Zara

Un sestiere veneziano

tratto dal libro

"L'esodo dei 350 mila giuliani, fiumani e dalmati " di Padre Flaminio Rocchi

Zara è una penisola rettangolare, lunga 1.300 metri, larga 500: un'ala, ingioiellata di tesori d'arte, posata sull'azzurro del mare, incorniciata da tré rive bianche. Era un'isola ma, nel 1600, l'attaccarono alla terraferma con un ponte che poi si allargò in un parco di alberi e di fiori. La sua popolazione raggiunse nel 1913, sotto l'Austria, il massimo di 33.640 abitanti. Attraverso i secoli si è sopracaricata di storia, di arte, di commerci come una metropoli.


E stata la più corteggiata fra le città adriatiche. Cominciarono gli illiri che nel IV secolo a.C. la chiamarono "Idassa". Un'iscrizione del 384 a.C. ci dice che i greci della colonia Pharos (Lesina) aggredirono gli "Jadasinoi". Arrivarono quindi i romani che la chiamarono "Jadera" e nel 59 a.C. la elevarono a municipio. Lo stesso Cesare Augusto le impose un'urbanistica romana col cardo (Calle Larga), col decumano (Via Roma), col foro, nel cui centro si erge una colonna che nel medioevo serviva da berlina, con il teatro, e la fasciò di mura e di torri. Una lapide del primo secolo, dice: "Augusto, figlio del divo Cesare, padre della colonia zaratina, fece costruire le nuove torri". Molti legionari si innamorarono delle donne zaratine e fondarono una prima colonia latina. Dalla lontana Bisanzio arrivò l'imperatore Costantino Porfirogenito che la chiamò "Diadora" e la fece capitale della Dalmazia e sede del governatorato. Nell'810, dopo la pace di Aquisgrana, Zara diventò la capitale della Dalmazia bizantina e la sede del proconsole della Dalmazia.

Insidiata dai pirati e dai croati, nel 991 chiese ed ottenne la protezione del Doge Orseolo II. Venezia comprese subito il valore della sua posizione commerciale e militare. Incastonò nelle sue mura una ventina di Leoni. In un diploma del 1002 l'imperatore Enrico II si rivolse al Doge Pietro Orseolo II e lo proclamò "Dux Venetiae et Dalmatiae". In un documento del 1155 il Patriarca Enrico Dandolo si firmò "Primate della Dalmazia". Nel 1107 arrivò con i suoi grossi cavalli ungheresi il rè Colomanno. Per quasi un secolo i veneziani ed i magiari duellarono per il possesso della bella "Diadora" finché nel 1202 il Doge Enrico Dandolo, incaricato dalla cristianità a condurre la IV crociata, assediò per 14 giorni, con i crociati, la città, provocando saccheggi e distruzioni. Il Papa lo castigo con la scomunica. Dopo 40 anni rè Bela d'Ungheria, inseguito dai Tartari, occupò la città, ma nel 1243 Venezia lo cacciò. Zara non sopportava la protezione e l'orgoglio opprimente di Venezia. Nel secolo XII si diede un governo aristocratico. Nel 1346 resistette per 18 mesi all'assedio di Marco Giustiniani. Cercò appoggio presso la regina Elisabetta d'Ungheria nel 1382, presso Sigismondo di Luxemburgo nel 1386 e addirittura a Napoli, il cui rè Ladislao ricevette il 5 agosto 1403 a Zara la corona di rè d'Ungheria. Venezia, mercante, comprese il debole di questo rè e con 100 mila ducati d'oro il 9 luglio 1409 ricomperò Zara, la quale le restò fedele per 388 anni.

Zara si trasformò in un sestiere ricamato con 72 calli e 15 campielli, in un salotto del dolce dialetto veneziano, tra due poderose porte del Sanmicheli: quella di Terraferma, con un grande Leone marciano al quale una martellata slava ha spaccato nel 1945 le zampe, e quella Marina, con un S. Grisogono a cavallo. Quando quel "tremendo zorno del dodese maio 1797 la Serenissima cadde definitivamente, i veneziani gridarono al Doge: "Viva S. Marco. Tote suso et corno e andè a Zara"" (prendete il cappello e rifugiatevi a Zara). All'avvicinarsi degli austriaci, 6 luglio 1797, gli zaratini ammainarono in fretta i gonfaloni marciani, li benedissero, li baciarono e li deposero sotto l'altare della cattedrale.

Nel 1910 Luigi Federzoni, poi presidente del Senato e dell'Accademia d'Italia, scriveva: "Venezia non partorì mai, nella sua lunga e copiosa maternità, figliola più somigliante di questa, ne più degna, ne più devota. Zara è adorabile. Zara dovrebbe essere in cima ai pensieri di tutti gli italiani.
Per il labirinto delle calli pittoresche formicola tanta festevole, graziosa e appassionata venezianita" ("Rivista Dalmatica" Voi. LVI). Nel secolo XVIII i cattolici albanesi, perseguitati dai musulmani, si rifugiarono a Zara e fondarono sulla terra ferma il Borgo Erizzo che raggiunse 3.830 abitanti. Nel 1805 arrivò sulle ali della vittoria di Austerlitz Napoleone, ma dieci anni dopo vi ritornò l'aquila asburgica. Alle 14,15 del 4 novembre 1918 alla Riva Nuova attraccò la torpediniera italiana 55. I trenta fanti furono accolti in ginocchio. I pompieri, correndo per le calli e per i campielli e suonando le trombe, annunziarono l'arrivo degli italiani. Un testimone scrisse: "l' emozione aveva bloccato la gola della gente. Udivo solo il rumore delle scarpe chiodate dei soldati battenti sul sasso duro della banchina ed i singhiozzi della popolazione". Dal municipio il sindaco Zibetto proclamò: "è il giorno più bello: quello che ci ha aiutato a salire il nostro calvario ". Una lapide fu posta a Porta Marina nel riquadro che fino al 6 luglio 1797 aveva ospitato un Leone di Venezia. Ma l'annessione ufficiale all'Italia avvenne soltanto col trattato di Rapallo del 12 novembre 1920. Nel 1944 gli slavi scalpellarono la lapide.

Anche la chiesa si innamorò di questa singolare cittadina dalmata, definita il "giardino dell'Adriatico ". Nel IV sec. vi mandò un vescovo, nel 1154 lo ornò con il pallio degli arcivescovi e dei metropoliti e gli sottopose i vescovi suffragane! di Veglia, Ossero, Arbe e Lesina. Il titolo di metropolita gli verrà tolto nel 1932. Lo stesso Papa Alessandro III visitò Zara nel 1177. Questo Papa, dopo aver scomunicato il Barbarossa e l'antipapa Vittore IV, fuggì, travestito, a Benevento, ma infine concluse la pace col Barbarossa a Venezia. Durante il viaggio via mare si fermò per la Settimana Santa a Zara e qui diede inizio a quella funzione che poi si divulgò in tutto il mondo con la denominazione delle "Quarantore". Zaratino è il Papa Giovanni IV (640-642) che trasportò a Roma le reliquie dei martiri di Salona e che "si interessò per il riscatto di istriani e dalmati caduti schiavi nelle incursioni degli slavi" (Enciclopedia Cattolica 1951). È sepolto in S. Pietro.

La religione adorno Zara di splendidi tesori d'architettura, di oreficeria e di pittura. L'antichissima chiesa di S. Donato è del IX secolo. È costruita sul lastricato romano in stile bizantino ravennate, con due piani di navate anulari e con tré absidi radiali. Fu costruita dal vescovo Donato con frammenti di colonne, architravi, fregi, lapidi provenienti da edifici dell'età romana. Nel suo interno corre una galleria, tipo matroneo, per i catecumeni, sostenuta da sei pilastri. Dal 1798 al 1877 fu adibita a magazzino militare. L'interno, diviso in più piani con grosse travature, era diventato un depostito di vettovaglie. Nel 1931 fu ripulito e trasformato in museo. È il monumento più suggestivo di Zara. Contiene una ricchissima collezione di oggetti dell'età della pietra e del bronzo, busti e statue di imperatori, cippi funebri, sarcofaghi, la pietra tombale del vescovo di Veglia, Giovanni Rosa, che provocò nel 1549 l'interdizione di tutte le chiese di Zara essendosi il clero locale opposto all'ordine papale di dare sepoltura al defunto nel Duomo.

Zara volle due patroni religiosi: la romana S. Anastasia e l'ebreo S. Simeone, e uno civile: il cavaliere romano S. Grisogono. Anastasia "era la più saggia delle fanciulle romane " (Bollandisti). Andò sposa per forza a un pagano. Aveva il suo palazzo a Roma sotto il palatino, dove si trovavano i granai imperiali e dove oggi sorge la basilica che porta il suo nome. S. Donato riuscì a portare da Sirmio a Zara le reliquie della martire Anastasia. Il titolo patronale della città era già occupato da S. Pietro, ma quando i crociati distrussero nel 1202 la sua cattedrale, gli zaratini ne costruirono una più bella dedicandola a S. Anastasia. L'edificio romanico ha una stupenda facciata pisana che si eleva su tré portali maestosi in una armonica fuga di arcatelle cieche ai lati dei due rosoni pieni di luce. Tra il fogliame di quello centrale c'è un curioso bambino alato che ruba gli uccellini da un nido. In alto domina il frontone triangolare. Per le dame zaratine gli architetti costruirono, sopra gli archi, due eleganti matronei, con profusione di colonnine, e, per i canonici, un coro di finissimo intaglio gotico fiorito. Il tempio è ricco di opere d'arte tra le quali sei quadri del Carpaccio. A fianco svetta un elegantissimo campanile neoromanico con quattro piani di bifore e una cuspide ottagonale. Iniziato nel 1452, fu ultimato nel 1892 dall'inglese T.G. Jackson.

I bombardamenti del 1943-1944 hanno distrutto il battistero ottagonale di S. Anastasia. Gli scavi del 1973 hanno rivelato una piscina cruciforme del V secolo. Sotto il pavimento della sagrestia è venuto alla luce un mosaico con due cervi.

S. Grisogono ("generato dall'oro") era molto ricco, contemporaneo ed amico di Anastasia. Lui abitava in Trastevere, dove oggi sorge una splendida basilica che porta il suo nome. I due si scambiarono una lunga corrispondenza spirituale. Quando lui fu trasferito ed imprigionato ad Aquileia, Anastasia lo seguì. Grazio Menicucci scrive che Grisogono "imprigionato nel secondo periodo della fiera persecuzione ordinata dal dalmata Diocleziano ed esiliato ad Aquileia, ivi avrebbe sofferto il martirio (fu decapitato). Le sue reliquie furono poi trasportate a Zara, in Dalmazia, ove sono ancora tenute in grande venerazione". Nel secolo X gli zaratini costruirono una basilica a tré navate in suo onore. Nell'interno, suggestivo e mistico, due file di colonne portano all'abside centrale sopraelevata, ai piedi delle statue dei Santi Patroni. L'altare maggiore fu costruito nel 1711 a seguito di un voto fatto durante la peste del 1652.

Anastasia aveva raccolto le ultime parole di S. Grisogono. E quando, per ordine dell'imperatore Diocleziano, le tré vergini Agape, Chionia e Irene furono deportate a Salonicco, Anastasia le seguì. Fu arrestata a Sirmio. Un sacerdote pagano la tentò con sfarzo di ori e di vestiti, la minacciò con flagelli, con caldaie bollenti, con lastre infuocate, ma inutilmente. Deportata nella città di Palmaria, fu legata a un palo sopra una catasta di legna e bruciata. Roma le dedicò una sontuosa basilica tra le imponenti strutture imperiali del Palatino e del Circo Massimo. La basilica romana di Trastevere, costruita dove abitava S. Grisogono, ha accomunato i due santi amici con due busti contenenti due reliquie. Così i due martiri romani hanno ripreso a Roma il loro colloquio spirituale di Zara attraverso le loro due chiese, che distano un centinaio di metri l'una dall'altra.

Nel x secolo vennero a Zara le monache di S; Benedetto e si rinchiusero nel chiostro di S. Maria. Il campanile lombardo fu costruito nel 1105 dalla badessa zaratina Cicca Vechenega la quale si era ritirata nel monastero, insieme alla madre, dopo l'assassinio del proprio padre Andrea. Con le monache vennero anche i monaci di S. Benedetto e si installarono nella Chiesa di S. Grisogono. Zara nel XIII secolo contava 26 chiese.

La città piacque anche a S. Francesco il quale, come dice un'antica pergamena, spinto da venti felici, "felicibus auris appulsus", la visitò nel 1212. Guarì la locale badessa benedettina e questa, per gratitudine, si fece clarissa con tutte le sue monache e gli regalò alcune vecchie casette che poi si trasformarono nell'attuale convento di S. Francesco. S. Bonaventura fondò a Zara, nel 1260, lo "Studium Generale" dal quale uscirono una decina di vescovi e molti uomini illustri come Girolamo Masci, che da ragazzo si trasferì con la famiglia da Ascoli a Zara e qui studiò, diventò guardiano, ministro provinciale, poi ministro generale, cardinale e papa con il nome di Nicolo IV (1288-1294). A Orvieto pose la prima pietra del Duomo. A Roma riparò palazzi e chiese e i romani lo elessero senatore e innalzarono un monumento sulla sua tomba nella basilica di S. Maria Maggiore. Zara è stata ed è tuttora un centro floridissimo dal quale il francescanesimo si diffuse in tutti i balcani. Oggi i francescani minori, in Jugoslavia, senza contare i conventuali e i cappuccini, sono 1437, distribuiti in 310 conventi. I rapporti tra i francescani osservanti, "de li zoccoli" ed i francescani conventuali, "de le galosce", non sono stati sempre serafici. Il 14 aprile 1454, mentre tutti i religiosi conventuali di Zara assistevano in cattedrale alla processione delle Palme - in casa era rimasto solo il cuoco - gli osservanti, per riprendersi il convento, ne forzarono la porta, vi si barricarono dentro e non fu sufficiente neanche la bolla di Callisto III del 22 agosto 1455 per sloggiarli.

Ma fu la regina Elisabetta a portare a Zara il gioiello più prezioso: l'arca di S. Simeone che Ivan Raos ("Croacia" 1974), pur ammettendo che è opera "del maestro milanese Francesco" anche perché firmata: "Hoc opus fecit Franci-scus de Mediolano", la definisce "opera magistrale della oreficeria gotica croata medievale".

L'arca è stata commissionata a Francesco da Milano (1377-80) dalla stessa Elisabetta per mille marchi d'argento. L'artista si servì dell'aiuto di scolari. È di pino, rivestita da una grossa lamina d'argento dorato di 250 chilogrammi, lavorata a sbalzo, con tredici scene della vita del Santo e della città. È lunga 2 metri, larga 0,80 e alta 1,25. La sostenevano quattro angeli d'argento che furono adoperati per pagare un tributo di 40.000 ducati d'oro a rè Sigismondo. Furono sostituiti nel 1647 con due angeli fusi col bronzo dei cannoni tolti ai turchi.

La salma di S. Simeone "giusto e profeta", trasferita dalla Palestina a Costantinopoli, fu rubata dai veneziani nel 1273. Una violenta bufera la portò a Zara. Fu deposta nella chiesa di "S. Giovanin". Poi passò in S. Maria dei Preti "tra le tombe dei nostri antenati". Nel 1571 fu trasferita in S. Maria delle benedettine, ma il 16 maggio 1632 fu composta nella splendida arca di Francesco da Milano e con una processione di 300 preti, con in testa tutti i vescovi della Dalmazia, fu deposta nella sua chiesa di S. Simeone. Per paura dei bombardamenti dell'ultima guerra, ritornò a rifugiarsi alla base del campanile delle benedettine. Il 5 settembre 1945 ritornò nella sua chiesa su un carro a mano. I lavori del 1984 hanno scoperto accanto alla chiesa di S. Simeone i resti di una precedente chiesa paleocristiana la quale ha offerto alla nuova l'intero muro meridionale con sette bifore.

La città aveva un'organizzazione classista in materia cimiteriale perché c'era il cimitero dei vescovi e dei preti, dei frati e delle monache, dei cattolici, degli eretici e dei greci ortodossi, degli appestati e dei giustiziati, dei militari e perfino. quello degli asini, detto "buso dei cani" dove "fu scaraventato il cadavere di un uomo che aveva rifiutato in punto di morte di ricevere i conforti della chiesa" (T. Ivanov). Il regolamento cimiteriale del 1938 vietava l'ingresso agli accattoni, ai vagabondi, agli oziosi, agli ubriachi, a persone non decentemente vestite e ai ragazzi non accompagnati da persone adulte. "È vietato fumare, condurre cani sia sciolti che al guinzaglio (art. 5) e l'uso di barattoli di latta (art. 23). Soltanto madre e neonato, morti all'atto del parto, possono essere chiusi nella stessa cassa" (art. 14). Nel cimitero c'è una piccola esedra militare con 89 loculi, allineati su quattro piani verticali. Ogni loculo è chiuso con una lapide di travertino ad arco che riporta i nomi dei singoli caduti.

Zara era un raffinato centro di cultura. Secondo l`annuario generale d'Italia del 1913 aveva un consolato generale d'Italia, sei banche, sette cambiavalute e sei librai editori. La biblioteca Paravia aveva 66.651 volumi, 780 manoscritti e 372 documenti membranacei. Il suo Archivio di Stato aveva una scaffalatura di 2.790 metri con 18.887 volumi e buste e 6.000 documenti singoli in pergamena (E. Lodolini). Quella del Liceo Ginnasio aveva 30.000 volumi e 287 manoscritti. Quella francescana possiede ancora preziosi manoscritti ed incunaboli del 1500-1520. Era una cultura aperta a tutti gli orizzonti, ma profondamente italiana. Lo stesso imperatore Francesco Giuseppe, sbarcando nel 1875, salutò la giunta cittadina in italiano dicendo: "Buon giorno, signori".

Dall'ansia di difendere ed incrementare su una difficile frontiera slava la civiltà italiana erano sorte a Zara ben sei accademie (G. Sabalich in "La Rivista Dalmatica" volume LV-1984). Nel 1562 si costituì quella degli "Animosi", definita "una nave che tra scabrose sponde s'insinua", con il motto "regna penetra intima"; nel 1665, quando Zara aveva solo 2.800 abitanti, quella dei "Cinici", dal greco "Kynikos", canino, e cioè di osservatori della morale "dal continuo latrar contro i vizi"; nel 1694 quella degli "Incaloriti" composta da giuristi astuti, medici di grido, preti consacrati e signore belle che, con stile nuovo, andarono all'assalto del vecchio barocco seicentesco; nel 1752 quella dei "Ravvivati" che aveva per scopo "l'esilio della pigrizia, la fuga dell'ozio, il pulimento dell'ingegno e il disprezzo de' diletti, giucchi ed altri piaceri contagiosi e mortiferi"; nel 1787 quella "Economico-Letteraria" che "dal sentimentalismo idealistico passava al filantropico. Non era tempo più di cicale, ma di formiche. La letteratura non era cosa da gittarsi alle ortiche, e bisognava diffonder le idee nella piccola possidenza"; nel 1793 quella "Economica Agraria" germinata dalla precedente quando "la Dalmazia era di nuovo spopolata. Su quattromilacinque-cento miglia quadrate di superficie, di coltivate ce n'erano solo settecento. IL morlacco soffriva sempre la fame; pochi matrimoni, carestia, migrazioni, mortalità, erano le sette piaghe del nostro Egitto". Il "Regio Dalmata" scriveva nel 1808: "Uve preziose danno vini, ma non durano; da olivi molti e mal coltivati scarso è il raccolto; v'è argilla, ma no pentola], no tegola], ne mattona]; v'è silice, ma non vetrai; v'è legna, ma non carbonaj, v'è pietra calcare, ma non forni a calce; vi sono miniere abbondanti di ferro che nessuno tocca; v'è carbon fossile, ma non vi sono fucine; pelli in quantità ma non conciatori; morchie d'olio, ma non saponaj, stracci senza cartone; sego senza sufficienti candela], ferro con pochi rozzissimi fabbri; legno, con pochi maldestri falegnami". Si usava allora dare a queste accademie nomi strani. A Venezia c'era quella dei "Flemmatici", dei "Frigidi", degli "Ubbriachi", dei "Disingannati", degli "Svegliati" dei "Disgiunti". Ce n'erano per la condizione di tutti. Alcune erano di "frivolo sfoggio di baie canore, di retoriche dicerie", altre hanno dato poemi, madrigali, satire, orazioni, epigrammi, altre una spinta per un risveglio artistico ed economico.

Giuseppe Madrich scrive nel 1892: "Nella via Larga vedete sfilare un mondo supremamente aggraziato: dame dal portamento principesco e maestoso, signorine vispe, gaie, slanciate come gazzelle, cavalieri galanti, perfetti, cortesissimi. Le mode più recenti, le stoffe più ricercate danno l'intonazione all'ambiente. È un gusto squisitissimo di toelette, da gareggiare con qualunque altro centro europeo. Perfino le sartine sfoggiano, nel loro vestitino, ricercatezza ed eleganza". Si esportavano ogni anno 300 mila bottiglie di maraschino. "Se ne beve alle tavole signorili della più alta aristocrazia d'Europa, se ne serve nei pranzi di gala a corte; se ne smercia in America, nelle Indie, nel Giappone, in China, in Egitto. Il suo grato profumo è una poesia, il suo sapore è un idillio. Nessun liquore al mondo può gareggiare con il maraschino di Zara".

Nel 1913 (annuario Ufficiale) Zara contava 33.640 abitanti, tré alberghi ("Brìstol ", "Grand Hotel de la Ville", " Vaporetto"), otto agenzie di assicurazioni, sei banche, sette cambiavalute, quattro farmacie, sei librerie, quattordici negozianti di vino, otto fabbriche di Maraschino (Luxardo, Vlahov, Drioli Salghetti, Calligarich, Millicich, Magazzin, Stampalia, Stanich), fabbriche di oli, paste, tabacchi, vetrami, cemento, cappelli, cera, pellami.

Il Regio Decreto N. 295 del 13 marzo 1921 riconobbe a Zara il regime di Zona Franca ed incrementò uno sviluppo eccezionale delle attività industriali, commerciali e artigianali che nel 1940 raggiunsero il numero di 731 (Istituto Centrale di Statistica). Nel 1936 aveva 22.000 abitanti residenti, così suddivisi in base alla condizione sociale: padroni 11,5 per cento, artigiani 22,7, operai 24,9, impiegati 13,6, dirigenti 0,9, liberi professionisti 0,6, persone di fatica e servizio 5,7, altri 20,1.
Nel 1935 produsse ed esportò 10.630 ettolitri di maraschino e di altri liquori, 2.000 quintali di sciroppi, 500 quintali di polvere insetticida, derivante dalla macinazione del crisantemo dalmata, 2.203 quintali di tabacchi, 35.000 quintali di pasta, 1.400 quintali di cioccolato, 11.919 quintali di pesce lavorato, 800 barili di sardine salate, 300 quintali di reti.

Alcuni nomi raggiunsero fama internazionale come Luxardo, Drioli, Vlahov, Zerauschek, Calussi, Sapri. Zara era collegata giornalmente da linee marittime con Ancona, Fiume, Pola, Lussinpiccolo, Trieste, Venezia, Bari, Brindisi, con porti jugoslavi, albanesi e greci e da linee aeree con Ancona, Lussinpiccolo, Trieste e Brindisi. Così - scrive Didi Salghetti Drioli - Zara "valorizzando inventività e coraggio, non solo è riuscita a creare ricchezza, ma anche a goderla sviluppando una vitalità sociale e culturale, forse un tantino epicurea, ma certamente superiore alle sue effettive dimensioni".

L'Enciclopedia italiana Treccani nel volume pubblicato nel 1949, alla voce Zara, dice: "la città fu sottoposta a ben 54 durissimi bombardamenti aerei angloamericani ed ebbe a subire gravissimi danni; oltre l'85% degli edifici fu distrutto o danneggiato; 4 mila cittadini vi lasciarono la vita; i superstiti, dopo I'8 ottobre 1944, completarono l'esodo, iniziato già un anno prima". Questa laconica epigrafe può costituire il titolo dell'ultimo, tristissimo capitolo della storia di Zara.

L'esame di centinaia di pratiche in seno alla Commissione Speciale dei danni di guerra presso il Ministero del Tesoro mi riporta tré volte alla settimana nelle sue case, nelle fabbriche, nelle chiese, nei negozi e nelle calli attraverso la descrizione documentata degli stessi sinistrati. Nel loro fascicolo ho scoperto particolari inediti. Ho raccolto altre notizie preziose nel racconto personale dei superstiti, nei volumi "I bianchi binari del ciclo" di A. Cattalini e "/ Caduti e i Martiri della Dalmazia" di L. Papo, nei diari personali di Mons. G. Lovro-vich e di A. Davanzo, nel "Martirologio delle genti adriatiche" dell'ing. G. Bar-toli, negli studi di C. Piazza, di T. Covacev e di S. Brunelli ed in vari articoli pubblicati sul bollettino "Zara", sulla "Rivista Dalmatica", su "Difesa Adriatico" e su "L'Arena di Pola".

Zara con i suoi 21 mila abitanti poteva sembrare una modesta cittadina. Era, invece, un'importante città per la sua storia romana, veneziana e italiana, per la sua sede arcivescovile e metropolitana, per i suoi monumenti sacri e profani, per il suo emporio commerciale, per i suoi musei, per le sue ricche biblioteche e per le sue numerose ed eccezionali espressioni di vita culturale, politica ed industriale che ne fecero la capitale della Dalmazia. Se i mandatari e gli esecutori della sua distruzione avessero letto la sua storia attraverso le pagine di G. Praga, di V. Brunelli, di A. de Benvenuti e di C. Cecchelli certamente non avrebbero avuto il coraggio di infrangere, di pestare con tanta spieiata ed insistente crudeltà il volto di una creatura così fragile, nobilissima ed indifesa.

Alle ora 14 del 27 marzo 1941 la radio di Belgrado annuncia la chiusura del confine. Sulla città comincia a pesare l'incubo di una imminente irruzione jugoslava. Dal 31 marzo al 5 aprile centinaia e centinaia di donne, di bambini, di vecchi, di ammalati sfollano verso Trieste, Ancona e Lussinpiccolo. In città - annota il Piazza - rimangono circa 9.500 civili. D'altro lato numerosi contadini delle frazioni di Valnera, di Boccagnazzo, di Puntamica e di Le Piastre, vicinissime alle zone di operazioni, si rifugiano nelle scuole della città. La preziosa facciata della cattedrale di S. Anastasia viene parzialmente murata e coperta con sacchetti di sabbia. L'altare maggiore viene completamente chiuso in una solida armatura. Vengono trasportati al sicuro il tesoro della cattedrale, le sei tele del Carpaccio e una di Palma il Giovane. L'urna d'argento di S. Simeone viene murata di notte sottoterra, vicino alle fondamenta del campanile di S. Maria. Viene chiuso il museo di San Donato e vengono poste al riparo le collezioni di vetri, di bronzi e di monete. Analoghi provvedimenti sono apprestati per alcune opere della chiesa di S. Francesco, tra le quali il quadro del Carpaccio, rappresentante la chiesa militante e trionfante, un dipinto di Francesco Salghetti Drioli, un crocifisso del secolo XI, il polittico trecentesco della sacrestia.

Il bollettino del 7 aprile dichiara lo stato di guerra per la città di Zara. Alle ore 15 dell'8 aprile 1941 i sibili delle sirene ed il crepitare della contraerea annunciano l'inizio del dramma della città. Tré aerei di ricognizione iugoslavi, provenienti dal sud, la sorvolano a bassa quota e scompaiono nella stessa direzione. Ricompaiono, però, subito per scaricare le mitragliatrici, a volo radente, contro una nave cisterna, carica d'acqua potabile, ma falliscono il bersaglio.

Verso le ore 9 del 9 aprile uno stormo di apparecchi lascia cadere numerose bombe sulla zona di Cereria e di Barcagno, provocando danni ad alcune industrie e ad alcuni villini, ma senza vittime umane. L'allarme dura circa un'ora. Immediatamente un altro stormo appare sulla città. Comincia a sganciare le bombe appena passato il Cimitero e danneggia o distrugge molti edifici; tra gli altri, un fabbricato popolare del rione "Costanza Ciano", la "Casa della Gioventù Italiana", la palestra del campo sportivo, due edifici all'angolo tra Calle del Conte e Calle Paradiso, la Casa n. 10 in Calle del Teatro. Il Teatro Nazionale subisce un'enorme breccia per cui viene demolito. Risultano schiantati alcuni alberi del Viale della Crociata. Appaiono danneggiati il basamento in pietra del Palazzo Comunale, alcuni locali del Comune e della biblioteca Paravia, l'ambulatorio dell'Ospedale Vecchio, il Pio Ricovero S. Matteo per i cronici, le entrate e le adiacenze della Manifattuta dei Tabacchi Orientali, i vetri dell'orologio sulla Torre della Gran Guardia, "ma - osserva il Piazza - l'orologio, da buon filosofo, continuerà imperturbabile a segnare ed a battere le ore". Bombe inesplose cadono in mare a fianco del ponte girevole, sul ricovero San Matteo ed intorno ad un pontone della Marina. Fuori città, nel Boschetto dei Pini, viene colpita la polveriera "BO 143". Lo scoppiettio delle munizioni, chiuse nelle cassette, durerà 8 ore. Verso le 14 dello stesso giorno il bombardamento si rinnova con nuove distruzioni. Si calcola che il giorno 9 siano cadute sulla città una sessantina di bombe.

Molte famiglie, rimaste senza casa, ed altre per precauzione si trasferiscono definitivamente nei rifugi con le masserizie di prima necessità. Ai ricoverati vengono distribuiti pane, bevande calde, uova, latte e frutta. I medici e i sacerdoti si avvicendano in visite frequenti, portano medicine, viveri, indumenti.

Il giorno 10 i bombardieri italiani attaccano 35 apparecchi slavi, pronti per il decollo nei campi di Bencovazzo e di Zlosella, frustrando così un nuovo successivo e più grave bombardamento sulla città. Il bollettino di guerra n. 307 del 10 aprile 1941 dice: "formazioni aeree nazionali hanno bombardato truppe e automezzi avversar! nella zona di Bencovazzo (Zara). Reparti da caccia hanno mitragliato apprestamenti difensivi sul fronte jugoslavo ed hanno attaccato a volo radente presso Zlosella (Zara) 10 idrovolanti alla fonda, quattro dei quali sono stati gravemente danneggiati. Aerei nemici hanno sorvolato Zara lanciando alcune bombe e causando qualche danno".

Il giorno 11 le autorità militari italiane apprendono che truppe jugoslave sono pronte per marciare su Zara. Sabato 12, alle 6 del mattino, le forze italiane precedono l'attacco nemico e squadriglie di bombardieri italiani colpiscono in dirczione di Polesnik, di Zemonico, di Bencovazzo. Le truppe, al comando del Col. Morrà, irrompono nel retroterra, oltre i reticolati del confine. Il pontone della Marina spara contro l'isola di Ugliàno, bombardando il castello di S. Michele sul quale sventola la bandiera iugoslava. Dopo un'ora e mezza sul castello compare la bandiera bianca. Barche a remi e a motore, con drappi bianchi, giungono alla Fossa. Gli slavi offrono la resa incondizionata del San Michele, di Calle e di Oltre. Le truppe di terra italiane ammontano a circa 2 mila uomini e comprendono, tra l'altro, il battaglione Bersaglieri "Zoro"agli ordini del Maggiore zaratino Pietro Testa.

L'impeto e la sorpresa travolgono le forze nemiche. Alle ore 19 Zemonico, Nadin e Bencovazzo risultano occupate e sorpassate. Il bollettino di guerra n. 310 del 13 aprile 1941 dice: "nel settore di Zara le nostre truppe, efficacemente coadiuvate dall'aviazione, hanno occupato Bencovazzo catturando centinaia di prigionieri e 80 ufficiali. L'isola di Ugliàno è caduta nelle nostri mani".

Domenica 13, solennità della Pasqua, Zara, pavesata di tricolori, accoglie i nostri feriti, tra i quali lo stesso Col. Morrà che ha avuto ambedue le gambe spezzate da una raffica di mitra. Ma la gloria pasquale si spegnerà presto in una nuova tragedia senza resurrezione.

Alle 23 del 22 aprile 1943 l'allarme aereo lacera il ciclo di Zara per annunciare il primo arrivo dei bombardieri anglo-americani. Le autorià locali avevano predisposto nei bastioni e negli scantinati 30 rifugi per la popolazione e 12 per le collettività. Un piccolo presidio tedesco si era insediato in città il 10 settembre 1943.

È facile individuare questa penisola, questa ala galleggiante sul mare, infrangere questo cofanetto fragilissimo, filigranato di arte veneziana, di cuspidi, di logge, di bifore. La sua agonia comincia il 2 novembre 1943. In mattinata alcune formazioni passano molto in alto. La contraerea di Puntamica entra in funzione, ma le bianche nuvolette delle esplosioni rimangono sospese, vaganti molto al di sotto degli aerei. Il duello si rivela subito impari. Quando le tenebre si fanno pesanti, alle 19,45 di quel tristissimo giorno dei Morti, la morte accende improvvisamente nel cielo di Zara alcuni bengala illuminanti e per l'ultima volta la città, come un gioiello incastonato nel nero velluto del mare, mostra al cielo il suo volto italiano intatto. I bombardieri scaricano le loro bombe, colpendo alcune case a Cereria e dilaniano il vicino ricovero tubolare antiaereo. Sotto il pietrame del ricovero rimangono maciullate 183 persone.

Risultano squarciati dal tetto alle fondamenta anche alcuni edifici tra il Ginnasio-Liceo e Calle del Sale. Diciannove bombe colpiscono lo stabilimento S.A.P.R.L. Le bombe sorprendono una ventina di ragazzetti della Colonia Agricola, intenti allo studio. Poi nel silenzio tragico cade il polverone, compaiono i mozziconi dei ruderi, le rive squassate. Dai rifugi escono pallidi e terrorizzati i superstiti. Tra il puzzo del bruciato e dello zolfo comincia la ricerca dei parenti, della propria casa, l'identificazione dei morti, mentre i pompieri cercano di spegnere gli incendi. È un lavoro duro, penosissimo per gli operai che cercano di spezzare col trapano elettrico i blocchi di cemento dei rifugi, per i medici, per i sacerdoti, per gli infermieri, per i giovani e per tanta gente che si prodiga generosamente per le proprie vittime e per quelle degli altri, per gli affossatori che devono comporre nelle fosse comuni corpi straziati, membra staccate e già in decomposizione.

Don Giovanni Brazzani, Parroco a Cereria, curvo tra le stanghe di un carretto, traina lungo la riva una botte di mare per lavare il volto e le membra lacerate delle vittime. E bisogna fare presto perché i cani, attirati dall'odore del sangue, raspano e ringhiano tra le macerie. Le salme vengono composte in un magazzino della S.A.P.R.I. e in un locale di Calle del Sale. Nel torbido specchio di mare ribollono gruppi di cefali che mordicchiano brandelli di carne. Don Brazzani monta su una barca e comincia a scandagliare il fondo con un grosso uncino. Riesce a recuperare sulla barca una trentina di cadaveri.

Una giovane madre giace tra il pietrame. Dal suo grembo lacerato appaiono i piedini rossi di un bimbo che non ha potuto vedere la luce. Sulla scaletta del molo un uomo sta ritto in piedi, con la lenza in mano. Il violento, improvviso spostamento d'aria lo ha stecchito. Appoggia la schiena sulla scaletta e rimane in piedi, cadavere, con la lenza attorcigliata tra le dita.

La popolazione comprende che la fine di Zara è stata segnata sul libro nero della guerra e fugge disperata fuori dalla città verso Boccagnazzo, Bellafu-sa, Torrette, Babindù, Oltre e verso le isole.

Comincia anche l'esodo dei 12 mila superstiti. Tullio Valery scrive: "nel primo pomeriggio centinaia di famiglie cominciarono ad abbandonare la città. portando con sé valigie, borse, pacchi, trascinando carretti o carrozzine per bambini sovraccarichi delle prime cose e che erano venute sottomano, in una confusione incredibile, spesso non sapendo nemmeno dove andare, pur di allontanarsi da quell'inferno. Poiché il centro storico è su di una penisola, per uscire verso la campagna bisogna percorrere due viali alberati fiancheggianti i bastioni del grande parco che praticamente divide il centro dalla periferia. Attraversare quel tratto di strada è una prova pericolosa perché la furia delle bombe si accanisce proprio sulla carreggiata facendo strage di quanto di vivo si trovi a passare di lì in quei tragici momenti. Bisogna aggirare le enormi buche formate dalle bombe badando a non calpestare carogne di animali o miseri resti umani sparsi un po' dappertutto, perfino penzolanti dai rami degli alberi là dove la forza degli scoppi li ha proiettati. Altri corpi invece sembrano quasi composti, come se dormissero, uccisi semplicemente dallo spostamento d'aria che si è limitato a stecchirli. ( "Fronte Italiano: c'ero anch'io" di Bedeschi).

Alle 16,45 un bollettino del governo di Badoglio esprime la soddisfazione per l'efficacia dei bombardieri su Zara. I tedeschi approfittano e lasciano un messaggio alla popolazione contro "// traditore diventato assassino del proprio popolo inerme e innocente".

Domenica 28 novembre, è una bella giornata festiva, piena di sole. La popolazione, in attesa del pranzo domenicale, sta passeggiando lungo la Calle Larga e sulla Riva Nuova, quando improvvisamente alle 10,45 due file parallele di bombardieri infilano le due rive laterali della penisola, colpendo le stesse rive e gli edifici adiacenti. Due siepi lunghe, altissime di fuoco, di fumo, di polvere stringono la città. Il vaporetto Barcagno-Cereria, carico di passeggeri e di gitanti, si è appena staccato dall'imbarcadero, quando viene centrato in pieno. Viene disgregato. Pezzettini di lamiera, di legno, di carne, di vestiti, dilaniati in uno scoppio bestiale, ricadono sul mare sconvolto e arrossato. Un altro piroscafo, il "Sebenico", sventrato, si adagia sul fondale. Una bomba colpisce anche il Palazzo del Tribunale.

Tullio Vallery racconta: "La terra cominciò a tremare così forte da sembrare sulle prime un terremoto e le case si squassavano paurosamente mentre la gente correva disperata fra le strette calli della cittadina in cerca di un rifugio.

Mi trovavo in casa, al terzo piano, e scesi precipitosamente le scale che sotto i miei piedi oscillavano e sembravano voler sprofondare da un momento all'altro. Di corsa raggiunsi il grande Palazzo del Tribunale nelle cui cantine era stato predisposto un rifugio. Non potei scendere perché già pieno di gente spaventata. Rimasi così nel grande androne centrale al pianterreno, anche perché la terra aveva cessato di tremare e non si sentivano più scoppi e boati. Ma poco dopo nuove deflagrazioni sempre più vicine e la terra che riprese a tremare ci fecero capire che stavamo subendo una seconda ondata.

Una grossa bomba (poi si parlò di 2.000 kg.) colpì un 'ala del palazzo seppellendo quanti stavano entrando per una porta laterale. Nell'androne, dove mi trovavo, parve che tutto il palazzo ci crollasse addosso ma per fortuna le strutture centrali resistettero e sulla gente urlante in preda al terrore caddero solo grossi lastroni delle vetrate facendo non pochi feriti. Finalmente gli scoppi cessarono ma il panico aveva invaso un po' tutti: chi piangeva, chi urlava, chi stava immobile con gli occhi sbarrati, chi correva come un pazzo da un lato all'altro.


R. Pongiluppi scrive nel volume del Bedeschi: "davanti alla manifattura tabacchi c'era una fermata dell'autobus tra Borgo Erizzo e Zara. In quel punto vidi corpi straziati, mutilati, maciullati. C'era un braccio con l'orologio, senza corpo".

Viene colpitto anche il ponte "Littorio" di Cereria. In fondo alla Valle Ghisi, sull'erba, vicino alla giostra attoreigliata, giaciono insanguinati i corpi di decine di bambini, sbattuti dallo scoppio, falciati dalle schegge. Il teste M. Marocchia scrive: "Dal parco si vide alzarsi una nube oscura; allora la gente uscì dalle case e, come una fiumana, silenziosa, si diresse veloce verso il parco. Al centro del piazzale trovarono una grande buca e dagli alberi circostanti videro pendere le membra dilaniate dei bambini. La folla avanzava compatta, muta. Non un gemito, non una parola; solo gli sguardi puntati sugli alberi in cerca disperata del proprio bambino". "Chi fu costretto a percorrere centinaia di metri in quell'orrendo carnaio ne rimase talmente colpito da non poterlo più dimenticare. Nel ricordare, a 45 anni di distanza, quei tragici momenti ne sono ancora turbato. Rimase sempre un mistero il perché di tanto accanimento su di una piccola città italiana, priva di veri obiettivi militari, già semidistrutta, abbandonata dai suoi abitanti, dove nemmeno più la contraerea si faceva sentire. Era la fine di tutto: ideali, illusioni, speranze, averi, affetti!"

Il piccolo piroscafo "Sansego" chiude il suo lungo servizio con una decina di viaggi tra Zara, Lussinpiccolo e Trieste. Scarica in fretta i viveri e riparte carico di profughi. Arriva e riparte sempre sbandato su un fianco, come un vecchio stanco, perché tutti si affollano alla murata verso la città. IL 27 maggio i bambardieri lo inchiodano nella rada di Lussino. Nella stiva, sopra i sacchi di farina, galleggiano bottiglie di vino e di birra. Nulla va perduto perché le donne lussignane sciolgono in acqua dolce i grumi di farina.

Il 14 dicembre, verso le nove del mattino, un ricognitore gira a bassa quota. La gente lo osserva come un angelo nero che preannuncia il ritorno della morte.

IL giorno successivo sette allarmi richiamano nei rifugi la popolazione che ascolta trepidante il rombo corale dei motori e gli scoppi degli spezzonamenti nella zona di Zemonico. Il giorno 16, dopo cinque allarmi, alle 14,30 il ciclo di Zara si riempie di fragore. I bombardieri passano in diverse ondate. La popolazione ammucchiata, abbracciata nei rifugi, trema. Le detonazioni scuotono i rifugi. L'urlo metallico degli aerei flagella l'aria in quel caratteristico crescendo delle picchiate che si avventano una dietro l'altra contro la città. Le batterie di Puntamica borbottano debolmente e gli aerei hanno tutto il tempo di gironzolare nel cielo e di sganciare i loro grappoli di bombe. Risultano nuovamente colpiti il Viale Tommaseo, le calli Larga, Pappuzzeri, Santa Maria, San Rocco, Catena e, inoltre, la Banca Dalmata di Sconto, i Palazzi della Provincia, delle Poste, della Procura, del Tribunale, il Teatro Verdi, il Liceo-Ginnasio Gabriele D'Annunzio, l'asilo delle orfanelle, la canonica del Pope Greco Ortodosso, il vecchio Battistero ottagonale, il Cinema nazionale, l'Istituto Magistrale e la Chiesa della Madonna della Salute. Gli incendi si propagano a catena da un tetto all'altro. Il fuoco distrugge tutta la Calle Canova e raggiunge Calle Zorzi. Ogni tanto un tetto crolla fragorosamente, provocando vampate e vortici di scintille. Fiammate si levano anche dal Convento e dalla Chiesa di Santa Maria. Nel porto una grossa nave affonda gorgogliando. Alle 21,45 i bombardieri ritornano con un'altra dose di bombe. Il porto è un rogo. Lingue di fuoco arrossano in alto il fumo e si riflettono nelle acque nere del mare. Sulle vicine colline c'è chi sorride compiaciuto, mentre i due ultimi bombardieri lasciano cadere spezzoni incendiari in piazza delle Erbe. "La sera del 16 dicembre 1943 dall'alto (del villaggio di Cosimo) vedemmo la nostra città, un tempo bianca sul mare, ardere come un immenso braciere, rossa di fiamme nel cupo della notte. Moriva una città, la sua storia, la sua gente" (Cornelia Brescia in Scalia in G. Bedeschi).

Il 24 dicembre 1943 il prefetto Sorrentino scrive a Coceani, prefetto di Trieste:"siamo pronti a sacrificarci, ma per chi? Se vincono i tedeschi Zara sarà tedesca, se vincono gli alleati, Zara sarà slava".

Quanto mai triste il Natale del 1943. Alle 12,55 la sirena viene a turbare il silenzio dell'amarissimo pranzo natalizio. Un ricognitore passa lasciando nel cielo plumbeo una scia bianca di vapore. La vita a Zara è stretta in una morsa agghiacciante, fatta di lutti, di paura, di fame. Risultano distrutti tutti i forni, l`aquedotto, la centrale elettrica e i telefoni.


Il 27 dicembre dalle cime del Velebit la bora precipita sulla città a 100 chilometri all'ora, sollevando un polverone che, unito al fumo degli incendi, rende l'atmosfera irrespirabile. Numerosi gli allarmi. I sibili delle sirene si inseguono nei vortici e nelle folate impetuose del vento, dando alla bora una voce triste, flagellante attraverso le calli e attraverso le crepe delle mura: l'urlo della morte. Così la sente la gente che fugge, che trema, che prega nei rifugi.

Nel canale, in dirczione dell'isola di Ugliano, appare il piroscafo "Italia", di10 mila tonnellate, il quale, destreggiandosi abilmente contro la bora e contro le picchiate dei bombardieri, riesce ad evitare quattro attacchi successivi.

Nella mattina del 30 dicembre la sirena sibila quattro volte: alle 8.15, alle 8.40, alle 13.15 e alle 14. Subito dopo due ondate di bombardieri rivangano le rovine e appiccano nuovi incendi in Calle Larga e in Calle Ziiiotto. Due piccole dragamine, attraccate a Riva Nuova, s'adagiano sul fondale in una nuvola di fumo nero. La Casa Littoria è spaccata in due. L'Istituto S. Demetrio appare gravemente danneggiato. Sulle Colovare brucia la casa Relja.

Il 31 dicembre un leggerissimo velo di neve si posa sulle macerie, ma scompare quasi subito anche a causa dei numerosi incendi. Non ci sono più mezzi per spegnerli. Bruciano ancora la farmacia Kiswardaj, la pasticceria Babich, la farmacia Perlini, la casa Hoeberth. Così Zara chiude l'anno 1943 in un lento tragico rogo. Molte famiglie hanno trasformato in dimora ordinaria i rifugi dove hanno portato i materassi e qualche provvista. Mons. Lovrovich, dopo d'aver amministrato 11 battesimo a una neonata nel ricovero, corre sotto i bastioni di S. Rocco; "in quella oscurità, in quel fetore, tra quei volti curiosi, illuminati da una tremolante candela, ho l'impressione di trovarmi nell'antro di una catacomba romana. Allora erano i persecutori che spingevano i cristiani sotto terra, oggi sono i bombardieri devastatori".

La notte del 3 gennaio 1944 viene dato l'ordine di sloggiare dai rifugi e di sfollare dalla città. Soffia un vento forte, rigido. I bambini, svegliati nel sonno, piangono. I sinistrati imprecano perché non possono portare con sé i materassi e le coperte.

Il 9 gennaio si avverte un rombo lontano di motori. Passano verso nord. L'Arcivescovo Mons. Doimo Munzani manda a Roma Don Giuseppe Della Valentina perché porti a Pio XII il grido di dolore di una città agonizzante, senza viveri e senza medicinali, condannata a sicura morte.

Il 14 gennaio viene sgomberato il ricovero di S. Francesco. I 60 vecchi, caricati sul piroscafo "Eneo", agitano le mani scarne per l'ultimo saluto alla loro città, mentre un sacerdote si avvia al Cimitero con le salme di tré loro compagni.

Il 15 gennaio, festa di S. Anastasia, l'Arcivescovo celebra per l'ultima volta la festa della Patrona nella sua Cattedrale. Una Messa semplice e povera, alle 6,30 del mattino, senza organo, senza canonici. Sulla città grava una nebbia pesante, fredda. Anche la chiesa è in lutto. Il giorno 16 uno stormo compatto di fortezze volanti, scortato da agilissimi caccia, passa sopra Zara. Alle 15,45 uno schianto squarcia il tetto della navata centrale della Cattedrale, coprendo di calcinacci i matronei e gli altari.

Il giorno 22 gennaio, alle 13.15, 1' "Elettro", il panfilo di Marconi, carico di tanta gloria, viene colpito ripetutamente da una formazione di caccia bombardieri e affondato nel vallone di Diclo, presso Zara. Il relitto è stato recuperato e portato a Trieste. Il giornalista Wolfango Rossani, presente a Diclo, nel raccontare la fine de\\"'Elettro" scrive: "Fui così in grado di assistere all'arrivo delle fortezze volanti americane e subito dopo ad una scena sconvolgente: dalle strade, dalle banchine, dalle case e dal mare che bagna Zara, si alzavano altissime colonne di fumo e di fuoco seguite da tremendi boati. La povera città era colpita a morte: sullo sfondo del cielo si veniva stagliando un pauroso scenario di fiamme. Un quadro apocalittico allucinante, di fronte al quale ebbi netta la sensazione che le nostre vite erano attaccate ad un filo e che il nostro destino si presentava terribile. Ho potuto assistere alla lenta ed atroce agonia dell'antica e gloriosa citta dalmata (Zara) che diventò una sorta di bersaglio dell'aviazione inglese e americana. Nel corso di poche settimane Zara subì un tragico destino: il suo porto, le sue banchine di marmo bianco, le sue strade, le sue caratteristiche collette, le sue piazze di struttura veneziana, le sue bellissime chiese ro maniche e le sue colorite abitazioni furono spezzate, sgretolate, smozzicate e, per dirla con un famoso verso carducciano "pa-rean fil di scheletri in cimitero". ("L'Osservatore Romano" 18-7-1983).

Nella tarda serata del 25 gennaio alcuni bengala ed alcuni razzi illuminanti precedono un altro bombardamento. Il mese di gennaio si chiude alle ore 13,30 del giorno 30 con una incursione disordinata, accompagnata da alcune sventagliate delle mitragliatrici di due caccia.

Alle 12,45 dell'8 febbraio tré caccia attaccano uno zatterone militarizzato. I tré aerei si avventano rabbiosamente, uno dopo l'altro, come falchi sulla preda, martellandola con le raffiche. Una fumata improvvisa dalla stiva segna l'inizio dell'affondamento. A poppa un marinaio, seduto sul seggiolino della mitraglia, continua a sparare finché l'acqua non gli arriva alla cintola.

Il giorno 12 ritorna da Roma Don Giuseppe Della Valentina. Pio XII, che ha condannato l'inutile e barbara distruzione di Montecassino e che per protesta contro i bombardamenti di Roma, è comparso tra le macerie del quartiere romano di S. Lorenzo, ha dato incarico a Don Della Valentina di portare agli zaratuù l'espressione della sua solidarietà e della sua parola confortatrice.

Il mese di febbraio vede altri 8 bombardamenti e cioè il 15 alle ore 12, il 16 alle ore 13, il 21 alle ore 11,45, il 23 alle ore 13,30 e il 25 con 4 bombardamenti rispettivamente alle 10,15, alle 11, alle 11,30 e alle 12,10. Tutta la città viene nuovamente sconvolta, pestata disordinatamente, sadicamente. Il santuario della Madonna della Salute del Castello è un mucchio di rovine. Il Convitto Nazionale Tommaseo è spaccato dall'alto in basso. Viene colpito anche l'Istituto S. Deme-trio. Bombe cadono sugli edifici della Prefettura, della Scuola Industriale, della centrale elettrica, a Barcagno, a Casali, a Bellafusa. Un incendio divampa presso la fabbrica Vlahov. A Cereria la fabbrica di reti S.A.P.R.L, colpita anche dai precedenti bombardamenti, adibisce la falegnameria esclusivamente per fabbricare casse da morto. C'è anche un mitragliamento con spezzoni incendiar! in Val di Bora. Nel cantiere Cattalini una barca prende fuoco. Una bomba cade vicino al rifugio San Francesco. Viene colpito anche il Convento e la Cappella di S. Antonio, affrescata dal Fossombrone. Il venerando Padre Carvin, originario di Cherso ma a Zara da 70 anni, continua a preparare nella cucina del convento la minestra per i ricoverati del rifugio.

Il 7 aprile tré aerei colpiscono ancora la S.A.P.R.L, la fabbrica di cioccolato, lo stabilimento Zerauschek. Il 3 marzo, alle 20,15, ha luogo una nuova incursione con bagliori e scoppi eccezionali, mai sentiti, tanto che qualcuno - riferisce il Dott. Cattalini - avanzò l'ipotesi trattarsi di un nuovo tipo di bombe ad altissimo potenziale calorifico e distruttore, sperimentato per la prima volta a Zara. Di una casa di Barcagno, colpita in pieno, e` rimasto un muchietto di polvere calcificata.

Molte bombe cadono anche a Borgo Erizzo, a Bellafusa e a Puntamica. Il 23 maggio viene dato l'ordine di sgomberare completamente la città. L'estate 1944 non viene turbata da bombardamenti, ma è un'estate afosa, tristissima. La popolazione si è disseminata nei paesi circostanti. Zara sembra una meravigliosa nave, adagiata sul fondale del mare, sfondata, bruciacchiata, devastata. Anche se scheggiati, sono rimasti in piedi, come indici verso il cielo, i campanili del Duomo, di S. Francesco, di S. Maria, di S. Simeone e quello di S. Elia.

Il 17 settembre è un'altra giornata tenebrosa. Alle 16 una grande maona, carica di munizioni, ancorata in Valle de' Ghisi, colpita in pieno, esplode in un boato terrificante, in un nuvolone immenso e vorticoso, scuotendo le fondamenta di tutta la città e distruggendo il vicino ponte. Il 18 settembre alle 11,45 viene centrata la località di Bellafusa. Il 2 ottobre, alle 14,15, le bombe cadono in Val di Bora e Maistro. Viene colpita anche la casa dei Luxardo. Il 4 ottobre alle 16,15 l'epicentro è segnato da Via Segarla e Bosco Pini. Il giorno 9 ottobre vede un carosello indiavolato di trimotori che comincia alle 8,30, continua alle 9,25, si ripete alle 10,07 e alle 11,30 per finire alle 15,20. È facile immaginare la psicosi tremenda che logora i nervi dei superstiti. Questo martellare lugubre dal cielo, il sentire che la propria vita è legata a un filo tenuissimo, a un capriccio, a uno sbaglio dell'aviatore, all'irragionevolezza di un bombardamento a tappeto, alla fatalità di una bomba sganciata un attimo prima o un attimo dopo creano un'atmosfera di incubo. Si noti che, oltre ai vari bombardamenti, ci sono continui mitragliamenti e spezzonamenti e che Zara è presa come un punto di riferimento per le formazioni aeree dirette verso l'Austria, o destinate ai rifornimenti nei Balcani. Ma la gente vedendo sbucare dalle nuvole gli aerei, non può indovinare le loro intenzioni.

Il 25 ottobre i trimotori compaiono nuovamente e per tré volte aprono sopra Zara il loro ventre carico di bombe: alle 10, alle 11 e alle 14. Viene colpita anche la Chiesa di S. Simeone. In precedenza i sacerdoti avevano posto al sicuro la preziosa urna del Santo. Nella chiesa si conservava il quadro del Fossombrone dal titolo: "II pianto di Gesù su Zara". Ispirandosi al Cristo che sul colle degli Ulivi piange di fronte alla distruzione di Gerusalemme, l'artista presenta lo stesso Cristo, che, scalzo, appoggiato a una "masiera" della collina di Malpaga, osserva con uno sguardo soave e malinconico la città di Zara. Così, penso, gli zaratini dovevano guardare la distruzione della loro città, i ruderi inerti delle loro case.

Il 30 ottobre i bombardieri ritornano alle 9,15 e sconvolgono lo stradone di Val de* Ghisi. Alle 11 aprono ampi crateri nei cortili delle case popolari e nel pomeriggio le bombe cadono vicino alla Caserma Cadorna. Di notte i tedeschi abbandonano anche il retroterra dopo di aver tempestato con le loro artiglierie i posti di blocco del vecchio confine. Dei 4.672 appartamenti, restano abitabili solo 272. Degli 850 metri lineari di banchine portuali, restano praticabili solo 200. Tutti gli 11 magazzini portuali per una capienza di 10 mila tonnellate, risultano distrutti.

Il 31 ottobre 1944 è l'ultimo giorno della inutile, pesantissima tragedia di Zara. Essa ha un finale sconcertante. I bombardieri anglo-americani, ignari della ritirata tedesca, ritornano sulla città alle 9,30 e alle 11. Carabinieri, addetti al servizio di sicurezza, vengono inviati d'urgenza a Boccagnazzo per notificare la partenza dei tedeschi e per ottenere la cessazione dei bombardamenti. Ma i carabinieri vengono disarmati e fatti prigionieri. Non si da ascolto al loro messaggio. I bombardieri intanto prendono l'ultimo volo e così alle 14,45 abbiamo il lugubre botto di chiusura. Sul selciato, tra Porta Terraferma e la Fossa, giacciono i corpi sfracellati di due partigiani slavi che festeggiavano la vittoria.

La radio jugoslava annuncia "che le truppe partigiane hanno occupato la città dopo tré giorni di aspri combattimenti". Propaganda. Non si è sparato neanche un colpo di moschetto. "Le truppe jugoslave - dice un testimonio oculare - entrarono cautamente, dietro invito di una spia". Di bellico c'è soltanto la penosa fine delle due vittime di Porta Terraferma.

In Piazza dei Signori si accende un grande falò con i documenti del Comune e con i libri italiani della biblioteca. Martelli e sbarre di ferro si avventano contro i Leoni veneziani.

Prima che i partigiani slavi raggiungano il centro della città, il Ten. dei Carabinieri Terranova sale di corsa sul campanile della cattedrale di S. Anastasia e spiega al vento una "grande bandiera italiana. In piazza lo attendono i partigiani e lo fucilano sul posto. Un ragazzo di 16 anni, Antonio Varisco, mezzo nascosto nel portone del seminario, osserva la scena e rimane affascinato dal gesto del giovane ufficiale italiano. Diventerà anche lui ufficiale dei carabinieri e il 13 luglio 1979 cadrà a Roma, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, proditoriamente trucidato dalle Brigate Rosse del comunismo. La magistratura romana (prestava servizio presso il Tribunale) lo ricorderà con una targa sul posto e Roma gli dedicherà una strada.

Così 54 bombardamenti, come 54 stazioni di una sanguinosa Via Crucis che ebbe inizio alle 15 dell'8 aprile 1941 e che si concluse alle 14,45 del 31 ottobre 1944, hanno obbligato Zara a piegare nella polvere il suo volto flagellato e devastato. La distruzione può essere riassunta nei seguenti dati, forniti il 31 marzo 1946 dall'avv. Sabadin, già partigiano e poi Prefetto di Padova:

- 85% dei fabbricati distrutto dai bombardamenti aerei;

- 5% gravemente danneggiati, - 3% demoliti dai tedeschi;

- su 4.672 appartamenti, già esistenti nella cintura della città,4.400 risultano distrutti e 272 abitabili;- con riferimento al 1945, si fa salire a circa 3 miliardi il valore delle merci, dei macchinar!, dell'argenteria, dei mobili asportati;

- le autorità di occupazione hanno incamerato 5 milioni di lire della Banca d'Italia, 2 milioni e mezzo di lire e 150 milioni di Kune della Prefettura e 1 milione e mezzo del Comune;

- 850 metri lineari di moli e di banchine industriali risultano distrutti. Restano praticabili circa 200 metri di banchine;

- tutti gli 11 magazzini portuali, per una capienza di 10 mila tonnellate, sono distrutti; - i movimenti del porto sono ostacolati da alcune unità affondate e cioè da un piroscafo di 10 mila tonnellate, da un secondo piroscafo passeggeri di 300 tonnellate, da 5 velieri da 100 e 200 tonnellate, da una motonave carica di mine affondata vicino al ponte e da altri relitti di unità minori.

La distruzione di Zara continua con le deportazioni e con le esecuzioni capitali per opera degli slavi. Uomini e donne scompaiono senza ritorno. Sugli alberi del retroterra compaiono liste di condannati con la precisazione: "la sentenza è stata eseguita". L'esecuzione avviene per fucilazione, per annegamento, per impiccagione e per lapidazione.

Cito due sole testimonianze per indicare il clima di terrore instaurato a Zara. Il Sottotenente Antonio Calderone in una deposizione del 6 aprile 1945 racconta: "Dopo che nelle giornate del 7 ed 8 novembre 1944 furono fatti uscire dai sotterranei della Caserma "Vittorio Veneto" uventicinque civili con un "tra-baccolo" nell'isola di Ugliano. Dopo che i partigiani accompagnatori hanno consumato il pranzo e bevuto abbastanza, vengono invitati i primi 25 a lasciare i loro abiti e rimanere solo con le scarpe, pantaloni e camicia. Dopo tale operazione vengono avviati lungo un sentiero terminante in un precipizio a picco sul mare e qui massacrati come cani. I cadaveri finiscono nel burrone lì vicino. Una ventina di agenti ed una trentina di civili, furono trasportati assieme ad altri .

Liquidati i primi, i partigiani predetti tornano indietro per eseguire la stessa operazione con gli altri. Di fatti anche questi vengono invitati a togliersi i vestiti e a rimanere solo con gli stessi indumenti come i primi; inoltre, raccolti tutti i documenti ed ogni carta tenuta dagli agenti, si procede alla loro distruzione col fuoco. Questo secondo gruppo, come il primo, viene avviato per lo stesso sentiero, ma prima di raggiungere la località dai partigiani prefissa, l'agente Nigro Luigi con altri di robusta costituzione assale uno dei partigiani sottraendo un moschetto mitra e, dopo una confusione tremenda, mentre il Nigro cade sotto il fuoco partigiano col grido "Viva l'Italia" sulle labbra, un altro non meno coraggioso fa fuoco sui partigiani. Nella confusione tré degli agenti si tuffano dal precipizio in mare ed uno di essi, l'agente ausiliario Berlini Alessandro, riesce a salvarsi raggiungendo a nuoto un'isola vicina".

Il 25 luglio1945 il Capitano Ghirin Ernesto inviò alla Presidenza del Consiglio una relazione nella quale narra, tra l'altro; "Nel novembre del 1944 venne fucilato Costa Ermenegildo, custode della Banca Dalmata di Sconto, padre di dieci figli. La moglie del predetto, racatasi a bordo di un incrociatore inglese di stanza in Zara per chiedere assistenza, dopo essere sbarcata in riva Cereria con i vìveri ricevuti dagli inglesi, è stata presa dai partigiani e buttata a mare. Gli stessi marinai inglesi dell'incrociatore, che avevano assistito alla tragica scena, hanno tratto in salvo la povera donna e sotto buona scorta l'hanno accompagnata alla propria abitazione ".

Gli stessi partigiani hanno confermato la morte in massa di 96 abitanti di Borgo Erizzo nel cimitero ortodosso di Zara. Per parecchi anni rimasero visibili sul muro tracce del massacro.

Il 30 settembre l'On. Nicolo Luxardo viene affogato, con una pietra al collo, nelle acque dell'isola di Selve, insieme con la moglie milanese Bianca Ronzoni. Il 22 novembre 1945 il tribunale slavo di Zara, con sentenza confermata dal Supremo Tribunale della Croazia in Zagabria, lo accuserà "di non aver risposto all'invito di comparizione" e ritenendo "che egli si tenga nascosto" (lo avevano affogato loro un anno prima!), lo condannerà all'impiccagione in contumacia per aver contribuito, tra l'altro, alla sconfitta dell'Austria nel 1918. Nato a Zara nel 1886, fu titolare dell'omonima fabbrica di maraschino, definita "la più grande distilleria dell'impero austroungarico". Come soldato volontario nel 20° Reggimento Cavalleggeri di Roma, conbattè contro l'Austria che lo dichiarò "Hochverrater", colpevole di alto tradimento. Sotto l'Italia la sua fabbrica si potenziò con "nuovi, ampi edifìci, creati con criteri razionali, impianti tecnici di distillazione tra i primi dell'epoca con generatori di vapore ultramoderni, un impianto aziendale tecnico ed amministrativo tale da servire da modello". (N. Luxardo - "Storia del Maraschino" - Padova 1952). Estese il suo commercio in Europa e in America. Fu deputato dal 1939 al 1943. Gli slavi lo accusarono di aver fornito 300 fusti di liquori all'esercito italiano, di aver approvato la sottoscrizione dei Buoni del Tesoro, di aver permesso ai dipendenti di assistere ai funerali di un ufficiale fascista, di essersi fregiato di due medaglie d'argento e dell'onorificenza di Grand'Ufficiale della Corona d'Italia.

Nicolo Luxardo De Franchi scrive che suo padre, Luxardo Pietro, chiamato a dirigere temporaneamente la filiale di Zara della Banca d'Italia, fece le regolari consegne al comando partigiano. Arrestato, la notte del 12 novembre venne prelevato. Si tolse l'orologia d'oro e lo consegnò all'amico Vuxani dicendo: "a me non servirà più". Infatti verrà fucilato in base a una sentenza della Corte Marziale dell'Vili Corpo d'Armata jugoslavo. "Malgrado infinite petizioni e memoriali inviati alle autorità italiane, nessuna ricerca fu mai fatta dalle stesse". Appare sconcertante che il governo italiano, nonostante i conclamati ottimi rapporti politici, non abbia mosso un dito per difendere la memoria di un industriale che ha onorato il lavoro italiano e che aveva ricevuto tanti ufficiali riconoscimenti dall'imperatore di Vienna e dal rè di Roma.

La città di Roma e di Padova hanno dedicato una strada ai due fratelli Luxardo. La targa di Padova è del 1982, riporta anche l'anno della morte, 1944, e precisa: "industriali di Zara perseguitati per la loro italianità". È già una sollecitazione per chiedere la riabilitazione delle due vittime.

L'avv. Sabadin fa ammontare a 900 il numero degli uccisi e dei trucidati. Citiamo alcuni nomi: Antissimi Miro, anni 53, ragioniere presso la Prefettura, affogato nel mare Zman, Bailo Emilio, Eugenio e Miro, costretti a scavarsi la fossa prima della fucilazione, Benevenia Lucio annegato con una pietra al collo, Calmetta Cristoforo ucciso a sassate, Calmetta Alessandro e Matteo costretti a scavarsi la fossa prima della lapidazione e poi appesi per i piedi ad un palo, Cattich Antonio arrestato mentre rientrava da Ancona e fucilato nell'isola di Ugliano, Cerlienco Maria ved. Sabalich uccisa a Diclo: la salma, gettata in mare, è stata poi seppellita nell'isola di Ugliano, Colani Giuseppe, ucciso dai suoi coloni slavi di Bevilacqua, Costa Ermenegildo, custode della Banca Dalmata di Sconto, padre di dieci figli, fucilato, Cubrich Michele, sotto macchinista presso l'ospedale civile, impiccato a un olivo a Torrette di Zara Vecchia, Fiengo Vincenzo da Napoli, professore ordinario di diritto presso l'Istituto Tecnico Commerciale, fucilato nel cimitero, Dojmi Dora, fucilata a Lissa, Macillis Silvio, ucciso a Fontana del Conte, Dell'Orco Pietro, barbiere, 42 anni, ucciso a colpi di mitra a Fiume il 20 settembre 1944, Dott. Ticina Pietro, farmacista, affogato con una pietra al collo con la moglie, una figlia, il genero, un fratello e una nipotina di sei anni: nel cadere in mare si aggrappò ad un partigiano e lo trascinò con sé nella morte, Zaini Enrico, ufficiale giudiziario, ucciso a Borgo Erizzo il 16 dicembre 1943, Sutiovich Marco, scaricatore del porto, deportato sull'Isola Lunga ed affogato, due fratelli Despoti, fucilati dopo di essersi scavati la fossa, Mussapi Tilde, annegata, Marsan Giorgio, fucilato con altri 15 italiani, il Dott. Sorrentino Vincenzo, prefetto a Zara, arrestato a Trieste dagli slavi 1'8 maggio 1945 e fucilato a Sebenico, Livich Umberto, il portabagagli Pattiero, Caruz Cristoforo, Chersich Giovanni, Chersich Luigi, Chersich Milo Emilio, Ciurcovich Emilio, Antonio e Matteo, Clamen Antonio, Cotlar Vagli, Daddi Giuseppe, Despal Giacomo e Matteo, Duca Domenico, Eugenio e Francesco, Duchich Matteo, Giorgi Simeone, lelencovich Antonio, Cristoforo e Giacomo, Ivich Eugenio, Kiswarday Tullio, Marcuzzi Giuseppe, Marsan Giuseppe, Mazia Matteo, Mussapi Miro, Mussapi Pietro, Mussapi Tilde insegnante annegata, Niepal Simeone, Perincovich Simeone, Perovich Giacomo, Matteo e Paolo, Relia Pietro, Visich Antonio, Vladani Matteo, Faccini Miro, Dvorzak Antonio deceduto in carcere. Un manifesto, affisso dal Tribunale Militare del Territorio delI'VIII Corpo in Zara«informa che il 10 novembre 1944 sono stati condannati mediante fucilazione e alla confisca del patrimonio altre 27 persone. Un altro manifesto del 7 febbraio 1944 annunziava la morte di altre 16 persone.
Vlahovich Simeone racconta che fu arrestato nel novembre 1944 e rinchiuso nei sotterranei della caserma "Vittorio Veneto" con altri 64 prigionieri. Imbarcati presso S. Demetrio la vigilia di Natale furono gettati con una pietra al collo in mezzo al canale. Il Vlahovich si salvò con altri cinque: tré da Borgo Erizzo e due da Boccagnazzo. Alle scuole elementari erano state assegnate maestre, quasi tutte partigiane e comuniste le quali chiedevano ai bambini che cosa dicevano in famiglia i loro genitori del comunismo e di Tito. Così "molti bambini, senza volerlo, furono i carnefici dei propri genitori che sparivano nelle grandi purghe di stile staliniano" (V. Gherdovich).

Il tricolore che il Ten. Terranova aveva tentato di rialzare per alcune ore con un gesto di estrema speranza, viene ammainato e stracciato. Circa duemila uomini dai 18 ai 45 anni vengono intruppati nell'esercito jugoslavo. Gli altri vengono adibiti ai lavori con l'unica retribuzione di un chilo di polenta al giorno. Viene perfino impedito l'arrivo di viveri degli alleati e dell'UNRRA.

La zaratina Enrica Robich racconta che fu deportata da soldati armati con altre venti ragazze prima nell'isola di Ugliano poi a Traù. Due soli pasti al giorno: un tozzo di pane la mattina e un po' di "brodaglia" a mezzogiorno. Lavoravano scalze potando e tagliando alberi nei campi. Dormivano senza coperte, su un mucchio di fieno con l'ovatta negli orecchi "per evitare la penetrazione degli insetti". Due sono state fucilate vicino a Traù. Il discorso più comune era quello dei soldati che minacciavano tutti di morte. Così venti donne passarono due anni soltanto per essere nate italiane.

In questo terribile clima i superstiti compiono l'estremo gesto di amore per-l'Italia: abbandonano la propria città, la casa, la professione per salvare la propria italianità nella libera povertà di un campo di profughi. Terrorizzati dalle fucilazioni, dalle deportazioni e dagli infoibamenti, lusingati a rimanere a condizione di dichiararsi croati e comunisti, privi di una qualsiasi protezione da parte del governo di Roma, i superstiti decidono di affrontare l'incognita dell'esodo. Viene facilitata la partenza degli originar! dalla penisola con un bagaglio di 10 chilogrammi e con sole 2.000 lire. Secondo le autorità jugoslave chi è originario di Zara è diventato "ipso jure" cittadino jugoslavo e come tale non ha diritto di esodare. Sulla sua persona e sui suoi beni si farà pesare la responsabilità della guerra contro la Jugoslavia. Per fortuna la maggior parte ha già lasciato Zara. Altri la lascieranno con fughe clandestine e con le opzioni, previste dall'ari. 19 del Trattato di Pace.

L'ex Prefetto Sabadin ci fornisce la seguente statistica con riferimento al 1945:

- popolazione prima della guerra 21.372

- fucilati dai tedeschi 11- deportati in Germania 165

- morti sotto i bombardamenti 4.000- uccisi dagli slavi 900

- deportati dagli slavi 435- mobilitati dall'esercito slavo 2.000

- prigionieri di guerra 161- profughi 13.500

- importati dalla Jugoslavia dopo la guerra 7.000

Pertanto nel 1945 in città esistevano 9.500 abitanti che esodarono in massa. Rimasero soltanto dodici famiglie italiane.

Esodo doloroso, spesso drammatico, ma che si è rivelato come unico mezzo per sfuggire alla morte, qualche volta al supplizio, per liberarsi da un marxismo che non ammette coesistenze, per conservare i diritti della propria origine latina e cristiana. Lo confermano le continue fughe di coloro che per vent'anni hanno cercato inutilmente una coesistenza dignitosa e che poi hanno tentato di riconquistare la libertà attraverso l'Adriatico col rischio di venir presi e deportati e con la sola prospettiva di finire in un campo di raccolta in Italia, senza cittadinanza e senza alcun diritto.

Zara non era ne una base navale, ne una fortezza militare, non possedeva industrie belliche, a differenza di Fiume e di Pola che possedevano silurifici, cantieri navali e basi militari. La città di S. Simeone era in Dalmazia una isola di civiltà latina ed italiana. La sua storia, la sua arte, le sue istituzioni di grande città costituivano un centro di radiazione e per questo qualcuno sentiva questa penisoletta come una spina nel fianco Dalmata.

Quantunque geograficamente staccata dall'Italia, aveva presentato una vitalità sempre più diffusa e penetrante, facilitata dal fascino dell'arte e della cultura italiana, dalle agevolazioni fiscali e dal suo mercato floridissimo che per due terzi veniva assorbito dal retroterra e dalle isole. Ora l'isolamento, le distruzioni, lo svuotamento dei depositi e dei magazzini, le imperiose requisizioni militari avevano ridotto la popolazione alla miseria e alla fame.

Un rapporto slavo del 25 aprile 1945 lamenta che a Zara "dopo sei mesi dal giorno della liberazione i compagni che occupano posti di responsabilità si dimostrano superbi, si sono elevati esageratamente al di sopra delle masse e quindi l'appoggio di esse è venuto a mancare completamente all'autorità militare. L'igiene manca del tutto, la mancanza di gabinetti/a di ogni casa danneggiata un letamaio, le condizioni in cui versa l'ospedale sono disastrose".

La distruzione di Zara fu conseguenza "di un calcolo politico impostalo e perseguito in una forma odiosamente vessatoria contro la popolazione interna" (P. De Simone). Lo zaratino A. Cattalini, fautore della convivenza italo jugo-slava, scrive: "furono i capi del movimento tifino comunista" che "spinti da un odio atavico, reso più crudo dalle esasperazioni della guerra, a volere la pressoché totale distruzione di Zara... a far colpire a morte una piccola città che essi consideravano una spina nel loro fianco, solo perché gli abitanti avevano il peccato d'origine di essere e di professarsi fieramente italiani".

Nella prima decade del novembre 1944 si svolsero a Zara numerose dimostrazioni con l'affluenza di contadini e di militari provenienti dai paesi vicini e perfino da Sebenico. Il tema dei comizi era: "Zara è stata sempre croata e rimarrà croata". L'ultra ottantenne Vladimiro Nazor, Presidente del Comitato di liberazione della Croazia, disse durante un comizio: "L'Italia aveva ingrandito e abbellito Zara, non per amore, ma per calcoli politici. Spazzeremo dal nostro terreno le pietre della torre nemica distrutta e le getteremo nel mare profondo dell'oblio. Al posto di Zara distrutta sorgerà una nuova «Zadar» che sarà la nostra vedetta nell'Adriatico" (V. Nazor 1944).

I partigiani iugoslavi dicevano che era necessario distruggere Zara, approfittando della violenza e della confusione bellica, per evitare successive discordie tra italiani e slavi e per impedire che il problema di una Zara italiana, intatta, venisse sollevato alla conferenza della pace. In una relazione leggo: "gli jugoslavi davano ad intendere agli angloamericani che in Zara vi fossero grandi depositi di munizioni e grandi quantità di truppe. Ciò era completamente falso, essendovi poco più di qualche centinaio di tedeschi e nessuno speciale deposito di materiale bellico. Zara non era un nodo stradale, non aveva importanza strategica, non era sede del Comando tedesco in Dalmazia".

Il maggiore italiano Ravnich della Divisione "Garibaldi" { Nattivo d`Albona } che combattè con Tito, racconta che il comando partigiano gli aveva imposto di chiedere agli alleati in Italia il bombardamento di Zara perché i tedeschi stavano concentrando ingenti forze nella città. Ravnich, sapendo che la notizia era falsa, trasmise la richiesta con la postilla in codice: "non date retta a questo fonogramma".

L'avv. Sabadin, dopo d'aver enumerati gli eccidi e le distruzioni, aggiunge: "l'organizzazione più feroce è in atto per impedire che gli alleati conoscano la verità. La Commissione Alleata ha rinunciato al sopralluogo per gli accertamenti". È provato che i bombardamenti arrivavano su precisi richiami tanto che alcuni cittadini venivano preavvertiti da amici croati del retroterra sull'orario dei bombardamenti. "Oggi - si diceva loro - non scendete in città". Oppure:"Stale tranquilli, domani non ci saranno bombardamenti".

Mons. Lovrovich che visse le tremende giornate di Zara, afferma esplicitamente che la sua distruzione è stata "// dramma di un freddo assassinio". Il Prof. Don Emerico Ceci scrive: "Zara, bombardata da indiscriminati bombardamenti aerei, sgretolata, mozzicata, ci mostra oggi le sue ferite dilaniate, i miseri resti che emergono lungo le sue calli, vulnerate brutalmente dalla guerra".

L'italianità di questa strana città apparirà a molti una favola di febbre patriotarda, artificiosa, incomprensibile. Una spiegazione la troviamo nell'avventura di D'Annunzio. I governi inglese, francese e russo, per coinvolgere l'Italia nella guerra contro l'Austria, le promisero con il Patto di Londra del 26 aprile 1915 tutti i territori dell'Istria (punto 4) e la Provincia della Dal-mazia (punto 5). Zara quindi si sentiva già italiana nel sacrificio anche dei suoi 89 caduti seppelliti in altrettanti loculi nella piccola esedra del suo cimitero. Il 4 novembre del 1918 gli zaratini accolsero in ginocchio lo sbarco delle truppe italiane. Ma col trattato di Versailles del 28 giugno 1919 i firmatori del Trattato di Londra ritirarono la concessione all'Italia di Fiume, di Zara e della Dalmazia. In questo periodo D'Annunzio si ribellò e occupò con i legionari le due città. Il gesto si concluse con la loro successiva annessione (Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 per Zara, Patto di Roma del 27 gennaio 1924 per Fiume).

Il 1919 segnò per Zara promesse e tradimenti, la gioia dell'annessione all'Italia e la disperazione per la vendita alla Croazia. In questo clima difficile e contraddittorio rivelò sentimenti che oggi sembrano irrazionali. È sorprendente il rapporto degli zaratini con la loro città: amore, pazzia, olocausto, gioia di soffrire per la "dea Zara". Anche Roma ed Atena erano divinità. Basta leggere la cronaca del 14 novembre 1919, quando vi arrivò Gabriele D'Annunzio. La cronaca del tempo appare infantile, ridicola, stupidamente divina. Era, invece, poesia, favola, mitologia perché la città appariva come un miraggio italiano in un deserto balcanico e perché essa amava "impetuosamente" quella Roma che non la voleva.

Occupata Fiume, mille legionari di D'Annunzio, "con lo spirito di Mille garibaldini", partono la mezzanotte del 14 novembre 1919 verso Zara contro gli ordini del governo "Cagoia" di Nitti "che non è ancora stanco di vivere morendo". Le navi sono quattro: il "Francesco Nullo" con D'Annunzio, Reina, Giuriati, Rizzo, Casagrande, Host Venturi e Coselschi, il "Cortellazzo", la torpediniera "66 PN" e il "Mas 22" che aveva affondato la "S. Stefano" e che "come un cetaceo, con due lucidi siluri d'acciaio, rompeva a furia le onde sbuffando tra le candide spume". È una santa ribellione con pochi avventurieri. Vengono affrontati dalla nave dell'ammiraglio Millo.

Millo grida: "Rivelatevi". - "Io sono Gabriele D'Annunzio, comandante della città di Fiume".- "Siamo partiti per andare a Zara e ci andiamo".

"Sono le 10 quando arrivano a Zara. La folla ondeggia sul molo. Piange e grida. Dalla fiancata della "Cortellazzo" escono i legionari. Le donne urlano parole incoerenti di saluto e d'amore. "È lui" - gridano. Scende trasfigurato tra fiori, lacrime e cappelli che si agitano. Lo vogliono vedere, toccare. Fiumani e zaratini, sconosciuti, si abbracciano.

Ora, anche Millo è con lui. "Alle ora 10,30 l'ammiraglio Millo riceve il colonnello Gabriele D'Annunzio". Si affaccia sulla terrazza con a fianco il sindaco Ziliotto: "Zara, la Santa, è una pietra dell'Altare della Patria. Millo è il primo Governatore della Dalmazia italiana". La gente acclama. I preti tirano le corde delle campane. È una follia religiosa.

In piazza lo saluta "un urlo immenso". Egli bacia una bambina. "È la frenesia". "Sono venuto qui a piedi per calcare questa terra e sentire il suo palpilo. Se i balcanici scenderanno, voi diventerete, no slavi, ma schiavi". Gli rispondono grida frenetiche e un fragoroso, unanime applauso. Egli spiega al vento la bandiera insanguinata dell'eroe Randaccio come aveva fatto sul Campidoglio a Roma e a Fiume. Grida: "È fatta con i lembi del vostro patimento, è tessuta di fede, è cucita di costanza". La sera ci sono le luminarie, i balli. In piazza la musica. Il manifesto del sindaco Ziiiotto dice: "continuate a piangere di gioia". D'Annunzio visita le porte, le chiese, il Caffè Centrale. Dona stelle con l'aquila d'Italia alle signorine "che gridano più forte il fatidico: "Eia, Eia, Alala". Un manifesto conclude "la solennità dell'ora. C'era nel mondo chi profanava l'anima del popolo e il suono di quelle campane: c'era chi, perduta la fede, si acconciava alle rinuncio. Ma l'anima possente di Zara non ha perduto la fede. Passeranno vendette di uomini, miserie di vili, ma la voce di Dio non passerà".

Questo episodio è un pezzo di antiquariato che racconta una storia romantica, svanita nell'immaginifico dannunziano, ma per lo zaratino, profugo da una frontiera così tormentata e diversa, era un fatto normale. La penisola di Zara si sentiva come una reliquia d'italianità, un'isola, chiusa e pressata da una pesante cornice balcanica. Minacciata dai vicini, rifiutata da Roma, si ricordava di essere stata la Diadora dei Greci. Viveva tra la sacralità delle scritte e dei sarcofaghi romani e il vangelo del cristianesimo, sotto lo sguardo dei Leoni di S. Marco, nel ricordo delle sue galere di Lepanto contro i turchi. Così anche l'esule di Babilonia aveva trasfigurato la sua Gerusalemme in una Patria Celeste. "Noi dalmati siamo una razza strana, variegata, venata di follia e di umorismo, di tenacia e di languori, di fatalismo e di caparbia determinazione". Così scrive la zaratina Myrian Paparella Bracali.

Lo stilista Ottavio Missoni, sindaco del Comune di Zara in esilio, scrive nel luglio 1988: "Sono passati quarant'anni da quel tempo, quando bombardamenti alleati, presenza di militari stranieri, deportazioni, guerra civile, fucilazioni e sofferenze di ogni genere - dalle malattie alla fame, al terrore, all'incubo del domani, all'incalzare di eventi più grandi di noi - ridussero la popolazione zaratina a uno sparuto e miserevole acervo di poveri esseri umani, senza speranza, senza conforto e senza avvenire, nonostante gli sforzi immani del suo ultimo prefetto italiano, l'eroico Vincenzo Sorrentino. Sono trascorsi otto lustri da allora, ma gli zaratini esistono ancora - come gli istriani, i fiumani e gli altri dalmati - per dire al mondo che lo spirito si può spezzare, ma non piegare; disattendere, ma non irridere; ferire, ma non uccidere".

Il medico Merino Rismondo contempla la sua Zara distrutta come una santa Gerusalemme. La prega come un salmista esule. Preso da una "santa pazzia", canta: "Zara immortale rivive, rinata dal nostro indistruttibile amore, ricostruita dalla nostra disperata nostalgia. Ti abbracciamo, Zara, ti invochiamo, elevando il canto della nostra fede, della nostra speranza, della nostra struggente nostalgia". Per questo profeta Zara si è trasfigurata in una divinità come la dea Atena, la dea Roma, il santo paradiso di Gerusalemme per gli ebrei schiavi a Babilonia.

Zara si è conquistata attraverso i secoli i titoli di "Santa" e di "Fedelissima". Fedelissima alla civiltà latina e santa perché lacerata nei suoi focolar!, lapidata, fucilata, annegata, impiccata nei suoi cittadini. È doloroso constatare che la sua memoria non sia stata ricordata ancora con una Medaglia d'Oro,-mentre si ricordano con generosità di medaglie, di monumenti e di cerimonie città, paesi ed episodi con minori titoli. Ma proprio perché non scompaia anche la sua memoria, il medico Rismondo ha costituito in Italia il "Libero Comune di Zara in Esilio". Gli zaratini sanno che la loro città è passata attraverso le dominazioni dei Goti, di Bisanzio, di Venezia, dell'Ungheria, dell'Austria, della Francia ed ora della Jugoslavia. Come si vede la ruota dei corsi e dei ricorsi della sua storia ha seguito itinerari molto strani e veloci. Tra le sue rovine e sopra i suoi morti è rimasto in piedi il frontone del Cimitero con la scritta che è un grido biblico di dolore e di forte speranza, un'invocazione di giustizia per i morti e per i vivi: "Post tenebras lux: dopo le tenebre la luce".