Ai nostri monti ritorneremo...

di

Neumann Antonio




“Pian della Secchia” o “Chabranska” se proprio desiderate. Non si attende altro che apra il Consolato Italiano a Zagabria per aver vidimato l’Atto di Opzione optando in tal modo per la cittadinanza italiana. Siamo ai primi di aprile del 1948 e le piste sono ancora innevate su al Monte Nevoso. E noi ci si va per un ultima scorribanda con gli sci, ultima di stagione e ultima perché si spera che, a giorni, si potrà lasciare definitivamente Fiume jugoslava. All’appuntamento in piazza Elena ci attende il camion coperto del Silurificio con i panconi sul pianale. Ci si sistema sulle rozze panche di legno deponendo gli sci ai nostri piedi, e tra i piedi infilo anche i miei perché come capo comitiva salgo davanti con l’autista. Il tragitto è quello “Delle 99 curve”. Nessuno le ha mai contate, credo, ma vengono chiamate così. Partiamo infilando il viale delle Camicie Nere già Corso Deah nel passato e chissà cos’altro nel futuro. Dietro a me, sotto al telone c’è silenzio, è il mattino presto e saranno tutti mezzo addormentati, inizia la sequela delle curve, si attraversa Clana deserta a quell’ora, ecco la segheria accanto alla quale, con la G.I.L., si facevano i campeggi. Ed ora si sale lungo la stradale, verso il Passo della Morte, chiamato così perché lì si incanalava la fredda bora invernale e qualche volta le guardie confinarie erano state trovate morte assiderate. La breve galleria e poi, la piana ancora innevata di Ermesburgo con radi alberelli stenti, proprio là la bora s’accanisce violenta, libera da ostacoli, ai lati le prime pinete, la casa dei guardacaccia della riserva e poi l’ultima salita, sempre sulla stradale, verso il Pian della Secchia dove un tempo si trovava il bel Rifugio “Emilio Rey” del C.A.I., ora una rovina di pareti mozze e travi bruciate. Lasciamo la stradale e percorrendo un breve tratto dissestato sulla destra, ci fermiamo tra gli alti pini. Tra essi scorgiamo il rudere e, di fronte, il nuovo rifugio riattato da noi in un’alloggiamento militare meno intaccato dalla furia di coloro che lì ha portato distruzione e forse anche morte.

La frenata di arresto scuote il mio carico da cui si levano brontolii e proteste, dormivano proprio alla grande. Scendo dalla cabina del camion e attendo il mio turno di recuperare sci e racchette dal mucchio e poi ci si dirige tutti insieme verso il rifugio, Bruno Seberich, il custode, ci viene incontro, il vecchio Bruno, già alpino nell’esercito italiano, già pluricampione a livello nazionale nelle competizioni sciistiche di fondo. Mi saltellano intorno Tom e Fida, i due cani lupo miei amici di vecchia data. Specie Tom che non smette di posarmi le zampacce sulle spalle e leccarmi le guance con le sue ruvide linguate. Dentro al rifugio ci accolgono la moglie di Bruno, Anita e i figli, Sergio e la piccola Pinuccia. Ora tutti a sedere intorno ai rozzi tavoloni per sorbire una tazza di caffelatte bello caldo. E poi i ci si ritrova al limite della vasta conca nevosa, intenti a calzare gli sci dandoci fastidio a vicenda con le “tavole” o “legni”, chiamiamo così gli sci, fa freddo e le dita che regolano gli attacchi degli scarponi si appiccicano al loro metallo. Infine la prima discesa, giù verso il centro della conca, io ho Tom che corre a falcate sulla neve accanto a me, mi salta davanti a rischio di farmi cadere, è un giuoco che abbiamo fatto tante volte assieme.

Vedo che si dirigono tutti verso il “trampolino degli alpini”. Hanno deciso di celebrare così quest’ultima giornata, con i salti. Si tratta di un trampolino costruito in tempi lontani dai militari di confine per lanci al massimo di 30 metri. Ma per divertircisi va benissimo. Iniziano i più pratici, i più scatenati, io non l’ho mai fatto e cosi parecchi altri del gruppo, ma veniamo presi tutti dall’euforia generale e mi lancio anch’io, dapprima con prudenza mantenendo le racchette (bastoncini) e poi liberandomene, e volando in aria come gli altri. La neve qui è profonda, bella e polverosa, accoglie come un abbraccio chi cade tra le risate. Il cielo sopra di noi è azzurro intenso, è aprile e si sente il tepore del sole. Presto anche le ragazze si uniscono a noi, dapprima riluttanti, poi gioiose. Quando cadono non riescono a risollevarsi, mani maschili si affrettano a rimetterle in piedi, mi sa che parecchie cadano a bella posta. Poi scorgiamo a distanza Sergio Seberich che si dirige verso di noi gesticolando e gridando: “Tra poco si mangia, tra poco si mangia!” . E’ trascorsa rapida la mattinata. Raccogliamo le racchette ed i guanti abbandonati qua e là e ci avviamo verso il rifugio. Ora, per raggiungerlo c’è da affrontare la salita, per le ragazze è dura, scivolano indietro, ogni tanto un gridolino e una mano maschile che le tira su a se.

Siamo di nuovo tutti seduti attorno ai tavoloni, dentro al rifugio. Anita e Pinuccia si danno da fare a distribuire i piatti colmi di minestrone fumante e Bruno e Sergio arrivano con i fiasconi di vino. Dovranno alternarsi spesso in questo compito, le nostre gole sono arse, un po’ per la sete, un po’ per i sonori richiami da un tavolone all’altro. Dapprima in sordina e poi mano a mano sempre più forti si levano i nostri canti e più rapidamente si svuotano i nostri bicchieri. Siamo ai brindisi, soprattutto per la nostra Fiume che siamo in procinto di lasciare per sempre, ci si accosta alla ragazza se non del cuore, dell’amicizia, scoccano i bacetti sulle guance rese rosse dalle fatiche sulla neve nella conca, in rari casi dalla timidezza. E si canta, si canta “Ai nostri monti, ai nostri monti ritorneremo ….”, “Val più un bicer de dalmato che l’amor mioooo!” “Le mule de Parenzo ga messo su bottega …..” . Arrivano di nuovo Anita e Pinuccia che sbaraccano e poi ritornano con i secondi. E riecco altri fiasconi posati sul legno grezzo della tavola ormai intrisa. E poi ancora canti: “O Fiume tu sei la più bela, o Fiume tu sei la più forte ……”, “Saliremo sul Monte Maggiore, sentiremo la banda suonare …….” “Cantime Rita, cantime bela …… “, le voci si fanno ormai roche.

Poi qualcuno ci chiama con voce stentorea: “Venite qui, venite qui, venite a firmare per l’ultima volta il librone delle visite al rifugio.”. E’ aperto su una pagina nuova, sul margine superiore, in grande e stampatello la scritta: “AI NOSTRI MONTI RITORNEREMO!”, sono tra i primi ad apporre la mia firma e poi gli altri che si affollano alle mie spalle spingendomi a lato. Guardo l’orologio, si è fatto tardi, è tempo di ripartire. Non si finisce di abbracciare e baciare i componenti della famiglia Seberich, poi come dio vuole ci muoviamo verso il nostro camion. Rimaniamo esterrefatti, con il tepore della giornata si è sciolto il ghiaccio e il nostro mezzo è affondato nella melma fino ai mozzi delle ruote. Ed ora? Tutti mi guardano, non sono io il capo comitiva? Teniamo un conciliabolo tra l’autista, me e Bruno e Sergio Seberich sopraggiunti nel frattempo. Mettiamo tutti, uomini e donne a strappare rami dai pini circostanti, salta fuori una pala e liberiamo dal fango le ruote. Poi ci mettiamo ad infilare a forza i rami sotto alle ruote anteriori e posteriori, è un bel lavoro. Ci sono i soliti male auguranti che insinuano: “Dovremo trascorrere la notte nel rifugio.” Poi formiamo due gruppi. Un gruppo, femminile, si arrampica sul pianale nella sua parte posteriore per fare peso sulle ruote motrici. L’altro, maschile, si pone dietro al camion disponendosi ad una spinta. Con voce tremante do il “Viaaa!”. Le ruote motrici per un attimo girano a vuoto ma poi prendono lentamente mentre noi infiliamo freneticamente altri rami di pino sotto alle ruote in movimento in modo da non farci mancare la presa, tra spinte sul retro e l’apporto dei rami il camion procede lentamente verso il manto della stradale con le ragazze a bordo che strillano allegramente come tante oche. Siamo infine sul solido manto della stradale, Si rimonta tutti a bordo e via giù verso la piana di Ermesburgo. Passata la galleria, sorpresa!! Nebbia fitta. Succede in questa stagione. Ed è fitta, proprio fitta con si e no un due, tre metri di visibilità. E in tutto questo tempo è scesa anche la notte. Alla nostra sinistra ci sono le pareti della montagna, alla destra il dirupo che scende a valle. L’autista mi guarda, ed ora? Cessano i canti sotto al tendone. “Perché ci siamo fermati?. Che succede?”. Scendo dalla cabina dicendo all’autista di suonare il clacson quando finisce di vedermi e prendo a camminare sulla strada tendendomi in mezzo ai due lati che scorgo nello spazio illuminato dai fari. Quando la vista dei lati diventa indistinta mi fermo e grido al guidatore di seguirmi lentamente, sarò a un quattro, cinque metri dal mezzo, mi incammino, il camion mi segue, accelero i miei passi e mantenendo quella velocità procediamo, sotto al tendone si sono zittiti. Scendiamo a lungo in tal modo, immersi nel mare di nebbia che, come raggiungiamo la segheria di Clana, scompare ed io posso risalire in cabina. Sotto il tendone rimane ora solo il mormorio di conversazioni.

A Napoli, circa due anni dopo. Ci sono con il “Conte Biancamano” alla banchina del Marittimo. Siamo arrivati al mattino presto, ripartiremo nel tardo pomeriggio per Lisbona, Halifax e quindi New York. Scendo a terra e con un taxi mi faccio portare a Capodimonte dove c’è un centro di raccolta per i profughi. L’edificio è ampio, forse, in precedenza una caserma o una scuola. Come entro dentro vengo accolto da un vivace brusio di voci e da un gran via vai di persone, anziani, di mezza età e soprattutto bambini che corrono strillando per i corridoi. All’ingresso ci sono degli uffici e chiedo ad una incaricata dove si trova, in quel ronzante alveare la famiglia Seberich. Mi si dice che non la troverei mai da solo, ferma al volo un ragazzetto e gli da l’indicazione, salgo non so per quante scale che si aprono in ampi corridoi fintantoché la mia guida si ferma davanti ad un stanzone, vi entro, esso è diviso da una corda dalla quale pendono a fungere da pareti, le grigie coperte militari del Regio Esercito. Ci sono persone sconosciute. “I Seberich?” “Sono di là” è la risposta. Mi faccio strada tra una coperta e l’altra ed ecco Bruno e Anita Seberich in uno stretto spazio, un fornello intorno al quale si agita Anita, un tavolo, due brande di ferro accatastate alla parete, dei bauli sovrapposti, due seggiole, su una di esse è Bruno il quale quando mi vede mi abbraccia e poi si volge anche Anita per vedere chi è il visitatore. Ora si metteranno a piangere per la loro triste condizione, penso. Invece no, sono esultanti e mi ricoprono di domande, parlano confusamente, “Si!” mi dicono poi, siamo stati qui da più di un anno, è stata dura ma ora, a giorni, usciamo e ce ne andiamo a Roccaraso dove il C.A.I. ha costruito un rifugio sul monte Aremogna e lo ha affidato alla custodia di Bruno. E che ne è di Sergio e Pinuccia? Sergio fa il militare negli Alpini nel Battaglione Sciatori del Cervino, Pinuccia si è sposata e con il marito fiumano sono andati in Australia. E Tom e Fida, cosa ne è stato di loro? Fida e qui, c’è una specie di canile per loro, ogni bestia ha una sua cuccia. Io, mi informa Bruno, gli porto da mangiare e lo porto fuori a passeggiare ogni giorno. Tom è morto purtroppo, portarlo con noi era pericoloso, lo volle un ufficiale dei partigiani, io glielo consegnai con la museruola e la cinghia ma quando feci per allontanarmi Tom si avventò su di lui, per allontanarlo da se l’ufficiale lo afferrò per la museruola sfilandola così dal cane che lo addentò ad un braccio, quello estrasse la pistola dalla fondina e gli sparò. Poi Bruno mi disse: “Lo sai il pasticcio che mi combinaste su, al Pian della Secchia, quell’ultima volta che ci veniste a sciare?” Ho sentito qualcosa, risposi. “Due giorni dopo giunse al rifugio una macchina con dentro due poliziotti, chiesero subito del librone delle visite al rifugio con le firme delle visite. Fu dura. Erano due tosti, il loro italiano era stentato. Insistevano sul significato di quel "Ai nostri monti ritorneremo" e poi, insoddisfatti, si misero a vagliare le firme apposte con dei loro elenchi. Interrogarono anche i miei. Non se ne andavano mai. Al di fuori Tom e Fida abbaiavano e si agitavano inquieti. Mi chiesero anche del nome del capocomitiva. Il tuo, dovetti dirglielo. Scrutarono a lungo i loro elenchi, scuotendo la testa. Staccarono la pagina incriminata dal librone. Accennai ad una protesta e mi minacciarono di portarmi via con loro. Dovetti uscire prima io a tenere fermi i cani. Finalmente se ne andarono con la loro macchina. Qualche giorno più tardi fui convocato alla vecchia questura, a Fiume, mi chiesero ancora chi fosse stato l’autore della scritta in stampatello. Fui diffidato, dovevo controllare i miei ospiti e se c’era qualcuno o qualcosa che non andava, prendere i loro dati e gli indirizzi facendogli recapitare al più presto.”

Lasciando Capodimonte ripenso, già, “Ai nostri monti ritorneremo”, quel giorno eravamo giovani, euforici, a quei monti non siamo ritornati più, chissà con i ricorsi del tempo, un giorno forse. I nostri monti , il Nevoso, il Lisina, l’Alpe Grande, il Monte Maggiore che continuano a specchiarsi sull’azzurro del Quarnero.