo a Mitroviza in 520 italiani mentre per i tedeschi non conoscemmo il numero, ma confrontando i due gruppi il loro numero fu inferiore al nostro. C'è da aggiungere che alla decimazione che subimmo contribuì anche una epidemia pidocchiale. In quell'occasione ci chiesero quale fossero le nostre capacità e quale era il nostro mestiere nella vita privata: saltarono così fuori meccanici, elettricisti, falegnami, ecc., mentre noi cinque - sempre più solidali - e molti altri, ci dichiarammo studenti senza mestiere. Il giorno dopo , tutti quelli che avevano dichiarato di avere un mestiere furono inquadrati e partirono.
Si seppe dopo che furono mandati nelle campagne a zappare le piantagioni e in molti casi furono maltrattati dai loro guardiani: rientrarono in Italia un mese dopo di noi.
Alcuni raccontarono delle sevizie subite, botte calci e pugni. Qualcuno di questi malcapitati fu costretto cantare "bandiera rossa" al suon di frustate.
A noi italiani rimasti in campo chiesero, dopo qualche giorno, se volevamo fare un bagno nel fiume: rispondemmo di sì tutti perché n'avevamo urgente bisogno. Dopo qualche chilometro di marcia e ben scortati, arrivammo in riva alla Sava, fiume molto grande e tranquillo. Ci lavammo finalmente con entusiasmo ma, data la bassa temperatura dell'acqua, iniziammo presto ad uscire. Ma con sorpresa vedemmo i nostri sorveglianti che con i mitra spianati sulla riva ci obbligarono a rimanere in acqua. In quel momento passarono nelle nostre menti i pensieri più neri, perché ormai ci rendemmo conto che poteva accaderci di tutto. Per fortuna si trattò della solita bravata intimidatoria: dopo circa un'ora, indirizziti dal freddo ci fecero uscire tutti tremanti e non solo dal freddo.
La paura di quel momento fu anche causata dalla notizia, avuta da alcuni contadini, che in quel campo furono fucilati prima del nostro arrivo parecchi partigiani italiani, probabilmente non comunisti. Non abbiamo potuto avere altri contatti con quella gente per poter conoscere i particolari e la motivazione dell'accaduto.
Oramai il calendario non ebbe più significato per noi ma credo che la nostra permanenza in quel campo si protrasse per otto o dieci giorni. In uno degli ultimi (forse il 12 luglio) arrivarono al campo due partigiani italiani in divisa chiedendo se tra noi ci fossero anche degli istriani: furono mandati verso il nostro gruppo. Li riconobbi: erano due ragazzi di Rovigno, miei amici d'infanzia.
Appena mi videro mi strinsero la mano e vollero sapere della nostra situazione, dopo di ché ci spiegarono il motivo della loro visita. Di servizio al comando della città, vennero a conoscenza dell'arrivo di prigionieri italiani e sapendo che, per l'intervento di una commissione inglese, era stato emanato l'ordine da Belgrado per il nostro rimpatrio, vollero darci la bella notizia. Grazie a questo ordine poterono entrare nel campo anche per cercare qualche conoscente: cosa che avvenne. Ci salutammo con molta gioia dandoci appuntamento in Italia, purtroppo non immaginavamo che il peggio doveva ancora arrivare dopo il nostro rientro!

RIMPATRIO!

Il 14 di luglio di sera, ci fecero salire sui soliti carri bestiame e partimmo per Belgrado, dove arrivammo in mattinata. Scendemmo alla stazione di Zemum e percorremmo il ponte sul fiume Sava proprio dove si congiunge con il Danubio.
Attraversammo Belgrado fino all'estremità opposta e dal giro vizioso che ci fecero fare, capimmo che la loro fu una dimostrazione di vittoria di fronte alla popolazione.
La gente non sembrò entusiasta, rimase indifferente e incurante delle esibizioni dei nostri guardiani di scorta che si sfogarono spingendoci e gridando improperi nei nostri confronti. Non potrò dimenticare una donna che venne verso la colonna, levò dalla borsa una pagnotta di pane e la porse perché qualcuno dei prigionieri la prendesse, ma non riuscì nell'intento perché una delle guardie subito l'aggredì gettandola a terra colpendola poi a calci.
Noi purtroppo abbiamo solo e potuto assistere a quella cruda scena e dovemmo proseguire.
Ritornammo a percorrere in senso contrario le strade della città e alla fine imboccammo un viale che portava fuori dal centro abitato e dopo qualche chilometro in un campo di concentramento nella borgata periferica chiamata Zeleznik. In questo campo trovammo altri prigionieri italiani che vedendoci vollero sapere da dove venivamo.
Sentito il nostro racconto, narrarono con brevi parole il loro calvario: furono soldati che combatterono in Russia, nell'ARMIR. Fatti prigionieri dai russi, a guerra finita furono da questi equipaggiati con carri e viveri per una lunga marcia di ritorno verso l'Italia, ma arrivati a Belgrado, le truppe jugoslave sequestrarono tutto quello che avevano e li rinchiusero in quel campo senza sapere quando avrebbero potuto rientrare a casa.
All'indomani fummo chiamati a raccolta da una commissione per la stesura e consegna dei documenti per il rimpatrio, consistenti in una autorizzazione di rientro su un documento della Croce Rossa Internazionale e di un secondo documento scritto in lingua inglese.
Il 17 luglio salimmo nuovamente sui carri bestiame, questa volta però con le porte scorrevoli aperte, ci diedero una pagnotta di pane di mais a testa e finalmente la partenza per l'Italia.
Questo viaggio durò quattro giorni. Passando per le zone collinari nei pressi di Lubiana che obbligarono il treno a rallentare, vedemmo nelle campagne lungo la ferrovia molti prigionieri italiani utilizzati a lavorare la terra; data la lentezza del treno e la mancanza di sorveglianza, incitammo qualcuno a salire sul treno e venire via con noi. Ma ci risposero di non poterlo fare perché anche per loro la rappresaglia sarebbe stata di cinque prigionieri fucilati per ogni fuggitivo.
La mattina del 21 luglio arrivammo alla stazione ferroviaria di Trieste: eravamo finalmente nella nostra Terra. Ad attenderci ci furono delle camionette degli Alleati che ci portarono ai Silos. Il 24 mattina prendemmo il vaporetto e nel pomeriggio arrivammo a Pola, dove allo sbarco ci furono i nostri parenti e molti amici ad attenderci: finalmente era finita.
Chiudendo questo racconto, il mio commosso pensiero va laggiù, dove rimasero sepolti in quelle straniere contrade ed in tombe senza nomi, i nostri meno fortunati compagni di sventura. Ora, dopo tanti anni provo un sentimento privo d'ogni senso d'odio e rancore, due componenti queste della vita umana che non dovrebbero esistere, perché chiunque abbia combattuto con fede ed onestà per la propria Patria (a qualsiasi ideale sia appartenuto) è degno di rispetto nei nostri ricordi, ma per quei barbari assassini che ci scortarono in quella marcia non ci può essere nessun perdono.